Il movimento delle donne degli anni Settanta disertò la maternità e quindi questa restò esclusa dal discorso femminista. Cosa poteva essere più sovversivo che rifiutare la maternità? Se la natura aveva reso schiave le donne, la cultura le avrebbe libere. Ma con gli anni ed il passare del tempo la situazione sociale e femminile è cambiata e sono state sdoganati molti temi una volta scabrosi come mestruazioni, masturbazione, orgasmo.
Abbiamo voluto parlarne con Monica Lanfranco, femminista e mamma che ha di recente presentato il suo libro ”Parole madri: ritratti di femministe”” durante un incontro milanese alla casa della Cultura. Nel testo vengono raccolte le interviste a molte femministe con la loro parola su cosa ha significato e significa la maternità. Le intervistate: Eleonora Bonaccorsi, editrice – Marina Cinieri, esperta d’infanzia e formatrice . Laura Cima, ex parlamentare e ambientalista – Viky Franzinetti, traduttrice – Paola Lanzon, presidente del Consiglio comunale di Imola e dirigente Uisp – Beatrice Monroy, scrittrice e narratrice – Rosangela Pesenti, counselor e scrittrice – Agnese Prandi, attivista nella rete scuole libertarie – Daniela Rossi, pittrice e scrittrice – Nadia Somma, giornalista e fondatrice del centro antiviolenza Demetra Federica Tourn, giornalista – Lorella Zanardo, scrittrice e media attivista
Il libro è disponibile in forma cartacea e in formato elettronico: al sito www.monicalanfranco.it
e sul canale youtube https://www.youtube.com/channel/UC_eyHACQAAXVMDGvYd7F6jw
Perchè maternità e femminismo sono state spesso viste come antitetiche? Cioè come è possibile che la mente e le idee comandino sulla natura procreativa?
Credo che il dilemma che ha contrapposto maternità e femminismo e che forse ancora le potrebbe contrapporre possa essere analizzato partendo dall’analisi che ci offre la premio Nobel Shirin Ebadi. Nel nostro mondo evoluto che gode di un relativo benessere materiale c’è ancora moltissima miseria simbolica, e la violenza sessista è parte in causa di essa. E non è possibile omettere che molta parte di questa miseria e di questa cancellazione è, insieme all’inconsapevolezza maschile, responsabilità anche delle stesse donne: le donne, in quanto madri, sono, come dice la premio Nobel Shirin Ebadi, avvocata femminista iraniana, le prime portatrici di sessismo.
Con un’immagine retorica, efficace e dolente, Ebadi afferma che il sessismo ‘è una malattia mortale trasmessa dalle donne alla prole attraverso il latte materno’.
Perché è proprio così: il fatto gravissimo è che spesso sono le donne stesse, come educatrici, madri, adulte di riferimento che tacciono, sottovalutano, rimuovono l’ovvio. Se educhi un cucciolo d’uomo all’indulgenza verso la svalutazione della femmina, a maggior ragione essendolo tu una femmina, e incarnando l’inferiore, il risultato sarà che avrai creato un formidabile nemico del tuo genere, un essere arrogante, ignorante e meschino, incapace di rapportarsi con l’altra da sé se non in termini di sopraffazione e dominio.
Sembrerebbe, così, inesorabile la condanna alla responsabilità delle madri nel riperpetuarsi della piaga più diffusa sul pianeta, se non fosse che la seconda parte della frase di Ebadi ci aiuta a trovare la chiave per modificare questa realtà.
“Come può una donna che non ha fatto mai esperienza di libertà per sé passarla ai propri figli e figlie?” si domanda Shirin Ebadi. Ecco qui la rivelazione.
La maledizione che passa con il latte materno, quel nutrimento che diventa il velenoso alimento dello stereotipo violento della donna preda e dell’uomo cacciatore in tutte le sue varie declinazioni può essere ribaltata e diventare una benedizione, se con il latte si passano autodeterminazione, responsabilità, libertà, rispetto, valore delle differenze, empatia. Qui si situa l’aspetto rivoluzionario della maternità: nutrire ed educare con una cultura femminista, quindi liberante per uomini e donn
Molte femministe poi, come molte di quelle da te intervistate per il libro, sono diventate madri. E’ stata una rinuncia o un arricchimento?
