Siamo arrivati quasi al termine di questo 2017, e – come ogni anno – il “Time” dedica una delle sue copertine alla “persona dell’anno”. È ironico, quasi, che venga dedicata alle splendide donne che hanno con coraggio denunciato gli abusi subiti ad Hollywood e oltre la copertina di un giornale chiamato “Time”, tempo, momento, epoca, proprio quando il fattore tempo sembra averle discriminate maggiormente e rese oggetto di speculazione e gossip.
Le cinque donne immortalate sono Ashley Judd, tra le prime ad aver accusato il produttore cinematografico Weinstein di molestie; Adama Iwu; Taylor Swift, cantante che ha portato in tribunale con successo il dj David Mueller, accusato di averla palpeggiata durante un concerto qualche anno fa; Isabel Pascual; Susan Fowler, che è riuscita a far licenziare il CEO di Uber, Kalanick, per molestie e discriminazioni sul luogo di lavoro.
Abbiamo assistito ad un dibattito pubblico contrastante che da una parte idolatrava le donne per il coraggio mostrato uscendo allo scoperto e affrontando il mostro faccia a faccia e dall’altra ha tentato di mangiarle, di lederne la forza accusandole di un eccessivo e imperdonabile ritardo sulla tabella di marcia: per molti avrebbero dovuto denunciare prima.
Eppure, eccole, persone dell’anno, donne.
Questa non è che la dimostrazione di come il coraggio e l’audacia, almeno sulla carta, vengano sempre premiati.
Ma rivela anche un mondo confuso, tremendamente confuso sui termini della discussione (tanto da arrivare a domandarsi che differenza ci sia tra abuso, molestia, avances e violenza)e sugli effetti della discriminazione e della sopraffazione. Si è ridotto tutto al fattore “tempo”: se hai qualcosa da rivelare o lo fai subito o ti porti il segreto nella tomba.
Nulla è meno vero quando si parla di violenza contro le donne (e uso il termine ampio “violenza” solo per ricomprendere in senso generale tutte le manifestazioni di sottomissione fisica, psicologica ed economica contro le donne): un palpeggiamento, una battuta troppo spinta sull’abbigliamento indossato o sulla fisicità, attenzioni esplicite e non richieste, ritorsioni in caso di rifiuto, misoginia, stupri, baci non desiderati eppure purtroppo subiti sono tutte forme di violenza che non sempre si riescono a denunciare appena si verificano.
Fattori come la vergogna, la paura di non essere credute, lo sminuimento dell’episodio, la slealtà di colleghi o superiori e, peggio, il timore di atti persecutori a seguito di una denuncia sono cruciali. Si finisce col tenersi tutto dentro, covando emozioni e sentimenti contrastanti, facendo crescere un mostro che mese dopo mese, anno dopo anno, sembra sempre più difficile da abbattere.
Dunque, sì, questa copertina è meritata ed è storica.
Ha sbaragliato ogni forma di concorrenza, tra cui quella di Donald Trump, desideroso di apparire come persona dell’anno per il secondo anno consecutivo, proprio lui che – diciamolo – è il re della sua categoria (che qui non definirò per gentilezza).
Detto questo, la copertina del Time deve però anche indurre un’altra riflessione, che non vuole affatto sminuirne l’importanza ma vuole ampliarne il raggio d’azione.
Dietro quelle cinque donne, ce ne sono molte altre meno fortunate che non hanno ancora potuto e voluto denunciare. Sono donne che non godono di autonomia economica, che non conoscono o non possiedono risorse interne o esterne che le aiutino a risalire la china. Sono le donne che si rivolgono, quando sentono che è arrivato il momento di affrontare il trauma, ai centri di accoglienza e di primo ascolto. Ecco, non dimentichiamo che esistono realtà critiche, in situazione di estremo disagio, che si fanno forza come possono per aiutare tutte le donne che non sono su quella copertina con il corpo, ma che con lo spirito vorrebbero esserci e gridare “anche io ce l’ho fatta”.
Non dimentichiamo che, per queste realtà, per quelle volontarie e per quelle donne, un intervento politico mirato (cioè più finanziamenti nel più breve tempo possibile) può fare la differenza.
Non possiamo proprio perdere più altro… tempo.