L’Equal Pay Act, prima legge sul raggiungimento della parità salariale adottata in Islanda nel 1961, è un po’ l’incipit della storia di un paese che ha sempre fatto delle pari opportunità una bandiera, con l’obiettivo, fino ad ora non ancora raggiunto, di eliminare definitivamente il gender gap tra uomini e donne, mantenutosi sempre attorno al 15-16%.
Parliamo di una giovane terra che ha vissuto intensamente attività sindacale e fervore femminista, culminati il 24 ottobre del 1975 in uno sciopero organizzato dal movimento femminista Calze Rosse, che aveva visto il 90% delle lavoratrici incrociare le braccia invocando la parità. Sarebbe meglio, però, esser precisi, e per rispetto chiamare quella giornata con il suo vero nome: Kvennafrí, o giorno libero delle donne.
Fino a quel momento, sebbene alcune di loro lavorassero, molte donne avevano dovuto accontentarsi di una vita per lo più vissuta tra le pareti domestiche, impegnate in lavori di cura e assistenza, rinunciando a terrene e più virili ambizioni: autonomia economica, autodeterminazione, pari opportunità di accesso al mondo del lavoro e pari appagamento salariale.
Parliamo, però, anche di una terra che da ben 9 anni è in testa alla classifica del report sulla parità di genere, il Global Gender Gap Report, stilato dal World Economic Forum (mentre l’Italia si accontenta, ahinoi, di un triste e vergognoso 82esimo posto e di una differenza salariale che ad oggi si attesta intorno al 12,7%), e che vanta al Ministero dell’Uguaglianza e degli Affari Sociali la presenza di uomo, ebbene sì, di nome Thorsteinn Viglundsson, che tanto ha desiderato l’approvazione della nuova legge, in un Parlamento per il 50% al femminile, che garantisce la parità salariale tra uomini e donne, al momento implementabile in quelle aziende che superano le 25 unità attraverso la presentazione della documentazione relativa alla situazione salariale dei dipendenti e che, se non rispettata, comporta sanzioni.
Questa legge sembra avere il potenziale di cui l’Islanda necessita per il raggiungimento dell’eliminazione del gender gap entro il 2022, in un paese che già vanta quote rosa del 40% all’interno dei Consigli di Amministrazione ottenute grazie a leggi approvate nel 2008 e poi nel 2013.
Inoltre, come se il quadro non fosse già abbastanza roseo, godono anche di un congedo parentale raffinato e inclusivo, che consente sia ai padri che alle madri di usufruire di tre mesi ciascuno più eventuali altri 3 da dividere per fornire al nascituro le cure di cui ha bisogno nelle prime fasi di vita, non vedendosi neanche privati dello stipendio, assicurato per l’80%. E non è un dettaglio da poco. È evidente che un welfare più vicino alle famiglie, unito a pari condizioni di ingresso nel mondo del lavoro, consente di prevenire l’abbandono dello stesso da parte delle donne in stato di gravidanza e di dividere in modo più equilibrato le responsabilità derivanti dalla genitorialità, in un mondo che sembra vedere i padri sempre più consapevoli del proprio ruolo e più contenti, si spera, di un po’ di tempo da trascorrere a casa, in compagnia dei figli.
La domanda che dobbiamo porci è: quando ci arriverà l’Italia?
L’Islanda, un paese naturalmente predisposto all’abbattimento delle differenze di genere, ha avuto bisogno di una spintarella parlamentare per dare il colpo di grazia al gender gap, ma la compattezza del mondo politico, ben oltre i concetti di destra e sinistra, è riuscita a dare un seguito a questa meravigliosa tendenza naturale.
Il nostro paese, invece, che non vanta predisposizioni naturali né compattezza o coerenza politica, come farà? Dire che il femminismo non serva, che sia obsoleto, o definire inefficace l’attività sindacale è come sacrificare sull’altare della parità l’unico strumento che ci resta. L’attivismo è tutto quello che abbiamo, e si dà il caso essere anche il mezzo di pressione più efficace.
Proviamo a rilanciare il tema, in questo 2018 appena iniziato?