La rinuncia sta nelle condizioni materiali che, spesso, sono ancora a sfavore delle donne che scelgono di essere madri. La schizofrenia della modernità sta nell’osannare la maternità da una parte, con gli spot dei pannolini facilmente chiudibili, della remise en forme senza problemi, dell’inclusione della scelta materna in ogni situazione collettiva e dall’altra con la penalizzazione sul lavoro e nella vita sociale di chi viene percepita come una che esce dal circuito produttivo, e di fatto tradisce la produzione con la riproduzione. Se fosse vero quello che propugnano le pubblicità levigate sulla mamma perfetta scattante e felice la cultura e la società sarebbero orientate a costruire ogni struttura collettiva, dal mondo del lavoro in poi, sui bisogni e i tempi delle donne. Ma siamo molto lontane da questa prospettiva. Le femministe che ho intervistato sono tutte, ciascuna a modo loro, anche testimoni della sfida a questo stato di cose.
Quando sono nati i tuoi figli desideravi fossero femmina per tramandare in loro le tue idee femministe?
Sì, la mia narrazione interiore era quella di una madre femminista che ‘ovviamente’ si riproduce per analogia e mette al mondo una bambina. Ho desiderato una figlia femmina perché avevo nostalgia di me bambina, e il piccolo corpo di Luna che volevo mettere al mondo (così avevo deciso si sarebbe chiamata mia figlia) era il desiderio covato nella pancia durante i mesi della gestazione, il mio modo di sentirmi forte e realizzata, nell’autoproduzione di una me piccina. Ma oggi, madre di due figli maschi ormai giovani uomini, capisco che la vera sfida che mi aspettava era quella di mettere al mondo l’altro da me, provando a scongiurare la paura di fallire creando un ‘nemico’ del mio genere realizzando invece l’offerta al mondo di due maschi empatici e capaci di essere compagni di strada nonviolenti delle donne che incontrano e scelgono.
La maternità ha modificato le tue idee femministe?
No, mi ha offerto in più rispetto a prima la possibilità di confrontami con nuovi interrogativi e provare ad affrontarli e provare a dare loro risposte. In un vecchio manifesto femminista che ho appeso alle mura di casa c’è scritto: “Si nasce da una donna perché lei sceglie”.
La scommessa aperta con Parole madri-ritratti di femministe.Narrazioni e visioni sul materno è stata quella di capire se, e come, la doppia scelta di dirsi, ed essere, femminista e poi madre modifichi anche nella realtà le relazioni e cambi il discorso, nel privato come nel pubblico. E quindi ecco alcune domande: essere femminista ed essere madre cambia lo sguardo e la pratica materna verso chi si mette al mondo così come nel resto dei rapporti umani? L’analisi critica del femminismo riesce a condire anche l’essere una madre con la sua carica di apertura di contraddizioni dentro al privato e al politico?
Quanto del potere generativo della maternità di carne (con il suo bagaglio di assoluto e di assolutizzante) siamo disposte a cedere per trasformare dentro e fuori i legami familiari? Di domande ce ne sarebbero molte altre, che mi hanno accompagnata, e mi accompagnano nella vita di tutti i giorni mentro provo a tenere insieme i vari aspetti del mio agire, nel privato come nel pubblico.
Avere un figlio non importa chi sia il padre è un desiderio corretto?
Nel libro Laura Cima fa un invito preciso alle giovani donne: “Da madre femminista (pure nonna femminista!) dico ad una giovane che se ha desiderio di essere madre lo deve diventare, senza esitare, senza rimandare. Tutte le difficoltà (non hai lavoro, non hai la casa) devono essere accantonate, perché questo desiderio ti può aiutare a trovare soluzioni. Se tu invece rinunci e aspetti ad avere una situazione migliore e ottimale finisce che non lo fai. A tutte le donne dico: stabili o no, se avete questo desiderio grande di essere madri realizzatelo. Quando ero giovane non è che fosse più facile di adesso: forse avevamo più coraggio. Mi rifiuto di pensare che, per quanto la crisi sia drammatica, si debba rinunciare a vivere, smettendo di desiderare”. In questo monito c’é anche il considerare che si può sbagliare nella scelta del compagno e quindi del padre dei propri figli e delle proprie figlie. Direi che il fatto importante é che se ci si accorge che il compagno é inadatto é bene allontanarsi: troppe donne ancora oggi vengono educate a ‘sopportare’ un legame per un presunto ‘bene’ della prole. Credo sia profondamente sbagliato: una donna infelice e vessata non é una buona madre e i figli e figlie non crescono in armonia se la situazione tra le persone adulte in famiglia é tesa o peggio. Padre é chi in definitiva cresce i cuccioli, non chi ha fecondato la madre. Si auspica che sia la stessa persona, ma non é detto.
