L’ultimo film di Guadagnino, Chiamami col tuo nome. In questo film, ancora una volta secondo i modelli greco-antichi, all’amore per la donna si associa una mera convenzione sociale, la banalità di un erotismo goffo e scontato, perché in fondo così fan tutti.
Sulle note di Rara Requiem di Sylvano Bussotti, come ci chiede Caterina della Torre, direttora di questo accattivante angolo di giornalismo per passione che è Dol’s, ci accingiamo a scrivere dell’ultimo, plurinominato film di Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Diremo alcuni motivi per cui ci è piaciuto e, dal punto di vista di chi qui tiene la rubrica artediparte, azzarderemo un sospetto, suggerendovi una domandina impertinente.
Animo. Vi dico innanzitutto che lo abbiamo visto in un multisala di Crema, praticamente nel bel mezzo dei luoghi in cui questo bellissimo film è stato girato, fra spettatori che sussurravano i nomi dei paesi a loro familiari. E, capirete, è tutta un’altra faccenda.
Pianura padana rubella e fascinosa: canali, rogge, fonti, fiumi, cascate, alberi e panorami di deliziosi colori pastello… questo film ne scopre il fascino nascosto, che avvolge allo stesso modo i luoghi consacrati e gli angoli più insospettati del nostro magnifico Paese, con una fotografia che ricostruisce il passato senza tempo che tuttora ci avvolge, la sognante delizia di un territorio meglio noto per altre ragioni. Ci vuole uno sguardo sfocato e lontano, quasi uno sguardo dalla luna, perché i luoghi a cui siamo abituati tornino a stupirci, ci ripetano chi siamo, cosa potremmo essere e con quale sguardo d’amore ci osservino coloro che non sanno, non sono, non sentono questo particolare stato vitale che è l’essere italiani. Il “dentro e il fuori” dello schermo che si rovesciano in un momento di sospensione, nella particolare situazione di fruizione del film in cui ci siamo trovate, ci aiutano a vedere i luoghi in cui recentemente abbiamo scelto di vivere in un’inattesa lontananza, sotto una luce di bellezza e armonia.
Chiamatela Italia.
Il film è ambientato in un’epoca lontana e vicina – gli anni Ottanta – per molti il regno dei colori flou, della disco music e del disimpegno; in una casa di campagna e fra personaggi così irreali e sognanti, così poco rispondenti all’immagine di quel particolare momento storico e in un ambiente sociale di altissima aristocrazia del pensiero e del gusto, fra persone elette, molto al di sopra sia della volgarità politica nazionale – che ci tortura da anni – sia dai costi sociali e ambientali pagati da un territorio che non ha abbandonato la propria vocazione agricola, immerso nel profumo di una terra morbida di acqua e nebbia, che pulsa negli scorci della locanda del gallo, fra chi gioca a carte e chi gira in bicicletta nei campi. Questa pianura padana vista da un’altissima prospettiva culturale, internazionale e anzitempo globalizzata, dal punto di vista di un’identità religiosa, quella ebraica, proiettata talmente in avanti e in alto da apparire fittizia: alta borghesia internazionale, nomadismo di lusso, passioni sopraffine, morbida e affettuosa intimità familiare, che si ambientano in questi luoghi come una raffinata pianta equatoriale in un orto botanico, estranea al sapore sulla lingua dei tortelli cremaschi e al suono del dialetto nelle orecchie, alla vita autentica delle persone che lì sono nate e cresciute. Come una Disneyland internazionale della bellezza antica e dell’elevazione del gusto, che l’Italia, sempre di più, è destinata a incarnare. Il Paese in cui con la cultura – finalmente si sono convinti tutti – si mangia eccome, l’Italia, è il futuro giardino di delizie del mondo. In questo senso, quindi, più che un film ambientato in un tempo che fu è una profezia dell’Italia futura. È un caso che questo film per divenire popolare da noi, prima debba passare per la nomination all’Oscar? Non è forse perché un’Italia così, puoi vederla solo dall’estero?
Profetico, in un altro senso, potrebbe essere ancora oggi, nel nostro Paese, un film che racconta l’amore fra un adolescente e un giovane in forme poetiche e passionali. A qualcuno, soprattutto se giovane oggi, può far bene, considerati i pregiudizi e le discriminazioni che circondano ancora l’omosessualità, sentirsi rispecchiato in immagini di un amore delicato, passionale e romantico. A qualcuno può giovare che si racconti una fase dello sviluppo adolescenziale che in tanti possono aver vissuto, mentre ad altri può ancora procurare fastidio che l’amore fra due uomini sia raccontato sullo schermo in modo tanto sincero, sensibile e tenero. Scritto e girato con lo stesso ritmo dell’amore giovanile, il film si dilunga oltre ogni ragion d’essere sulle fasi di preparazione e di corteggiamento, sul momento dei “dubbiosi desiri” e immerge lo spettatore in un erotismo prorompente, febbricitante e ingenuo nella sua esaltazione, nello scatenamento di istinti e follia che ricorda la vita stessa, la sua forza, il suo continuo ardente anelito ad andare avanti. Una doccia di vita, questo film.
Nel colloquio finale fra padre e figlio c’è un bel momento di cinematografia: le parole del padre, che con emozione riecheggiano teneramente l’eros, da cui nella maturità ci distanziano nostalgia e saggezza, accompagnate dalle note orgasmiche del finale di Ma mere L’Oye di Ravel, incontrano l’abbandono silenzioso del figlio e rivelano come alcune emozioni e sensazioni siano destinate ad essere vissute, proiettate e comprese soltanto nei propri figli e discendenti. Nella generazione futura.
Ora, attenzione, spoiler: l’annuncio del matrimonio del giovane uomo, protagonista della grande storia d’amore, conclude il film. Spezzando il cuore del giovane amato – chiamato con il suo nome a significare l’adesione profonda all’altro-non-altro che ci svela il nostro vero sé – Oliver sposerà una giovane donna, piegandosi in questo modo – così a noi sembra – a costumi e convenienze sociali. Per di più riceverà, irragionevolmente e inspiegabilmente, le felicitazioni della famiglia del giovane Elio, pur consapevole del sentimento passionale e totalizzante che per lui vive il ragazzo. Capite, questo film non si chiude semplicemente con il dolore per la separazione e il distacco dell’amato, ma con una scelta che sembra non d’amore, ma di comodo, fatta dal più maturo dei due.
Ripercorriamo con la mente, nell’intero film, ciò che vi rappresenta la donna… riandiamo alla scena della proiezione di diapositive nello studio del padre di Elio, in cui si rievoca la cultura greca dell’amore, della bellezza e dell’eros e ci sorge un dubbio: in questo film, ancora una volta secondo i modelli greco-antichi, all’amore per la donna si associa una mera convenzione sociale, la banalità di un erotismo goffo e scontato, perché in fondo così fan tutti, come negli incontri poco coinvolgenti e prevedibili di Elio con le coetanee, mentre all’amore omosessuale si associa la vera bellezza e la passione, lo slancio, il battito del cuore, il vero romanticismo? Se così fosse, non sarebbe che la conferma di uno stantio pregiudizio. Niente di nuovo sotto il sole.
A voi, lettrici e lettori, appassionati/e cinefili/e, la parola. Noi restiamo dubbiose, e andiamo a passeggiare fra campi di mais e rogge.