È tutto l’intero sistema che deve essere rivoluzionato, dai tempi di vita e lavoro alle retribuzioni, dai contratti alle tutele, dalla cultura alle prassi, dalla mentalità all’organizzazione aziendale, perché le discriminazioni di genere siano superate, restino solo un vago ricordo di un tempo che non dava giusto valore alle donne e di fatto creava gabbie nocive per tutti e tutte. Ma fino ad allora dovremo impegnarci su più piani affinché si raggiunga una realtà più equa.
Oltre le statistiche che vedono incrementarsi il numero delle donne occupate, occorre leggere a fondo per comprendere come e perché non è tutto oro quello che luccica. Al di là del metodo di computo degli occupati che lascia qualche perplessità sulla reale qualità e quantità di occupazione, da anni registriamo un numero enorme di “uscite volontarie”. Un report che registra periodicamente i genitori con bambini fino ai 3 anni che si dimettono, mostra un’emorragia silenziosa, che resta privata nonostante qualche cenno temporaneo sui giornali, nonostante il fenomeno sia conosciuto ma con un’attenzione a corrente alternata, perché quando si parla di stato di salute dell’occupazione femminile, si preferisce marginalizzare il dettaglio. Quasi trentamila donne, e questo è solo il numero della punta dell’iceberg, fanno questa scelta. Nella parte sommersa dell’iceberg restano coloro che vedono esaurirsi il contratto a termine senza che venga rinnovato, oppure coloro che sono costrette a lavorare senza un contratto e non hanno mai avuto diritti. Perché si sa che se vuoi lavorare, se devi lavorare accetti tutto, anche perdere tutele e garanzie. Eppure il lavoro è citato nel primo articolo della nostra Costituzione.
Non ne ho scritto per qualche giorno. Non avrei voluto scrivere, devo dire la verità. L’ho fatto ogni anno e quella relazione mi ricorda a che punto sono e perché. Parlo in prima persona, perché la formula impersonale in questo caso non avrebbe senso. Non c’è rammarico, solo la sensazione che poi di quelle donne nessuno si preoccuperà di seguirne le vite e i destini, nessuno cercherà di capire quanto una firma volontaria inciderà sul loro futuro e che corso prenderà la loro esistenza.
In Italia le dimissioni volontarie sono state 37.738. Secondo i dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro che le convalida, nel 2016, le donne che si sono licenziate sono state 29.879. Tra le mamme, 5.261 sono i passaggi ad altra azienda, spesso con ruoli e mansioni elevate, mentre tutte le altre (24.618) hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino (costi elevati e mancanza di nidi) o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Per gli uomini la situazione è invertita, la maggior parte lascia il lavoro per passare ad altra azienda.
La Lombardia, a dispetto dell’aura all’avanguardia di cui spesso si fregia, è in testa con 8.850 dimissioni, di cui 3.757 sono dovute al passaggio ad altra azienda e 5.093 sono legate a motivi familiari. Meno guadagni più aumenta la spinta a dimetterti, perché si rinuncia a troppo dal lato emotivo e non si ha nemmeno la possibilità di trovare un adeguato sostegno. Le donne, 6.767: quasi la metà (3.105) si sono licenziate per mancato accoglimento al nido, assenza di parenti di supporto e elevata incidenza dei costi di assistenza del pargolo.
Non c’è inversione, no. Non sono numeri piccoli, sono migliaia. Migliaia di quei casi che possiamo registrare, perché ci sono regole. Migliaia che non parlano di cosa succede dopo i tre anni o di quante “restano”, stringendo i denti e subendo mobbing e pressioni di ogni genere.
Sapete cosa significa diventare mamme e non avere nemmeno un messaggio di auguri dai colleghi? Sapete cosa significa rientrare e sentirsi aliene? Sapete quante sono le donne che vanno in pezzi? Nessun monitoraggio sul “dopo”, solo un grande buco nero, una sorta di abbandono alle proprie sorti, una dimensione nella quale competenze e capacità sembrano essere state svalutate, causa maternità.
Tutto sommato, in generale, non c’è la giusta attenzione perché anche tra donne non sempre c’è. Tutto è questione privata, ancora quasi del tutto sulle spalle delle donne, che non sono considerate come valore sociale ma come peso e costo aziendale, che è preferibile dismettere, al pari di un macchinario divenuto improvvisamente meno efficiente. Non c’è una responsabilizzazione delle istituzioni e delle imprese a modificare approcci e organizzazione. Si preferisce tagliare o invitare ad un autonomo “delete”.
Ecco che il benessere delle donne tutte viene sacrificato e facilmente derubricato a questione secondaria.
Non è solo una questione di giustizia, no. È una questione di civiltà, di diritti fondamentali, di un’attenzione verso chi ha dovuto scegliere senza avere alternative, verso chi pur potendo dare tanto è stata ripagata con un muro, a cui è stata di fatto negata la possibilità di tenere insieme, con un buon equilibrio, vita privata e lavoro. Questa visione miope ha ripercussioni gravi non solo sulle singole vite, ma anche sull’intero sistema Paese. Se traballa e ha un equilibrio instabile è anche perché si è di fatto rinunciato a coinvolgere pienamente e degnamente le donne, le si è sempre costrette ad adeguarsi a modelli progettati per gli uomini, pena l’esclusione.
