Non ha ancora trent’anni ma da tempo in lei essenzialità e professionalità si intrecciano in armonia, dando vita a servizi fotografici di grande originalità, perché Paola Meloni ha un notevole occhio, grande cuore e un’ottima capacità di cogliere l’essenziale e trasformarlo in immagini molto suggestive.
Che si tratti di bambini congolesi che saltano tra le pozzanghere in una giornata di pioggia, di donne africane che non possiedono nulla tranne i loro inediti sorrisi; che si tratti una coppia di sposi sul sagrato della chiesa o di giovani eleganti invitati ad una esclusiva festa in un locale milanese, i soggetti della giovane fotografa milanese sono ritratti che non si accontentano di essere ammirati ma chiedono di più perché danno di più. Sono testimonianze di come la vita che pulsa sia sempre un miracolo di gioia.
Paola Meloni, infatti, eclettica testimone di quello che succede nel mondo– che si tratti di una guerra civile o di una festa in discoteca- manifesta una sensibilità professionale e umana che la contraddistinguono proprio perché sembra avere già trovato un suo stile artistico. Autonoma, indipendente, decisa, sa come muoversi in una realtà di cui vede con chiarezza ombre e luci . Non cede a compromessi, sa quello che vuole e sceglie non quello che le fa comodo ma quello in cui crede.
Ero presente alla inaugurazione della sua mostra, a Milano, intitolata “Babambombo Wow!” in cui la Meloni, impegnata nel reportage sociale, racconta in 68 scatti la situazione in Congo appena prima della recentissima guerra civile ancora in atto che ha già fatto centinaia di migliaia di morti, molti dei quali ritrovati in fosse comuni. La sua mostra sta girando per l’Italia con dodici grandi manifesti in cui alterna bellissime fotografie a testi che contestualizzano la situazione geopolitica.
Ma una delle caratteristiche della giovane fotografa milanese è riuscire a cogliere in ogni situazione un aspetto di luce e a fermare coi suoi scatti un sorriso ed uno sguardo di innocenza e di amore. In particolare ha raccontato la vita del villaggio di Tshimbulu, nel Kasai dove, grazie alla sua attenzione alle emergenze umanitarie, ha passato un anno facendo Servizio Civile.
La sua testimonianza eloquente, il suo atteggiamento deciso ma semplice e privo di risvolti egoici fanno si che riesca a cogliere l’anima e a raccontare storie che arrivano al cuore. Anche quando fotografa le viette del centro storico di Milano. O le strade del Burkina Faso, del Nicaragua o i colori dell’India o della Turchia. O la giungla dove i vietnamiti si sono difesi dagli americani, ma anche un cortile dove danzano spensierati malati di alzheimer, ai quali Paola Meloni si sta dedicando con la stessa attenzione con cui si dedicava ai bambini congolesi prima della guerra civile.
La sua competenza non si ferma a quello che ha già appreso ma continua cercando di ampliare lo sguardo e aprire sempre di più il suo cuore: quest’anno ha completato, ad esempio, la sua formazione in fototerapia e fotografia terapeutica, acquisendo uno strumento ulteriore per dare un senso ancora più profondo alla sua professionalità. E Paola Meloni, che non ho esitato ad inserire tra le altre Donne Eccellenti, non disdegna neppure i servizi fotografici a personaggi “frivoli”, rispetto al suo impegno sociale, come ad esempio Cristina D’Avena, perché lei sa che in ogni situazione, in quella più giocosa come in quella più drammatica, c’è sempre qualcosa di bello da mettere in luce . Come disse Man Ray «La luce può fare tutto. Le ombre lavorano per me. Io faccio le ombre. Io faccio la luce. Io posso creare tutto con la mia macchina fotografica».
*Cosa ti ha spinto a diventare fotografa?
