Patrizia Di Costanzo si racconta attraverso uno slalom ricco di intermezzi divertenti e aneddoti delle storie reciproche che ci fanno sentire complici e sodali.
Patrizia arriva al nostro incontro in un “look total black” rotto da un divertente mantello rosa. Al primo sguardo mi ricorda qualcuno – ecco, sì, Gabriella Ferri, straordinaria artista che seppe coniugare talento, passione, originalità ad un autentico anticonformismo; e d’altra parte siamo al Testaccio, il quartiere romano di origine della Ferri. Di fronte ad un buon prosecco, in un consesso tutto al femminile ci “raccontiamo” e Patrizia si racconta attraverso uno slalom ricco di intermezzi divertenti e aneddoti delle storie reciproche che ci fanno sentire complici e sodali.
Architetto dalla fine degli anni ’70, Patrizia si è laureata alla Sapienza a Roma, dove vive e lavora.
Dopo la laurea costituisce con due soci il Gruppo Architetti Romani (G.A.R.), attivo fino al 1981, nell’ambito dell’architettura pubblica e residenziale, nell’interior design e nella grafica, nell’ industrial design ed exhibit design, ottenendo segnalazioni e pubblicazioni nazionali ed internazionali.
Patrizia è stata una pioniera dell’organizzazione dei primi bookshop museali in Italia e per la società Artesia del Gruppo Jacorossi, si occupa nel 1990 della selezione di oggetti di design e di autoproduzioni di artisti, creando il primo caso italiano di vendita di oggetti d’arte e di design al museo.
Nel 2000, in piena esplosione del concetto di globalizzazione, riflettendo sul concetto, “think global, act local”, ha ideato e diretto il magazine solointerni (Terra Nova Editore, Roma), mensile di servizio sui temi dell’architettura d’interni, di arredamento, arte, design e notizie storico-formative sui quartieri romani per dare la possibilità di vivere in modo consapevole e riappropriarsi della vita ambientale e culturale della città, un mezzo informativo per raccontare con immagini e testi le sue trasformazioni.
Affiancando all’attività più propriamente progettuale, una forte propensione alle attività culturali, crea lo studio pdc, progetti di comunicazione che rappresenta con un marchio, acronimo, anche, del suo nome – Patrizia Di Costanzo, appunto – perché crede che la comunicazione sia la chiave di volta per produrre buone relazioni e quindi buoni risultati.
Docente di Design Management allo IED (Istituto Europeo di Design) e allo IED Master, di Roma e socio ADI (Associazione per il Disegno Industriale), è coordinatrice del Dipartimento Distribuzione e Servizi, ADI Nazionale, membro del CdA della Fondazione Compasso d’oro ADI e fa parte della Commissione ADI Food Design.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
I miei genitori, anticipando i tempi, mi hanno insegnato l’indipendenza e l’autonomia come valori fondanti della mia esistenza e mai si sono opposti alle mie scelte. Ma quando decisi all’improvviso, poco dopo l’esame della maturità liceale, di iscrivermi ad architettura – facoltà frequentata dal mio ‘ragazzo’ di allora – si opposero in modo autoritario, pensando che la mia scelta non fosse una decisione ponderata, ma semplicemente dettata dalla frequentazione sentimentale. Furono mesi intensi e pieni di dubbi sul mio avvenire ma mentre frequentavo la facoltà per meglio rendermi conto, pur non essendo ancora iscritta, verificai che era la naturale continuazione degli studi umanistici che già avevo intrapreso con il liceo classico appena concluso ed un interessante approfondimento anche di materie scientifiche, di cui ero carente, ma che mi incuriosivano sia per gli argomenti trattati che per una sfida con mio padre, essendo lui appartenente di quel mondo scientifico fino ad allora per me apparentemente incomprensibile. La decisione venne quando pensai che le scelte devono essere affrontate con le proprie personali responsabilità e seguendo le proprie passioni, per fronteggiare con consapevolezza anche momenti di difficoltà e di incertezze che la libera professione ti riserva. Pur di raggiungere l’obiettivo andai a lavorare, per permettermi l’iscrizione all’Università senza dipendere dai miei, che poi si dimostrarono miei sostenitori, in quanto convinti che la mia era stata davvero una valutazione responsabile, confortati anche dai successivi risultati negli studi intrapresi. Riscattai così anche la stima di mio padre sulla formazione scientifica che fino ad allora mi era mancata.
