Sono sempre molto intense le giornate dedicate ai Convegni di Toponomastica femminile. Intense, ricche e interessanti.
I lavori di “Donne in Pista”, questo il titolo del VI Convegno nazionale, si sono svolti dal 26 al 29 ottobre nella città di Imola che ha aperto gli eleganti ambienti al primo piano di Palazzo Sersanti, pregevole edificio di origini rinascimentali.
Prima di cominciare questo resoconto, che sarà sintetico per forza di cose, un ringraziamento va alle donne imolesi che hanno organizzato le quattro giornate di lavori e che tanto si sono spese per la loro riuscita: un grazie dunque a Paola Lanzon e, con lei, a Maria Teresa Castaldi, Malvina Mazzotta e Loretta Strada.
Il convegno è stato seguito da un pubblico numeroso e partecipe e, come in ogni occasione di incontro, Toponomastica femminile ha voluto riservare una poltrona a “Posto Occupato” e ricordare in questo modo le tante donne vittime di femminicidio; accanto agli incontri e alle discussioni, ad accompagnare le attività del convegno, la mostra fotografica “Donne e lavoro” allestita al piano terra e al primo piano di Palazzo Sersanti.
Uno dei pilastri che ha sostenuto l’impianto di queste quattro giornate è stato sicuramente quello della didattica. La “scuola di Toponomastica femminile” è stata un filo rosso capace di unire momenti diversi del convegno al quale sono intervenuti dirigenti scolastici e insegnanti di molte scuole italiane, docenti universitarie, rappresentanti Uisp dell’Emilia Romagna, di Fnism e di associazioni ed enti diversi (dal Cai a Libera, da Wikimedia Italia alla Società Italiana delle Storiche, dall’associazione PerLeDonne all’Osservatorio di Genere di Macerata, dall’associazione Acume alla Rete per la Parità, da ANISA Torino a Cà del vento e AFFI) che hanno dato vita a momenti di intenso scambio e confronto.
La “scuola di Toponomastica femminile” è ormai una realtà felicemente consolidata in grado di coniugare, in maniera sempre più consapevole e motivata, l’attività didattica con forme di cittadinanza attiva, operando dentro il lavoro quotidiano in classe e non più solo attraverso progetti aggiunti alla normale percorso scolastico. Le proposte introdotte da Toponomastica femminile sono diventate un modo di “agire dall’interno”, di intervenire con forza e costanza nel consolidamento delle competenze chiave delle/degli studenti, di abbattere le gabbie degli stereotipi, di porre la giusta attenzione al rispetto delle differenze e al valore della parità. Queste buone pratiche, che coinvolgono tutti i soggetti della scuola, sono azioni importanti perché è attraverso di esse che si può giungere al coinvolgimento delle famiglie e, con loro, della società.
Nel corso della prima giornata hanno partecipato al convegno alcune rappresentanze di alunne e alunni provenienti da realtà scolastiche diverse – Imola, Forte dei Marmi, Melegnano, Bassano del Grappa, Lodi, Macerata – per raccontare le loro esperienze “toponomastiche” e condividere i numerosi progetti svolti; in un’altra sessione di lavoro le docenti delle scuole locali hanno potuto esporre i lavori realizzati con le loro classi presentati nella passata edizione del Concorso nazionale “Sulle vie della parità”. A questa prima giornata hanno partecipato anche studenti imolesi della scuola primaria che, negli spazi della Biblioteca Casa Piani, sezione ragazzi, hanno assistito alla lettura con animazione del racconto Una strada per Rita, scritto da Maria Grazia Anatra e illustrato da Viola Gesmundo. Bambine e bambini hanno avuto a disposizione cartelloni e pennarelli e, stesi per terra su tappeti, hanno cominciato a disegnare palazzi e strade, proponendo intitolazioni particolarmente originali e sentite, lavori che, iniziati in biblioteca, avranno svolgimento successivo in classe.
Oltre che di scuola e didattica, durante la prima giornata di convegno si è anche parlato di itinerari di genere: di Imola in primo luogo e delle sue tracce femminili, quelle lasciate da Caterina Sforza, Signora della città nel XV secolo, dalla pittrice Lavinia Fontana e da Eugenia Codronchi, scrittrice imolese conosciuta con lo pseudonimo di Sfinge.
Si è parlato anche di un’altra grande donna legata alla città, Anna Kuliscioff, che visse nei primi anni Ottanta dell’Ottocento a Imola dove nacque Andreina, figlia sua e di Andrea Costa. A questa figura straordinaria, colta, coraggiosa, lungimirante, che lavorò a lungo con le donne e per le donne, è stata dedicata la suite dell’hotel Olimpia nell’ambito della nuova iniziativa di Toponomastica femminile “Camera d’autrice” indirizzata alle strutture ricettive del Paese che condividono i temi delle pari opportunità e intendono valorizzare l’ingegno delle donne.