Non sono mai stata molto brava con le parole, però mi è sempre piaciuto molto osservare le persone, i gesti, i comportamenti e le relazioni tra l’uno e l’altro. Mi ha spinto a diventare fotografa la voglia di raccontare storie, mondi e vite a noi lontane, non solo fisicamente ma anche culturalmente. Questo mestiere mi permette ti tenere viva la curiosità di osservare gli altri, di mettermi in relazione con loro e mi da l’opportunità di mettermi sempre in discussione
* Tu sei stata capace di metterti in discussione e grazie alla tua tenacia sei riuscita a trovare la tua strada. Non è stato un tragitto semplice..
Esatto. Dopo avere ottenuto il diploma in ragioneria, avevo scelto di frequentare la facoltà di architettura in Svizzera, a Mendrisio, pensando di abbandonare la fotografia – che era già una mia grande passione – tenendola soltanto come hobby. Dopo pochi mesi dall’inizio della facoltà a Mendrisio però, mi sono resa conto che architettura non faceva per me e che forse era meglio seguire la mia passione, la fotografia. Ho quindi terminato l’anno accademico a Mendrisio e poi mi sono iscritta al corso triennale di Arti Visive / Fotografia allo IED (Istituto Europeo di Design) a Milano, dove mi sono diplomata nel luglio del 2011.
*Cosa cerchi di catturare con una fotografia?
Partendo dal fatto che le immagini che scatto raccontano il mio punto di vista sulle esperienze che vivo e sulle cose che vedo, posso dire che con una fotografia cerco di catturare il bello dell’altro.
*Mi sembra un obiettivo primario. Ma cosa è per te il bello dell’altro?
Ovviamente tutti gli aspetti positivi delle persone! Con le immagini catturo le sensazioni e l’atmosfera del posto, credo.
*Nelle tue fotografie si legge soprattutto la gioia. E’ una tua chiave di lettura della vita?
Direi di si. In un mondo pieno di notizie negative, malessere generale, guerre, tante morti ingiustificate, malattie varie, credo che raccontare un po’ do gioia, di semplicità, e perché no, in alcuni casi, anche un po’ di superficialità sia importante per continuare a crederci. Credo siano queste le sensazioni che spingono la maggior parte delle persone ad amare la vita e a continuare a tenerla viva..
*Ho navigato nel tuo bellissimo sito con servizi fotografici a feste e matrimoni. Ho visto gli scatti nel Congo prima della guerra civile e le foto dei tuoi viaggi avventurosi e quelle dei malati di Alzehimer. Fotografare è secondo te testimoniare la realtà oppure interpretarla?
Testimoniarla interpretandola! Ogni cosa può essere percepita e quindi raccontata in molti modi. Ognuno decide di cogliere e quindi trasmettere quello che reputa più opportuno. E comunque a me interessa raccontare gli altri. Penso che se sparisse di colpo ogni possibilità di fotografare troverei comunque il modo di continuare a raccontare gli altri, anche con altri strumenti!
*E se tu dovessi raccontare te stessa attraverso la fotografa cosa metteresti in luce?
Raccontando gli altri per forza di cose racconto anche me! Non farei altro, già così sto raccontando molto di me!
*Tu non solo racconti gli altri ma stai imparando ad aiutarli a stare meglio con le fotografie. Stai facendo una cosa molto particolare, stai studiando la fotografia come strumento terapeutico..
Si, nel 2016 ho partecipato a un corso annuale di approfondimenti sulla fototerapia e fotografia terapeutica ad Assisi. Partecipando a questo corso di approfondimento mi si è aperto un mondo. La fototerapia, come ogni altro tipo di arte che si vuole utilizzare in terapia, ha una grandissima forza terapeutica. L’immagine utilizzata come strumento terapeutico è molto potente e permette, durante un percorso di terapia, di fare dei salti da giganti. Se s’inserisce l’uso dell’immagine in terapia, emergono aspetti di sè che spesso, utilizzando solo le parole ,non emergerebbero nemmeno in anni di terapia. Come ogni tipo di arte terapia, anche la fototerapia e la fotografia terapeutica possono essere utilizzate in moltissimi indirizzi e per le più svariate problematiche.
