Dall’orientalismo non siamo ancora del tutto immuni, né dal vizio di osservare queste donne da fuori, idealizzandole o giudicandole. Ne parliamo con Zarish Neno, freelancer e disegnatrice.
L’Asia. Un “pianeta” tanto affascinante quanto sconosciuto a noi europei, che pure l’abbiamo frequentato e vi siamo intimamente legati. In passato ne abbiamo molto scritto, molto fantasticato, moltissimo sognato. Oggi l’antica magia sembra aver ceduto il posto alla diffidenza, talora all’angoscia o all’aperta ostilità. Ma non abbiamo perso il vizio di occuparci dei suoi abitanti, di vivisezionarli, anche solo per concludere che… rimangono enigmatici e alieni. A maggior ragione se si tratta di donne, l’arcano per eccellenza. La globalizzazione dovrebbe impedire voli pindarici troppo arditi a loro riguardo; i nomi di Malala Yousafzai e Aung San Suu Kyi sono diventati in qualche modo familiari anche da noi; ma, in fondo, dall’orientalismo non siamo ancora del tutto immuni, né dal vizio di osservare queste donne da fuori, idealizzandole o giudicandole, senza però capirle veramente. Quando poi si proclamano cristiane, anzi, cattoliche – come Asia Bibi, nel cui nome sembra inscriversi un destino – i pregiudizi e le semplificazioni si scardinano del tutto. Un certo terzomondismo salottiero, tributario dell’orientalismo summenzionato, continua infatti a ritenere il cristianesimo estraneo alle tradizioni di quel continente, dimenticando che esso è nato proprio laggiù… e molte persone lo sentono profondamente radicato nella loro storia. Quasi nel loro sangue.
Una di queste si chiama Zarish Neno, freelancer e disegnatrice, nata a Lahore nel 1987 e vissuta alcuni anni nel nostro paese (“stupendo, ricco di arte e di storia”) per motivi di studio. Rientrata in Pakistan nel 2016, Zarish oltre all’urdu, l’hindi e il punjabi, parla fluentemente l’inglese e l’italiano, lingua in cui si svolge la nostra conversazione.
Tu provieni dallo stesso paese di Asia Bibi. Il suo caso è diventato emblematico della condizione dei cristiani in certe aree del mondo. Ma la situazione è davvero così tragica?
“Domanda difficile. Il Pakistan è uno Stato islamico, con il 97% di musulmani e il 3% di altre minoranze religiose. I cristiani costituiscono solo l’1,6% in una popolazione di 180 milioni di persone. Abbiamo convissuto bene, soprattutto in passato. Molti islamici ancora ci sostengono, ci aiutano e intrecciano con noi rapporti d’amicizia. Ma il fondamentalismo cresce in misura esponenziale e il governo non vuole inimicarselo. Così viviamo in un continuo stato di tensione e minaccia. Veniamo accusati di essere cattivi cittadini, anzi, siamo di fatto cittadini di seconda classe perché non godiamo della totalità dei diritti. Viviamo qui da migliaia di anni, tuttavia considerano stranieri e le violenze ai nostri danni aumentano di giorno in giorno, come attestano le cronache. Ma siamo discepoli di Cristo: dobbiamo prendere la nostra croce. Prendere la propria croce significa identificarsi con Cristo, condividere la sua emarginazione, la sua vergogna, la sua sofferenza e anche la sua morte. Quando incontro fratelli e sorelle alla messa della domenica, negli incontri di catechesi per i giovani, nei ritrovi delle famiglie, incontro la fede che porta la croce ogni giorno. Nonostante le intimidazioni e gli attacchi, continuano a resistere. La testimonianza dei nostri fratelli e sorelle cristiani incoraggia me e molti altri”.
La geopolitica di papa Francesco cerca di restituire al cristianesimo le sue origini; di togliergli cioè le incrostazioni europee. Gandhi sosteneva che il cristianesimo era stato in qualche modo “tradito” dalla rilettura occidentale. Sei d’accordo?