Sono state narrate le presenze femminili anche di altre città o regioni italiane come Pistoia, con la guida di genere Pistoia e oltre. Tracce, storie e percorsi di donne presentata dalla coautrice Laura Candiani; Terni, con il volume Nera Nahar. Terni, itinerari non convenzionali, raccontato da Manila Cruciani e Luana Conti e, infine, la regione Marche con il testo Le vie delle donne marchigiane curato dall’Osservatorio di Genere di Macerata.
Al termine di questa prima giornata è stata organizzata una passeggiata per le strade di Imola alla ricerca delle memorie femminili; in particolare nelle sale del Museo Diocesano le persone presenti sono state guidate alla scoperta delle figure di donne, m adonne e dee raffigurate nelle opere esposte.
Si parla di tracce femminili perché la memoria di quanto hanno compiuto, pensato, ideato le donne è stato a lungo coperta da scuri coni d’ombra. Non a caso “Uscire dall’ombra” è stato il titolo di una delle sessioni di lavoro della seconda giornata.
Gli interventi di questa sessione si sono concentrati sull’invisibilità femminile che riguarda ambiti diversi: quello familiare che, con la scomparsa dei cognomi materni, continua a celebrare una genealogia solo maschile; quello della storia che, occultando le presenze e i contributi femminili, ha scritto memorie squilibrate e parziali; quello della cultura che ancora oggi registra in Wikipedia, la più grande enciclopedia on line, un divario profondo fra il numero delle biografie dedicate a uomini e quelle dedicate alle donne. La presenza femminile è sottodimensionata anche nel mondo della politica: in questi giorni di discussione sulla nuova legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum 2, non si è data importanza al fatto che ancora una volta nelle liste dei partiti non sia stata raggiunta la pari rappresentanza di donne e uomini: la politica rimane una realtà che esclude. L’intervento della senatrice Josefa Idem, nel corso dei lavori del 28 ottobre, ha confermato “dall’interno” questa situazione. In Italia, come in Germania e in altri Paesi, nei periodi di crisi economica e sociale, la percentuale di rappresentanza politica femminile subisce una retrocessione, dimostrando quanto i diritti delle donne non siano ancora un territorio saldamente conquistato.
Il cono d’ombra è anche quello che ha oscurato e occultato nei manicomi tutte le donne con comportamenti e atteggiamenti difformi rispetto al pensiero e la morale comune: corpi e menti segregate, destini dolorosi di cui si è voluto parlare non solo con interventi e relazioni durante il convegno, ma anche attraverso la visita all’area manicomiale Osservanza di Imola; qui si è potuta rilevare l’assenza di intitolazioni di strade, giardini, edifici che la compongono. Al di là di ogni futura destinazione d’uso, Toponomastica femminile ha lanciato dalla sala di Palazzo Sersanti un invito all’amministrazione: conservare nell’odonomastica dell’intero complesso traccia della funzione originale dell’Osservanza e dedicare ogni singolo spazio a internate celebri (come Alda Merini, Camille Claudel, Nora de’ Nobili, Maria Virginia de’ Medici, Giovanna di Castiglia, Sylvia Plath), a studiose che hanno messo a nudo la condizione sociale delle internate e contribuito a migliorare le loro condizioni di vita, a psichiatre, infermiere, assistenti sociali, psicologhe di rilievo che hanno operato in contesti analoghi.
Al valore del corpo femminile e al suo uso, nel passato come nel presente, è stata dedicata la fase conclusiva della seconda giornata, in cui si è ragionato di molti temi, da quelli storici e politici a quelli legati alla comunicazione e all’immagine, per giungere a un argomento molto drammatico come quello della violenza di genere. Operatrici dei consultori, personale sanitario di pronto soccorso, forze dell’ordine si sono avvicendati nel racconto di questa vera tragedia da contrastare principalmente attraverso la costruzione e il rafforzamento di una rete di aiuti alle donne vittime di violenza. Ma se la prima forma di violenza è cancellare la presenza femminile dalla storia e dalla cultura, è proprio l’indagine storica che può servire a comprendere le radici del problema. La violenza sulle donne da parte del genere maschile ha radici lontanissime e si esprime in forme che si ripetono, drammaticamente, ancora oggi: la segregazione, la costrizione, la violenza fisica, quella psicologica, sono tutte basate sulla persistenza del concetto di minorità femminile, da secoli espressione della cultura maschile; quello su cui è necessario riflettere è che la continuità storica della violenza sulle donne ha trovato, e purtroppo trova ancora, l’appoggio di una parte del genere femminile che approva e sostiene gli stereotipi culturali che la alimentano.
La giornata di sabato 28 ottobre è stata dedicata allo sport e ha visto alternarsi relazioni e contributi molto diversi, collegati fra loro da prospettive di genere.