* Quindi hai scoperto qualcosa di nuovo grazie a questa formazione?
Da quando ho finito questo corso di approfondimento ho avuto la possibilità di avvicinarmi all’Alzheimer, tramite una compagnia teatrale che lavora con il teatro come forma d’aiuto. Parallelamente, tramite un’Associazione, mi sto avvicinando anche al mondo dei problemi di salute mentale per dare una mano a chi soffre di depressione, ansia o attacchi di panico.
*Ma come avviene un incontro di fototerapia?
Qualunque immagine può essere utilizzata in terapia, dipende da dove si vuole arrivare e dove si vuole portare il discorso. Si può partire da un tramonto, un’alba, un paesaggio in generale, un ritratto, un’animale, un gruppo di persone, un branco, uno stormo, una radice, uno strumento musicale, una scena teatrale, un uomo che corre, una persona che nuota, una montagna innevata, un gesto, un dettaglio e così via. Veramente, qualunque immagine va bene, basta che sia pensata per il gruppo di persone con cui si sta lavorando, perché loro ci si devono ritrovare per poterle scegliere e parlare di sè. Per esempio, con il gruppo di Alzheimer ho selezionato delle foto in bianco e nero, perché loro sono nati con il bianco e nero, e ho scelto degli scatti anni 50/60/70, con oggetti e persone di quegli anni, perché li hanno vissuti pienamente e perché stiamo facendo un lavoro indirizzato sul passato.
* Tu hai fatto il Servizio Civile, perché questa scelta e cosa ha significato per te?
Ho scelto di partecipare al bando per il Servizio Civile Nazionale all’Estero per avere la possibilità di vivermi un’esperienza lavorativa, più lunga di sei mesi, all’estero. Ho fatto domanda per la Repubblica Democratica del Congo perché qualche anno prima ero stata in Burkina Faso ed ero tornata con il famoso mal d’Africa! Sentivo quindi l’esigenza di vivere un’esperienza più lunga di quella che avevo vissuto in Burkina, in Africa.
Credo sia stata una delle esperienze più belle e formative della mia vita sia perché è stata la mia prima esperienza così lunga all’estero e sia perché mi ha dato l’opportunità di rimettermi in discussione, di mettermi in gioco e di aprire gli occhi su altre culture.
*Come immagini che sarebbe oggi la tua vita se tu non avessi fatto il Servizio Civile?
Non saprei, non riesco proprio a immaginare la mia vita senza aver vissuto un’esperienza come il Servizio Civile Nazionale all’Estero! E’ stata un’esperienza importantissima che credo debbano fare tutti, prima o poi. Se rimettessero il Servizio Civile Nazionale in Italia e all’estero e il Servizio Militare obbligatori sarebbe molto formativo per i giovani di oggi.
*Com’era la tua giornata a Tshimbulu, ?
L’esperienza l’ho vissuta assieme a una ragazza italiana che, come me, ha partecipato al bando per il Servizio Civile Nazionale all’Estero. Inizialmente si pensava che avremmo avuto ruoli differenti, mentre alla fine abbiamo collaborato assieme ricoprendo gli stessi ruoli. La mattina ci alzavamo attorno alle 7,00, alcune mattine della settimana andavamo al centro del bambino malnutrito per giocare con i bambini ricoverati, altre mattine invece andavamo nelle scuole nella città per sensibilizzare gli alunni del liceo su temi medici con alcuni infermieri dell’ospedale che ha creato l’ONG con cui siamo partite.
Tutti i pomeriggi invece li passavamo al Centro d’Animazione Socioculturale, dove organizzavamo attività ricreative – calcio, pallavolo, basket, corsi di teatro, corsi di lettura, corsi di lingua francese/inglese/italiano, corsi di fotografia, pomeriggi al cinema e passeggiate in città – per i bambini, gli adolescenti e gli adulti del quartiere.