Una donna senza figli non ha un nome nel vocabolario italiano oltre all’accezione negativa ‘’sterile’’ come tu racconti nel tuo libro. Questo vuol dire qualcosa? La donna è fatta solo per procreare altrimenti non esiste?
Si, spesso é così in una visione patriarcale ancora radicata.
Circa 40 anni fa ad una collega del giornale il Manifesto maggiore d’età e di esperienza proposi una inchiesta sulle differenze di vita e di esperienza tra madri e non madri (così dissi, anche perché non c’è una sola parola in italiano che indichi la condizione di una donna che non ha figli: è necessario mettere il non davanti).
Mi fu risposto che non esisteva una categoria di donne non madri. Non osai ribattere davanti a tanta sicurezza. Quell’inchiesta non venne alla luce, ma negli anni il rovello che mi seguiva pungolandomi a cercare di capire come, e quanto, incidesse la presenza contemporanea nelle esistenze femminili della scelta di maternità con quella dell’impegno femminista non si placò.
Crebbe, il rovello, stimolato ancora di più da una costatazione: se manca la parola per dire di una realtà, quella della scelta di non mettere al mondo, significa che esiste un inciampo, un vuoto, una carenza insidiosa in questo campo che dal linguaggio diventa concretezza.
Come può essere che l’unico termine per indicare l’assenza di figli e figlie sia una parola il cui senso è carico di dolore e assenza, cioè sterile, un termine che diventa etico quando indica, contrapposto a fecondo, l’assenza di vita, gioia, creatività, ricchezza?
Fa riflettere come di rado si dica di un uomo che è sterile, mentre il più delle volte l’attributo è riferito ad una donna. Appunto: se non sei feconda (anche nel senso fisico) sei in difetto rispetto al dover essere della femminilità, e hai tradito le aspettative, il destino al quale il tuo genere ti ha consegnato.
Nel mio percorso scolastico, dalla metà degli anni ‘60 in poi, le poche figure femminili che ricordo erano citate per valorizzarne, il più delle volte, la fedeltà al modello di madri protettive e orgogliose.
Nella mia memoria aleggia Cornelia, la madre dei Gracchi (la troverete nominata in questo modo in ogni enciclopedia), memorabile perché disse dei suoi due figli maschi Tiberio e Caio Gracco: “Ecco i miei gioielli”.
Dell’unica figlia femmina rimasta in vita (Cornelia partorì ben dodici volte) sappiamo solo che si chiamava Sempronia (evidentemente non così importante da annoverare tra i preziosi di famiglia) e, se non fosse stato per i due virgulti, Cornelia sarebbe l’ennesima donna inghiottita dall’oblio della storia ufficiale.
Volendo fare la spiritosa potrei anche chiosare che Sempronia è resa memorabile attraverso il suo maschile, Sempronio, sempre in bocca nella vulgata italica quando si citano sconosciuti (Tizio, Caio, Sempronio…).
Più seriamente, nel suo L’aggressività femminile Marina Valcarenghi scrive, rispetto all’ipertrofica mitologia della madre orgogliosa e oblativa: “Le tante Leto, le Niobe, le così numerose madri dei Gracchi e tutte le loro emule smetteranno di nuocere quando potranno esistere in prima persona e non quando saranno costrette in altre forme, forse oggi meno fastidiose per l’immaginario maschile, di dipendenza. E gli uomini, da parte loro, dovranno imparare ad amare prima o poi donne che non vivranno in funzione dei loro bisogni, spirituali o materiali che siano. Ma questo è un argomento che riguarda la loro dipendenza, non la nostra.”
Sin dai banchi di scuola impariamo la cultura nelle sue varie declinazioni e ci formiamo su un catalogo del sapere nel quale le donne sono sistemate, secondo la visione patriarcale (alimentata spesso dalle stesse insegnanti), tra chi vale perché assolve alla funzione riproduttiva e chi è di seconda scelta, meno valida, fallata, sbagliata, mancante, monca e incompleta perché non madre.