“Il Mahatma Gandhi diceva: ‘Mi piace il tuo Cristo, non mi piacciono i tuoi cristiani. I tuoi cristiani sono così diversi dal tuo Cristo’. Riteneva il cristianesimo snaturato dai missionari occidentali giunti nel sub-continente indiano. Noi siamo orgogliosi che il cristianesimo sia cresciuto in Asia. Se dico ‘Cristo era un asiatico’, non faccio che ricordare una realtà. Così intendo la Chiesa cattolica: universale, inclusiva di ogni nazione, tribù e comunità etnica. Il nostro popolo si sente fiero di appartenere alla Chiesa universale. Questa è la bellezza del cristianesimo”.
Come pensi si concluderà la vicenda di Asia Bibi?
Non credo che Asia potrà uscire di prigione o esser liberata. La pressione internazionale l’ha mantenuta viva finora. Altrimenti, gli estremisti l’avrebbero uccisa da tempo. È così che vengono trattati i casi di ‘blasfemia falsa’ nel mio paese. Una legge anti-blasfemia, in ogni caso, è assurda e incivile! Gli estremisti la interpretano a loro arbitrio e il governo sembra impossibilitato a reagire. Quindi, non sono ottimista. Però continuo a sperare in un miracolo”.
Conoscevi Shahbaz Bhatti?
“Avevo solo 20 anni quando Bhatti venne nominato ministro per le minoranze. Era molto coraggioso e schietto, difendeva sempre i più deboli. In particolare, si era pronunciato più volte contro la famigerata legge anti-blasfemia, decretando con ciò la sua condanna a morte. Il suo villaggio, Khushpur, è vicino alla nostra città, circa 3 ore di viaggio in auto. Quando stavo a Roma ho scoperto che molti lo conoscevano e ne sono rimasta stupita. Ho pure saputo che la sua Bibbia era conservata nella Basilica di San Bartolomeo assieme ad altre reliquie di martiri. Nel 2014, quando mio padre si è recato nella vostra capitale per tradurre il ‘Catechismo della Chiesa Cattolica’ in urdu, l’ho portato in visita laggiù; abbiamo pregato insieme per i nostri martiri e per i cristiani perseguitati nel mondo”.
Tu hai anche fondato il Jeremiah Education Center…
“Sì, nel dicembre 2016. Stavo attraversando un periodo di crisi e mi chiedevo quale fosse il mio scopo della vita. Cosa resterà di me quando non calcherò più questo mondo? voglio solo essere ricordata dagli amici o posso fare qualcosa di più? È allora che ho avuto questa ‘rivelazione’. Volevo aprire un centro educativo per bambine e bambini impossibilitati a frequentare la scuola a causa della loro situazione finanziaria.
Così, con alcuni amici, ho visitato un’area di Faisalabad, dove l’abbandono scolastico era elevatissimo. La maggior parte dei bambini di quest’area proveniva da famiglie distrutte, spesso monoparentali: non era raro che i padri cadessero nella tossicodipendenza e abbandonassero le loro famiglie, lasciando le madri sole a sbarcare il lunario. Parlando con queste ultime, ci siamo resi conto che nessuna di loro intendeva ritirare i figli da scuola, ma vi era costretta a causa della precaria situazione economica. I ragazzi di una famiglia, per esempio, erano stati costretti a trovare lavoro mentre le ragazze, rimaste a casa, si prendevano cura della casa e dei fratelli. Abbiamo fornito loro un destino diverso, in un ambiente sano dove poter imparare e crescere da bambini, lasciando alle spalle le preoccupazioni del mondo. Questa visione è diventata la pietra angolare su cui abbiamo edificato il Centro Educativo di Jeremiah.
Da allora JEC cura l’educazione di 50 bambini di età compresa tra 3 e 14 anni, fornendo loro libri, divise scolastiche e borse. Il nostro centro offre anche attività extra-curricolari, mentoring e catechismo per facilitare la crescita mentale e spirituale e permettere d’acquisire esperienze salutari che li spingeranno a diventare cittadini compassionevoli e responsabili del mondo. Poniamo enfasi sull’educazione e l’empowerment delle ragazze e insegniamo ai genitori che l’educazione delle figlie è importante tanto quanto quella dei maschi. Oltre al lavoro con i bambini, forniamo aiuto e sostegno ai genitori consegnando generi alimentari e beni di prima necessità, senza dimenticare le donne vittime di violenze e abusi domestici. Sono loro il futuro della nazione”.
Hai parlato di empowerment. Cosa significa, concretamente, essere donna in Pakistan?