Alcune sere poi tenevamo aperto il Centro d’Animazione e proiettavamo il telegiornale per gli interessati e, una sera a settimana, organizzavamo il cineforum proiettato nelle piazze, ogni volta in una piazza diversa della città.
*E tu hai fatto tante fotografie, oggi visibili nella tua mostra itinerante “Babambombo Wow!” Perché hai fotografato soprattutto donne e bambini?
Perché con il progetto che ho scelto tramite il Servizio Civile Nazionale all’Estero ho lavorato con bambini e adolescenti, quindi ero in continuo contatto con loro.
Le donne, come in ogni parte del mondo, anche in Repubblica Democratica del Congo svolgono un ruolo importantissimo all’interno della famiglia – anche se questo loro ruolo non viene assolutamente riconosciuto dalla società – Le ho fotografate perché le vedevo nelle loro attività quotidiane. La donna svolge un sacco di compiti e mansioni durante la sua giornata: bada ai figli che di solito sono circa dieci o dodici, gestisce i terreni di proprietà coltivandoli e raccogliendo il raccolto, acquistal’acqua per la casa perché a Tshimbul, non c’è l’acqua corrente, va a vendere al mercato i prodotti del suo terreno e bada alla casa.
* E poi, quando sei partita, è scoppiata proprio lì la guerra civile. Ma qual era la situazione prima della tua partenza da lì?
Quando sono arrivata nella Repubblica Democratica del Congo nel settembre del 2015 la situazione era tranquilla. Anche se si sapeva che ci sarebbero potuti essere dei disordini perché a settembre 2016 ci sarebbero dovute essere le elezioni politiche per eleggere un nuovo Presidente della Repubblica. Quello in carica in quel momento stava portando a termine il suo secondo (o terzo, non mi ricordo) ed ultimo mandato.
A fine luglio del 2016 sono quindi effettivamente cominciati i primi disordini perché il presidente dichiarò, come previsto, che si rifiutava di portare il Paese alle elezioni. E così sono iniziati i primi problemi, principalmente nel Kasai, la regione dove vivevo, perché storicamente è sempre stata la regione per eccellenza dell’opposizione. Anche il capo dell’opposizione politica era nato lì. E così sono cominciati i primi conflitti interni e si sono cominciati a creare i primi gruppi armati pronti ad uccidere chiunque non facesse parte dell’opposizione. Per cui, lungo la strada che permetteva a noi di Tshimbulu, città in cui vivevamo, di andare a Kananga, il capoluogo della regione, per fare la spesa e per prendere il volo per andare a Kinshasa (la capitale), cominciarono a spuntare posti di blocco formati da bambini tra gli 8 e i 16 anni, drogati e armati di bastoni chiodati e macete. Sono arrivati a posizionarne 15 su 80 km di strada, erano tutti bambini formati e pronti a uccidere qualunque militare e qualunque persona facesse parte del partito politico del presidente.
*E voi eravate ancora lì quando sono iniziati i primi blocchi?
Si e a quel punto abbiamo capito che saremmo dovuti andare via il prima possibile da li perché la situazione non poteva che peggiorare. I primi di agosto siamo quindi partiti per Kinshasa, rimanendo li fino alla fine del periodo, un mese circa.
Una volta tornate in Italia, pochi giorni dopo, abbiamo saputo che hanno cominciato a trovare fosse comuni a Tshimbulu e nel Kasai. Il presidente ha continuato a posticipare il giorno delle elezioni e oggi è ancora al potere. A febbraio 2016 un paio di giovani dipendenti dell’ONU sono stati mandati in quelle zone per potere vedere di persona quello che stava succedendo e sono stati trovati morti in un paio di fosse comuni qualche settimana dopo.
*Cos’hai dato, secondo te, alle persone del Congo con la tua fotografia?
Direi nulla rispetto a quello che loro hanno dato a me.