Le donne senza figli o figlie destano, nell’inconscio collettivo, il sospetto di qualche anomalia, un’incompletezza dolente, inquietante o provocatoria.
La cara amica scrittrice Sandra Verda, uccisa qualche anno fa dalla malattia sulla quale scrisse un libro che aiutò molto chi ne soffre, Il male addosso, raccontò su Marea la sua esperienza (fallita) di fecondazione assistita, non potendo restare incinta a causa delle devastanti terapie. Pur appoggiando il referendum contro la legge 40, Sandra mise in guardia sugli aspetti oscuri del desiderio, a tutti i costi, della maternità di carne, desiderio che, per lei, rischiava di diventare ossessione.
“La coscienza di non poter comunque, nemmeno in potenza, diventare madre mi ha costretto ancora di più a scavare in me stessa fino al fondo del mio essere, ed è lì che ho capito dove nasceva il dramma: la società in cui nasciamo e cresciamo costruisce, forse anche in parte inconsapevolmente, le femmine perché diventino soprattutto madri, non importa quale prezzo da adulte toccherà loro pagare. Regalare ad una bambina una bambola equivale ad una pistola giocattolo, è educare alle armi, è insinuare nella loro psiche un binomio indissolubile: donna vuol dire madre.
Sono stata cresciuta per essere Sandra-madre e non semplicemente Sandra e averlo compreso mi ha fatto accettare la sterilità, rinascere con una nuova consapevolezza femminile e riprendere finalmente, a trentadue anni, possesso di tutta me stessa. Qualche tempo dopo ho avuto la possibilità di diventare madre con la fecondazione assistita eterologa, impossibile dimenticare quel pomeriggio in cui mi fu riscontrato un magnifico utero e un portentoso bacino capace di contenere ampiamente tre o quattro creature, impossibile non ricordare quella felicità totale, immensa, inebriante. Ma era una trappola nella quale anche io sono caduta.”
Ha fatto molto discutere il recente caso dell’artista Marina Abramovic, che ha dichiarato di aver interrotto diverse volte la gravidanza e ha avuto parole molto crude sulla sua scelta, attribuendo alla maternità il carattere di zavorra per la carriera delle donne. E’ a ncora così troppo spesso.
Insegnare ai propri figli la via al femminismo è possibile, con l’esempio personale, o il femminismo è morto come vorrebbero molti uomini?
Anche molte donne lo pensano, ma sbagliano. Il femminismo é pensiero e pratica incarnata, quindi dove c’é una femminista c’é femminismo, e anche insegnamento femminista.
Mia figlia è femminista ma il suo femminismo è diverso dal mio. Le nuove generazioni si allontanano dal femminismo o lo ricreano? Ed in che cosa differisce?
La mia maestra per eccellenza, Lidia Menapace, compie 94 anni nel 2018, ed é ovviamente diversa da me per esperienza, vissuto e scelte. Ma se non ci fosse stata lei e le donne come lei io non avrei potuto ereditare il femminismo incarnato. Quindi sì, siamo diverse, talvolta ci si allontana da alcuni aspetti e visioni delle più adulte ma ricreando pratiche e pensieri si continua la genealogia.
E’ possibile trasferire le idee del femminismo in un giovane d’oggi, maschio, nostro figlio?
Sì, come dice Emma Watson nella sua dichiarazione alle Nazioni Unite nel discorso d’investitura come testimonial della campagna HeforShe il mondo ha bisogno di uomini femministi e anche di femministi involontari. Difficilmente dei bambini, e successivamente dei ragazzi, figli di madri femministe, se il legame é stato pur conflittuale ma fecondo e rispettoso saranno uomini violenti e non empatici con le donne. Penso che l’esempio e la passione di attivista femminista sia contagiosa e utile anche per i nostri figli maschi: li rende più consapevoli, autocoscienti e capaci di assumere anche l’altro punto di vista, liberando anche il maschile della gabbia sessista del machismo. Come ebbe a scrivere Robin Morgan nel suo Il demone amante: “Essendo qui, e sapendo ciò che so, non posso scegliere altro che di inventare un modo diverso di vivere. Non posso, però, farlo da sola. Ed è qui che entri in campo tu.” Mi sembra un buon viatico anche per gli uomini che vogliono lavorare per il cambiamento delle relazioni umane.