La mostra Com’eri vestita? nasce da una domanda che arriva come un pugnale a colpevolizzare le donne che hanno subito uno stupro.
“What Were You Wearing” è una mostra promossa dall’università del Kansas da un progetto di Jen Brockman e Mary Wyandt-Hiebert, esposta per la prima volta all’Università dell’Arkansas dal 31 marzo al 4 aprile 2013. L’associazione Libere Sinergie la replica in Italia, contestualizzandola al nostro ambiente socio-culturale.
Si può pensare che sia ormai sempre più raro domandare “Come eri vestita?”, invece, lo stereotipo persiste, vivo, in ogni interrogatorio della sopravvissuta alla violenza, in numerosi articoli che la narrano, ogni qualvolta ci si trova a confrontarsi su questo tipo di episodi. Un tarlo culturale senza dubbio, come abbiamo avuto modo di constatare nell’esplicazione di un altro progetto che, in linea di continuità, Libere Sinergie sta portando nelle scuole. Parlando con i ragazzi e le ragazze appare evidente quanto la rivittimizzazione e la colpevolizzazione delle vittime sia ancora molto diffusa, con un senso di corresponsabilità al 50% delle vittime.
Il “Se l’è cercata” è ancora molto presente nelle riflessioni su questi temi, cosicché il vestito indossato, il comportamento o l’atteggiamento tenuto, la scollatura, la gonna corta vengono ancora oggi letti come detonatore della violenza, come se ci trovassimo di fronte a uomini incapaci di autocontrollo e di capacità inibitorie di atti violenti. Uomini ancora in preda a un istinto animalesco, irrefrenabile, succubi di uno stato di natura che prevale su uno stato di civiltà, di diritto, con regole e valori condivisi. Una prevaricazione e una dominazione sul genere femminile, una normalizzazione e una celebrazione di una mascolinità nociva, di stampo patriarcale. Permane la sensazione di un modello maschile che si trincera dietro un alibi, rivendicando un diritto atavico, un potere assoluto sulla donna e sul suo corpo. Solo un oggetto si può possedere, non un essere umano, per cui la deumanizzazione e l’oggettivazione sono funzionali a questo meccanismo.
Forte è emerso nel dialogo soprattutto con le ragazze, un pregiudizio persistente nei confronti delle donne, dei loro abiti e atteggiamenti, un giudizio ancora improntato alla considerazione delle donne come provocatrici e tentatrici. La debolezza e l’incapacità di mettere in campo freni inibitori come caratteristiche del genere maschile: un pregiudizio e uno stereotipo che costruiscono così l’alibi interiorizzato da entrambi i generi. Un sistema, nel quale siamo immersi e immerse sin da piccoli/e, ci rende in tal modo assuefatti/e a un immaginario pieno zeppo di stereotipi, cristallizzati/e in ruoli e aspettative secolari.
Il “Se l’è cercata” è una considerazione ancora, purtroppo, molto comune nell’immaginario collettivo. Tutto questo possiamo rimuoverlo solo se rendiamo sistematici gli interventi formativi nelle scuole. Leggendo un articolo del Corriere, in cui si parla della Milano fashion week e della moda Prada antistupro, emerge quanto sia duro da smontare lo stereotipo binomio “Vestito-Te la sei cercata”, quindi hai provocato, sei corresponsabile dello stupro subito. C’è tutto un immaginario e una subcultura da demolire, un cammino lento ma necessario. Ricordiamo sempre che non è la donna che deve imparare a proteggersi, ma sono gli uomini che devono imparare che un no è un no, che la donna non è un oggetto o una proprietà; sono gli uomini che non devono stuprare e devono controllare i loro comportamenti. Non siamo allo stato di natura, c‘è sempre una scelta alla base della violenza, basta alibi.
Da queste gabbie di genere maschili e femminili dobbiamo liberarci e questa mostra potrebbe essere una maniera plastica per sollecitare un interrogarsi realistico sulla violenza, sull’incapacità tuttora esistente nel voler esaminare le radici della violenza nella loro verità, senza spostare le responsabilità altrove e ribaltare i piani. Riportare in superficie, analizzare ed evidenziare la genesi e l’autentica dinamica della violenza è fondamentale per poterla prevenire e non lasciare che le cose proseguano senza nessun cambiamento significativo. Mutare mentalità, mutare lo status quo, smontare stereotipi per migliorare ciò che non funziona adeguatamente.
Solitamente l’8 marzo si compie un bilancio, una verifica dello stato dei diritti delle donne, per constatare a che punto siamo e quali passi siano stati compiuti nell’ultimo anno su questo versante. Abbiamo voluto dare a questo 8 marzo un punto di vista diverso, affinché una nuova luce si accenda sui diritti, che per essere reali e non fittizi devono di fatto essere tutelati. Per questo abbiamo pensato che un passo in avanti ci deve essere anche per quanto concerne la colpevolizzazione e la rivittimizzazione delle vittime di violenza, passaggio fondamentale affinché ci sia pieno rispetto e ascolto delle donne, di modo che si creda alle donne quando hanno paura e chiedono aiuto, come dimostra la recente vicenda di Latina, che ha visto un uomo uccidere le sue due figlie e ferire gravemente la moglie Antonietta Gargiulo. Non devono essere mai abbandonate ma, invece, accompagnate in un percorso che le protegga e consenta loro un graduale e personalizzato iter di fuoriuscita dalla violenza. Per questo 8 marzo rivendichiamo questo e per renderlo concretamente realizzabile auspichiamo impegno, responsabilizzazione e formazione di tutte le figure coinvolte. Dagli operatori socio-sanitari, per cui abbiamo accolto con favore le recenti Linee guida in tema di soccorso e di assistenza socio-sanitaria uniformi su tutto il territorio nazionale, ai magistrati, alle forze dell’ordine e quanti istituzionalmente o professionalmente entrino in contatto con donne che hanno bisogno di un sostegno, di essere ascoltate e di trovare un percorso sicuro di uscita dalla violenza, ma anche di autonomia.
Ed è proprio in questa direzione che abbiamo voluto dedicare questa mostra a Jessica Valentina Faoro, affinché la sua storia e la sua dolorosa vicenda possano aprire la strada a un mutamento di approccio nei confronti delle tante Jessica che hanno bisogno di sostegni. Chiedere di non voltare pagina frettolosamente significa chiedere verità, senza che vi sia un ribaltamento delle responsabilità e che in qualche modo si sposti altrove l’attenzione. Significa pretendere che si faccia piena luce sugli obblighi molteplici che hanno avuto ricadute negative sulla sua intera esistenza, perché Jessica si poteva e si doveva salvare. Significa interrogarsi sui diritti delle donne calpestati, violentati. Significa che dai diritti enunciati sulla carta occorre passare ai diritti tutelati nei fatti. Occorre comprendere per aprire una riflessione sulla violenza del non ascolto. Ricostruire affinché vengano messi in piedi tutti i mezzi perché non avvenga più.
Com’eri vestita? – What were you wearing?
Dall’Università del Kansas, l’installazione di abiti indossati dalle vittime di stupro
Il primo appuntamento della mostra sarà allo spazio The Art Land presso La Fabbrica del Vapore di Milano, via Procaccini 4, dall’8 all’11 marzo.
Orari
Giovedì – Sabato: 10.00 – 20.00
Domenica: 14.00 – 19.00
Ingresso gratuito
Successivamente la mostra sarà itinerante nel territorio metropolitano e si concluderà il 25 novembre.
Tutte le date e i luoghi della mostra verranno pubblicati su questo sito e sulla pagina Facebook di Libere Sinergie.
Per maggiori informazioni qui.