Tracce femminili nello sport sono state raccontate attraverso le imprese dell’alpinismo, mondo ritenuto maschile per eccellenza perché il coraggio, l’energia fisica, l’audacia sono ritenute virtù solo degli uomini. E invece ecco apparire i nomi di Marie Paradis e di Henriette Dangeville, fra le altre, entrambe scalatrici del Monte Bianco nel XIX secolo. Il loro era un alpinismo avventuroso, scomodo (quanta fatica arrampicarsi con le gonne lunghe!) e poco considerato. Quando a Henriette Dangeville fu riconosciuto il riconoscimento di prima donna ad aver raggiunto la vetta alpina, il tono sprezzante che accolse la notizia fu: “Avete avuto il grande merito di andare sul Monte Bianco ma bisogna convenire che il Monte Bianco ne avrà molto meno ora che anche le signore possono scalarlo”.
Lo sport ha discriminato le donne: basti pensare che la loro partecipazione alle Olimpiadi risale al 1900, oppure che alle sportive italiane viene riservata la condizione di eterne dilettanti pure quando sono atlete di grandissimo livello. È un mondo con molti stereotipi duri a morire, luoghi comuni e ostacoli che non permettono ancora la parità fra i generi. Anche il linguaggio contribuisce a condizionare l’immaginario di tutte/i con l’utilizzo di norme grammaticali e lessicali fortemente sessiste che aiutano a dar vita a un racconto mediatico pronto a proporre una narrazione incompleta delle realtà sportive. Se la presenza femminile è quantitativamente rilevante, non lo è dal punto di vista qualitativo: alle donne viene dato poco rilievo, non sono valorizzate, ricevono trattamenti economici inferiori rispetto ai loro colleghi, sono quasi assenti dalle posizioni apicali e dirigenziali (dal CONI alle Federazioni), ci sono poche giornaliste sportive, rare manager, poche allenatrici guardate spesso con esplicita disapprovazione.
Anche in questo ambito la scuola può intervenire educando alle differenze di genere. Ben vengano quindi attività didattiche mirate, come quelle messe in atto da alcune scuole con attività di orienteering, maratonine, biciclettate lungo sentieri e piste ciclabili intitolate, o da intitolare, alle donne: la presenza femminile nello sport, anche se ancora poco conosciuta, c’è da tempo, va riscoperta e fatte riemergere. A questo proposito l’incontro con il mondo dei motori all’autodromo di Imola ha permesso la conoscenza di due figure molto interessanti. La prima è la pilota Maria Teresa De Filippis, la prima donna a qualificarsi in un Gran Premio di Formula 1 a Montecarlo nel 1958. Soprannominata “Pilotino” è stata ingaggiata per due anni consecutivi, ‘58 e ‘59, dalla scuderia Maserati, la stessa che nel 1957 aveva vinto il titolo mondiale con Fangio. L’altra donna è Dorothy Levitt, prima donna britannica a conquistare due record di velocità, su pista e su acqua. Insegnò a guidare alla regina Alessandra di Danimarca e alle principesse reali; nel 1909 pubblicò un manuale di guida dedicato alle donne in cui raccomandava di portare sempre con sé un piccolo specchio da posizionare all’interno del veicolo per permettere la visuale posteriore durante la guida: in pratica l’inventrice dello specchietto retrovisore prima che questo fosse introdotto ufficialmente nel 1914.
Dopo la visita all’autodromo un altro appuntamento con la città di Imola è stato al Parco delle Acque minerali, attraversato da un lungo viale, “viale degli atleti azzurri”. Le atlete, come al solito, non ci sono. Rinnoviamo la proposta fatta da Maria Pia Ercolini al convegno: perché non intitolare i restanti 12 vialetti (secondari), i 5 larghi, le 2 scalinate, le 2 strade interne ad altrettante sportive nazionali?
Il 7 marzo 2017 la giunta comunale di Imola ha reso pubblico e ufficiale il gap toponomastico (intitolazioni maschili 387- intitolazioni femminili 21), ha accolto le proposte emerse dalle ricerche delle scuole locali e presentate al concorso “Sulle vie della parità”; la delibera n. 36 ha annunciato 23 intitolazioni femminili per le aree verdi cittadine, con figure che spaziano dalla letteratura allo sport, dalla scienza al sindacato, dalla politica alla musica. La politica, si sa, ha tempi lunghi e ancora non abbiamo avuto il piacere di assistere alle cerimonie d’intitolazione. Ma i tempi lunghi danno anche qualche vantaggio: consentono di riflettere sulle azioni e renderle migliori. Perché non prevedere, magari con il contributo delle stesse scuole che hanno lanciato le proposte, l’installazione di QR code che permettano di conoscere la storia di queste donne destinatarie di memoria odonomastica?