“Un dato che merita riflessioni approfondite e che rende evidente come, fra le tante problematicità storiche del nostro mercato del lavoro, quella di genere meriti particolare attenzione”, così si sono espresse la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti e la responsabile Politiche di genere Loredana Taddei.
In Europa assistiamo a un medesimo fenomeno: al crescere del numero di figli la forbice tra uomini e donne aumenta, i primi lavorano di più, le seconde lavorano di meno, sia in termini di effettiva partecipazione che il numero di ore lavorate (si veda il problema del part-time involontario). In Italia e Spagna questo trend è particolarmente preoccupante e duraturo. In Italia: uomini senza figli al 67,3% e donne al 51,9%, uomini con un figlio al 79,3% e donne al 56,7%, uomini con due figli al 86% e donne al 55%, uomini con tre figli o più al 81,8% e donne al 43,8%. Il 32,7% delle donne lavora part-time, a fronte dell’8,2% degli uomini.
Ma il problema non è solo lavorare, ma quanto siamo retribuite, fattore cruciale come abbiamo visto nella scelta se restare o lasciare il posto. Quando vi è la necessità di lavoro di cura, le famiglie automaticamente e razionalmente scelgono che se ne occupi la persona che ha condizioni di lavoro meno favorevoli. Il più delle volte, si tratta della donna.
Eppure per un cambio di mentalità e di prassi basterebbe iniziare a lavorare più attentamente su pari conciliazione, partendo dai congedi per i padri. Qui un buon esempio.
Un modo per iniziare a scardinare ruoli stereotipati e redistribuire i pesi, senza che vi siano ripercussioni di carriera su nessuno/a.
In Europa le donne sono ancora pagate in media il 16,3% in meno rispetto agli uomini.
Negli ultimi anni il pay gap è rimasto più o meno stabile, perché le donne hanno tendenzialmente un tasso di impiego inferiore rispetto agli uomini, lavorano in settori caratterizzati da retribuzioni più basse, vengono promosse meno di frequente, specie se decidono di avere una famiglia, sperimentano più interruzioni di lavoro nel corso della loro carriera professionale e devono accollarsi un numero maggiore di mansioni o attività non retribuite.
La Commissione europea ha presentato un piano d’azione per affrontare il problema del divario retributivo di genere per gli anni 2018-2019.
L’attuazione del piano da parte di tutti i soggetti interessati dovrebbe:
– migliorare il rispetto del principio della parità di retribuzione, valutando la possibilità di modificare la direttiva sulla parità di genere;
– ridurre lo svantaggio connesso alle mansioni di accudimento familiare, sollecitando il Parlamento europeo e gli Stati membri ad adottare rapidamente la proposta dell’aprile 2017 sull’equilibrio tra vita professionale e vita privata;
– infrangere il “soffitto di cristallo”, finanziando progetti volti a migliorare l’equilibrio di genere nelle imprese a tutti i livelli di gestione e incoraggiando i governi e le parti sociali ad adottare misure concrete per migliorare l’equilibrio di genere nei processi decisionali.
Per approfondire, qui ci sono i dettagli del piano.
Secondo l’indagine Eurobarometro pubblicata a novembre 2017, la parità di genere non è ancora raggiunta negli Stati membri dell’UE, anche se si nota un certo margine di miglioramento.
È emerso che:
· La parità di genere è importante per la maggior parte degli europei: secondo nove europei su dieci promuovere la parità di genere è importante per la società, per l’economia e per loro stessi personalmente.
· Sono necessarie più donne in politica: metà degli europei ritiene che ci dovrebbe essere una maggior presenza di donne nei posti politici di comando e sette europei su dieci si dicono a favore di misure giuridiche che garantiscano la parità tra uomini e donne in politica.
· L’equa condivisione dei compiti nei lavori domestici e nell’accudimento dei figli non è ancora realtà: più di otto europei su dieci ritengono che l’uomo debba farsi carico in ugual misura dei lavori domestici o usufruire del congedo parentale per prendersi cura dei figli. La maggioranza (il 73%) pensa tuttavia che le donne continuino a dedicare più tempo degli uomini alle incombenze domestiche e familiari.
· La parità di retribuzione è un elemento importante: il 90% degli europei dichiara che è inaccettabile che le donne siano retribuite meno degli uomini e il 64% è a favore della trasparenza retributiva come veicolo di cambiamento.
Qui trovate il testo completo dell’indagine.
Sarebbe importante che la trasparenza salariale diventasse una regola certa in ogni azienda, anche nel nostro Paese. In Italia le aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti sono obbligate a redigere, almeno ogni due anni, un “Rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile”, una specie di check up dello stato di salute della parità in azienda, dalla distribuzione dei premi al trattamento salariale, trattamento delle madri lavoratrici ecc. Le consigliere di parità, il cui prezioso lavoro andrebbe rifinanziato adeguatamente, esaminano questi documenti per verificare se vi siano anomalie e nel caso intervenire.
È tutto l’intero sistema che deve essere rivoluzionato, dai tempi di vita e lavoro alle retribuzioni, dai contratti alle tutele, dalla cultura alle prassi, dalla mentalità all’organizzazione aziendale, perché le discriminazioni di genere siano superate, restino solo un vago ricordo di un tempo che non dava giusto valore alle donne e di fatto creava gabbie nocive per tutti e tutte. Ma fino ad allora dovremo impegnarci su più piani affinché si raggiunga una realtà più equa.
Illustrazione di apertura di Olimpia Zagnoli ©
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