Architetto o architetta?
Non ho mai pensato che la professione appartenga ad un genere.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
L’architettura è la disciplina che ha come scopo l’organizzazione dello spazio a qualsiasi scala, ma principalmente quella in cui vive l’essere umano per offrirgli l’esistenza più armoniosa possibile.
Detto questo, ritengo che l’architettura oggi debba riappropriarsi di una visione culturale e sociale. Questo mestiere è fatto di ascolto delle persone e dei luoghi, di riflessione, di valori, di visioni. Da antica arte di produrre ripari, oggi va oltre il solo aspetto dell’utilità. “La vera architettura è sempre oggettiva, ed è espressione dell’intima struttura dell’epoca nel cui contesto si sviluppa.”
Ludwig Mies Van der Rhoe.
A chi ti ispiri?
Ormai è un metodo che si è formato in me, attraverso esperienze acquisite lungo un intenso e trasversale percorso professionale che mi sarebbe difficile qui elencare, ma sicuramente posso affermare che in ogni situazione da affrontare – dalla ristrutturazione di un piccolo appartamento agli interventi su più grande scala, alla consulenza strategica e di comunicazione per aziende, alla curatela di una mostra o ai contributi in ADI (Associazione per il Design Industriale) – non esiste un codice o il risultato meccanico e scontato di una proposta o di un modello culturale imposti. La volontà di saper interpretare un’idea molto concreta di rapporto con il contesto in cui si opera ed avere una visione basata sulla capacità di anticipare i bisogni, le attese e anche i sogni della committenza, sono i miei riferimenti costanti nella ricerca di soddisfare la distintività che merita con un approccio completamente dedicato, in un mondo sempre più omologato dove il progetto, se diventa parte integrante di un processo, può portare alla crescita anche economica, in cui si uniscono entusiasmo e competenza di chi vuole progettare il futuro.
La Bellezza è la consapevolezza di una sensazione di benessere. L’ideale greco era “bello e buono” (kalòs kai agathòs). Etica ed estetica erano sullo stesso piano, avevano lo stesso valore, erano la base della virtù, addirittura della filosofia. Dietro la ricerca del bello c’è la necessità di perseguirlo – ed oggi ancor più di prima ce n’è bisogno – e di ritrovarlo come elemento educativo, di accrescimento, di conoscenza e sensibilità.
“La bellezza è un’astrazione che non può essere descritta e conosciuta in se stessa, non può essere circoscritta dentro parametri o comportamenti; è uno stato di grazia che richiede un’esperienza diretta da vivere fra una realtà concreta ed un’idea immateriale.”
In architettura Oscar Niemeyer afferma: ”Fare architettura è fare bellezza, bellezza non intesa come valore solo per chi la crea, ma soprattutto per chi la vive.”
Penso che la bellezza faccia bene e sia un diritto di tutti.
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
La sensibilità femminile in architettura è la capacità di ascoltare le altrui esigenze.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto?
Si, esiste una situazione di diseguaglianza che non si può ignorare.
Sei mai stata discriminata nella tua carriera?
Solo in alcuni ruoli della mia variegata professione, soprattutto per l’aspetto economico.
Qual è il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
Un piccolo appartamento sul litorale romano, ad Ostia, di soli 45 mq, progettato molti anni fa, che si affaccia sul mare, attraverso una magnifica terrazza. Con il coinvolgimento della committente, sono riuscita a realizzare una sorta di loft, ricavando spazi idonei anche per una camera da letto separata dal living e a creare un setto attrezzato continuo pensato come raddoppiamento dei muri, con funzioni differenziate a seconda delle necessità: ingresso, living, libreria, cucina, corridoio, guardaroba.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Nella difficoltà di realizzazione di questa professione, in questi ultimi anni, in particolare in Italia, trovo che le donne architetto abbiano avuto la capacità, per indole, concretezza ed educazione sociale di reinventarsi un profilo professionale meglio degli uomini.
