Possano tre donne d’Asia e Africa Rebecca, Asia, Eisham, croci del mondo, vincere il sopore delle nostre coscienze.
Rebecca, giovane nigeriana, è stata rapita da Boko Haram che le ha annegato il figlio di un anno e ceduto il maggiore a un’altra famiglia; ha subito le percosse, la schiavitù e lo stupro solo perché cristiana; poi è riuscita a fuggire e ha tenuto il bambino concepito dalla violenza. L’ha chiamato Cristoforo, cioè portatore di Cristo; e, alla fine, ha perdonato i suoi aguzzini.
Chissà se Pirandello avrebbe trovato interessante la sua vicenda. Egli si fermò alle soglie del male, in una spietatezza verista; la sua Maragrazia, protagonista de L’altro figlio, rimaneva imprigionata al primo stadio della natura. All’istinto, pur umanissimo. Ripudiava il figlio nato dall’oltraggio ed era la pena a trionfare in tanta devastazione. Rebecca la seducente, invece, della natura s’è riappropriata. Ha saputo, voluto essere ancora madre. Il dolore s’affaccerà sempre dai suoi occhi elusivi. Ma non avrà mai l’ultima parola: il male non costruisce niente e la vita è troppo preziosa per ridursi a puro odio.
Lo sguardo di Eisham Ashiq, figlia minore di Asia Bibi, è invece fermo e bruno, dolcemente volitivo. Eisham somiglia alla madre in modo impressionante e, come lei, non cede. Sa piangere; è affamata di giustizia e le sue lacrime hanno il nitore delle gemme. Non esita a chiedere la parola; vuole raccontare di quella madre accusata falsamente di blasfemia, bastonata davanti ai suoi occhi e trascinata in carcere con una catena al collo, come un cane; costretta a bere urina e vessata in tutti i modi affinché si convertisse all’Islam. Quella madre presentata, dai pochissimi giornali laici che le hanno dedicato scarni trafiletti, come una “povera contadina analfabeta” vittima del fanatismo religioso.
Ma Asia Bibi non è una povera contadina, bensì una contadina povera. E nemmeno si può definire analfabeta, benché abbia imparato a leggere e scrivere durante la spossante prigionia. Non è, insomma, una donnetta, contrariamente a quanto suggerisce certa narrazione. È una donna che conosce alla perfezione la grammatica della fede.
Perché non sappiamo comprendere l‘inerme fermezza di Asia, Rebecca ed Eisham? Come mai ci disorienta la loro archetipa vitalità?
Forse perché la nostra parola s’è disossata, neutralizzata; e, a forza di metafore e astrazioni, è diventata muta. Senza però la pregnanza del silenzio, che è attesa e ascolto, quindi relazione. La neolingua, invece, si disperde e riscrive di continuo, non lasciando tracce. Rebecca, Asia, Eisham usano un lessico antico e modernissimo. Parco ma non misero. Sono cristiane, s’è detto (o meglio sussurrato, per non comprometterci troppo). E ancora: “Perdoniamo perché Gesù ha perdonato”, “Bisogna pregare per i nemici…”. Qui davvero si trasale, come davanti a un bagliore abbacinante. È il tuono dei secoli che irrompe, quella fisicità obliata, l’umanesimo, le cattedrali, la cultura, la dignità personale. Scriveva Giovanni Testori: “È in corso l’eliminazione della totalità incarnante di Gesù Cristo e della sua verità storica, per adire una mitologia, o una metafora… Ma Gesù Cristo ha la consistenza di un uomo reale, di un preciso avvenimento nell’arco della storia”. Senza il quale tutto diviene vaniloquio e insipienza.
Rebecca, Asia, Eisham non distinguono Gesù da Cristo. Uno, anzi, si nutre dell’altro, lo rivela e lo espone. Spirito e materia sono interdipendenti e indivisibili, differenziarli è mero esercizio retorico. La fede cristiana è tutt’uno con la concretezza dei giorni ed è fatica e gioia perché qualcuno le ha assunte su di sé, una volta per tutte. Rebecca, Asia ed Eisham non ci credono: lo sanno. Per questo sono pacifiche, ma non remissive; per questo oppongono resistenza a qualsiasi sopraffazione; per questo si sentono amate, e amano sé stesse, esse stesse. Così la preghiera diviene atto, sicurezza, anche lotta, anche ribellione; mai fuga intimistica o spoliazione derelitta. Dolore e scoramento non vengono eliminati, ma acquistano senso proprio nell’essere transeunti, “penultimi”.
Nel contempo, se l’incarnazione crea la famiglia, uomini e donne, in fraternità e sororità, si devono reciproco aiuto. Abbiamo scordato il verbo-carne, grazie al quale l’amore può esser comandato. Di qui la nostra indifferenza, persino la vergogna a pronunciare certi vocaboli, a conoscere taluni episodi. Possano tre donne d’Asia e Africa, croci del mondo, vincere il sopore delle nostre coscienze.
© Daniela Tuscano