Mi hanno dato molto, difficile da raccontare. Posso dire di avere acquisito più sicurezza in me, più consapevolezza, più maturità. Ho imparato a mettere in discussione alcune delle mie tante abitudini rivedendole e ridando loro il giusto ruolo e la giusta posizione nella mia vita. Mi sono ricordata dell’importanza dei piccoli gesti e ho capito cosa vuol dire essere classificato come “il diverso” in mezzo a tanta gente apparentemente uguale, solo per il colore della pelle.
*La mostra che stai portando in giro ha molto successo, mi pare..
La stanno accogliendo bene, credo! Con le immagini che ho scelto di esporre ho cercato di raccontare una quotidianità che sfortunatamente, da quando sono tornata in Italia, non esiste più. Non sono mai stata interessata a parlare del disagio o del dolore, ma ho cercato sempre di raccontare la gioia, la bellezza e la spontaneità. Questo credo che mi sia stato riconosciuto. In molti mi hanno detto che si aspettavano di trovare fotografie diverse: immagini di malati, di malnutriti o di disadattati. Io invece ho cercato di raccontare alcuni dettagli della città, la giovinezza, la quotidianità, la maternità, la follia.
* Una scelta lodevole, davvero..Come hai organizzato la mostra?
Faticosamente! Fin dal principio sono stata aiutata tantissimo da una bravissima giornalista che ha preso a cuore la mia situazione e mi è stata accanto lungo tutto il percorso dandomi dei consigli utilissimi. Nell’ultimo periodo sono stata affiancata anche da un’altra bravissima persona che mi ha seguita per tutto quello che riguarda l’immagine e su tutti i dettagli tecnici (catering, grafica, proiettore, location, etc).
Ci ho messo circa un anno per organizzare la mostra che ho realizzato lo scorso ottobre a Milano! Come ho già detto è stato molto faticoso, di sicuro ho fatto degli errori ma credo comunque che sia venuta fuori una bellissima serata culturale (che poi era l’aspetto che più m’interessava!). Ho invitato a parlare alcuni esperti di RDC, tre dei quattro sono nativi dell’RDC e trasferitisi in Italia da anni, per dare un’idea del paese oggi.
*Recentemente hai fotografato Cristina D’Avena. Che differenza c’è tra fotografare una star e fare un servizio fotografico di stampo sociale come il tuo lavoro in Congo?
Le differenze sono tante ovviamente! Ma credo sia importante sapere saper cogliere il meglio di ogni situazioneJ! Alla fine Cristina D’Avena rappresenta una parte importante della mia infanzia, ha cantato tutte le canzoni dei cartoni animati che guardavo quando ero piccola! Diciamo che è stato divertente, un tuffo nel passato.
* Quale sarebbe un servizio fotografico che tu vorresti fare più di tutto?
Ci sto pensando!
*E quali sono i servizi fotografici che più ti hanno entusiasmato?
Fortunatamente tutti i servizi importanti che ho fatto mi hanno entusiasmato. Perché un servizio fotografico venga bene deve per forza entusiasmare, bisogna metterci sempre il cuore e lo spirito, se no il servizio a casa non lo si porta! Ricordo uno dei primi servizi che ho fatto, qualche anno fa. Avevo realizzato un servizio fotografico sulla comunità filippina a Milano, è stata principalmente una bellissima esperienza umana. Mi hanno accolto nella loro comunità come se fossi stata una di loro, è stato molto bello! Ora invece sto lavorando su un servizio fotografico analogo, la comunità peruviana a Torino. Bellissima esperienza anche questa, anche loro mi hanno accolto nella loro comunità come una di loro!
*Quando fai un servizio fotografico sei libera di esprimerti come vuoi o devi sottostare a direttive altrui?
Credo che sottostare a direttive altrui non comporti la privazione di espressione. In linea di massima comunque le regole per un buon servizio fotografico completo sono spesso le stesse e se le direttive sono logiche e sensate il servizio non può che riuscire.
*Se tu dovessi presentarti mettendo in luce alcune tue caratteristiche quali sceglieresti?
Intuizione, empatia, emozionalità, ascolto, accoglienza e sintesi.
Grazie Paola!