Nonostante la presenza degli ordini professionali sui territori non si è stati capaci in generale di comunicare l’importanza del ruolo professionale nella società. Trovo che le donne, per le proprie peculiarità, siano in grado di raggiungere questo obiettivo facendo sistema.
Che rapporto hai nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano con la tecnologia?
Non se ne può fare a meno, anche se appartengo alla generazione del disegno al tecnigrafo, delle mascherine per comporre le scritte sui lucidi, dei retini, della lametta da barba con cui grattare l’immancabile macchia d’inchiostro di china caduta dal rapidograph, puntualmente, sull’ultima tavola da portare poi all’eliografo per farne copie cianografiche e radex…gli attuali file e cartelle.
La tecnologia non solo ha semplificato la parte tecnica del nostro lavoro, velocizzandolo, ma ci ha permesso di raggiungere persone cui non avresti mai immaginato di arrivare.
I social network ci danno l’opportunità di trasmettere i nostri pensieri e rappresentano una grande fonte di comunicazione e di conoscenza.
Su Facebook dal 2008, per caso e quasi forzatamente iscritta da un’amica, me ne sono appassionata solo dopo, individuando una modalità più adatta alle mie corde: meno esteriori, alla ricerca di analogie, prima solo per me stessa, per comunicare, poi per condividere, dato che i miei post iniziano ad essere seguiti e commentati.
Tanto da essere invitata da Inarch Lazio, nell’aprile del 2015, per il mio personale modo di comunicare attraverso immagini sia l’architettura che l’arte, il design, la moda e così via; modalità che ha dato vita ad un fantasioso viaggio tra immagini e immaginari che da Facebook – dove ho pubblicato post con una cadenza giornaliera – si dipana nel tempo e si allarga, trasferendosi nel cartaceo per diventare un libro autoprodotto in tiratura limitata. Quasi un diario basato sulle figure, con poco testo, nessuna didascalia per far parlare solo le immagini e le associazioni visive. Questa pubblicazione, pur volutamente scarna di scritti, accoglie le libere riflessioni di tanti amici, professionisti legati a diverse discipline e aree specialistiche. Quale la finalità? Dietro la ricerca del bello, c’è una seconda lettura: anche le cose hanno uno sguardo a volte più acuto del nostro. Le cose non solo ci restituiscono appieno l’attenzione, toccando le corde profonde della sensibilità, ma anzi arrivano a suggerirci percorsi idonei fino all’architettura, al design, al progetto. Il progetto! Questo è il vero obiettivo delle mie ricerche. “Così l’intento è dimostrare che anche nel socialnetworking, per convenzione virtuale e apparentemente leggero, si può portare, produrre e comunicare cultura e d’altro canto che l’architettura e il design sono ovunque e alla portata di tutti poiché rappresentano un modo di essere, vedere, fruire, non solo di produrre o possedere…”
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Seguo tutto in prima persona, con l’aiuto a volte di collaboratori in funzione della tipologia del progetto. Mi piace comunque collaborare e condividere con colleghi ed altri specialisti, perché gli ulteriori punti di vista fanno aumentare la sensibilità e la creatività.
Quale è stato il tuo approccio nella guida del tuo studio?
Penso allo studio di architettura come ad un laboratorio, piattaforma del pensare e del fare, sia per l’architettura, sia per il design. I processi di realizzazione sono determinanti, per cui ritengo che bisogna avere consapevolezza ed esperienza di tutta la filiera per dare un buon progetto alla committenza.
“Con la conoscenza, ma senza la pratica sarai nel buio. Ma con la pratica senza la conoscenza ti troverai in una catastrofe”.
(Tratto dalle schede del mio corso di Design Management).
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura?
Non perdere mai la curiosità e seguire la propria intuizione è quello che consiglio a tutti i miei allievi. Amare tutto ciò che è contaminazione, creatività trasversale, nuove forme di comunicazione. Solo così si possono affrontare i momenti anche duri che questa professione ti riserva. Coniugare poi la creatività con la capacità di visioni strategiche, imprenditoriali e comunicative, sono principi ormai fondamentali a cui ogni professionista si deve attenere.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
Tutto inizia per me da un’immagine che da sempre ha stimolato il mio immaginario: tavolo, sedie e sgabello progettati da Jacobus Johannes Pieter Oud, architetto olandese che progettò e realizzò per gli interni delle cinque case a schiera del Wesseinhof, quartiere sorto su una collina di Stoccarda nel 1927. Qui Mies van der Rohe organizza la sua seconda esposizione e, ottiene di poter allestire, oltre ai soliti padiglioni provvisori, un quartiere di abitazioni permanenti, il Wesseinhof Siedlung, il cui piano generale viene tracciato dallo stesso van der Rohe che chiama a raccolta i migliori architetti d’Europa. Danno il meglio di sé nomi come Peter Behrens, Walter Gropius, Ludwig Hilberseimer, Bruno Taut, Le Corbusier, solo per citarne alcuni.
Scopro tutto questo, ancora studentessa, agli inizi degli anni ’70, durante la lettura del libro Storia dell’architettura moderna, dalle origini al 1950 di Bruno Zevi.
Incuriosita dalle poche pagine dedicate a J. J. P. Oud, sono spinta a fare una ricerca sul suo conto.
Dieci anni dopo, dopo aver trovato su Domus un articolo appena pubblicato su quei prodotti realizzati da quattro artigiani olandesi racconto a Paolo Pallucco, titolare dell’omonima azienda, l’iter di quanto avevo allora scoperto. Ne rimane fortemente interessato, incuriosito e coinvolto, fino a decidere di mettere tali oggetti in produzione, per l’omonima azienda, affidandomi l’incarico di procedere in tal senso.
Indagare poi tra i maestri del razionalismo italiano come Giò Ponti, Mario Asnago e Claudio Vender per studiare il decennio successivo, è stata una doverosa conseguenza, per dare completezza ad un cospicuo ed interessante catalogo di riedizioni.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai…L’astuccio nero con le mie penne, matite, pennarelli, carta da appunti, l’agenda cartacea ed il cellulare.
Una buona regola che ti sei data?
Seguire tutte le fasi del lavoro, dall’ideazione fino alla comunicazione lungo tutte le fasi del process
Il tuo working dress?
Prediligo il nero e pur nella semplicità complessiva uno o più dettagli che contribuiscano a determinare uno stile personale.
Città o campagna?
Assolutamente città, la campagna solo per brevi periodi. Come recita la voce di Isaac nel film Manhattan : “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata”.
Il tuo rifugio?
Un angelo custode tutto per me ad avvolgermi tra le sue ali protettive…
Il prototipo de La grande siccità, di Paolo Pallucco, azienda per la quale allora lavoravo in qualità di product manager. Divano asimmetrico con uno schienale avvolgente, una grande ala protettiva e consolante presentato al fuori salone di Milano nel 1988, all’ex mattatoio. Un’isola felice dove raccogliermi, appena ritorno a casa. A volte rappresenta un modo più rilassante di finire uno scritto al computer, di leggere, di riflettere o una modalità di evasione: “l’ala diventa una vela spiegata al vento…portatore di immagini…!“
21. Ultimo viaggio fatto?
Nel novembre scorso, In Sicilia, a Palermo per il Consiglio Direttivo Nazionale ADI, alla GAM, Galleria d’Arte Moderna e per il workshop di Food Design con l’accordo fra Ordine degli Architetti di Palermo e ADI sul tema del Food Design.
Il tuo difetto maggiore?
L’onestà
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
Saper ascoltare
Un tuo rimpianto?
Non ho rimpianti nell’esercizio della professione. Ho sempre seguito una naturale propensione al nuovo ed ho affrontato con disponibilità anche lavori che inizialmente potevano sembrare meno attinenti al mio percorso professionale.
Work in progress…?
Prossimamente inizierò i corsi allo IED di Roma. In ADI porterò avanti le istanze necessarie per riflettere sui cambiamenti in atto nel sistema distributivo italiano, sperando di riuscire ad organizzare un convegno sul tema. A breve sarà pubblicato un libro con un mio intervento su questo argomento. Inizieremo poi anche i lavori per la collezione della Fondazione del Compasso d’Oro.