“Ho avuto la fortuna di essere nata in una famiglia che non ha mai discriminato tra un ragazzo e una ragazza. Mio padre, in particolare, ha sempre dato priorità alle figlie! Per la società, invece, non potevo esprimere la mia opinione, non avevo diritto a una mia autonomia. Avrei dovuto tenere la bocca e soprattutto la mente chiusa, come amo dire. Tutto quanto mi procurava una profonda frustrazione. Al lavoro le mie proposte non venivano ascoltate; ma se era un uomo a manifestarle, subito fioccavano i complimenti. Io trovavo intollerabile questa disparità di trattamento e, siccome sono una persona molto diretta, me ne lamentavo in modo aperto. A quel punto giungeva immancabile la replica: ‘È perché hai vissuto all’estero. Sei diventata troppo disinvolta’. Quando studiavo mi chiedevano: ‘Continuerai a studiare o ti sposerai? Tutte le tue coetanee hanno già famiglia’. Nemmeno il mio fidanzato concepiva il concetto di pari dignità fra uomo e donna. È stato educato a credere che le donne dovrebbero essere sottomesse all’uomo. Non potevo accettarlo e ho interrotto la relazione. Questi sono solo alcuni esempi delle difficoltà che una ragazza deve affrontare in Pakistan”.
Non solo in Pakistan, per la verità.
“Già, mai come per le donne vale il detto ‘tutto il mondo è paese’. Ma ringrazio Dio per la benedizione di due genitori molto solidali, che ci hanno sempre aiutato a superare le difficoltà”.
Sembri non trovare alcuna contraddizione fra la tua fede cattolica e l’impegno a favore delle donne…
“Non esiste contraddizione, infatti. Nessuna religione da queste parti ha promosso lo status di donna come il cristianesimo. Preghiamo insieme, sugli stessi banchi della chiesa, con uomini e bambini. Abbiamo donne che accedono al lettorato, ragazze che servono messa. Le donne lavorano in diversi uffici all’interno della Chiesa. Nonostante tutto, però, sento fortemente che non siamo ancora valorizzate come Cristo avrebbe voluto. Con ciò non intendo sostenere il presbiterato femminile. Ma rilevo che taluni tendono a non assegnare alle donne, giudicate ‘troppo emotive’, ruoli di responsabilità. Altri, invece, ritengono irrilevanti i loro pareri. Tutto quanto è molto ingiusto e anche anticristiano…
Questa settimana abbiamo ascoltato i racconti della Passione. Sono rimasta colpita dalla viltà e dalla grettezza dei futuri ministri della Chiesa: Giuda aveva tradito Cristo, Pietro l’aveva rinnegato, gli altri erano fuggiti. Solo le donne sono rimaste sotto la Croce. Sono le donne le prime annunciatrici della Resurrezione. E quando lo riferiranno agli apostoli, non saranno credute”.
Ma, se le donne hanno pari dignità, perché dovrebbe esser loro precluso il sacerdozio?
“Il sacerdozio femminile non rientra nella tradizione cattolica. Gesù ha scelto dodici apostoli uomini, all’ultima cena le donne non erano presenti: se Cristo l’avesse voluto, avrebbe chiamato con sé sua madre, la Maddalena… Invece, le donne lo accompagnarono sulla via del Calvario, testimoniarono la sua resurrezione. Ciò dimostra che uomini e donne nella Chiesa hanno compiti diversi, ma complementari: bisogna comprenderli e apprezzarli”.
Per altre confessioni cristiane, partendo dalle stesse letture, Il sacerdozio femminile è invece possibile ed è anzi una realtà da diversi anni. L’affronteremo prossimamente. Se volessi lanciare un messaggio all’Italia e/o all’Europa, cosa diresti?
“La storia d’Italia è stata un periodo d’oro per il cristianesimo. Ora sembra che questi valori e tradizioni stiano morendo. Altre religioni, o addirittura nessuna, stanno prendendo il sopravvento. Esorto i miei fratelli e sorelle italiani ed europei a non farsi sedurre dal relativismo. Alcuni falsi diritti vengono contrabbandati come libertà: penso al cosiddetto ‘diritto alla morte’ che si risolve, concretamente, nell’eliminare le esistenze più fragili e indifese. Penso ai casi di Charlie Gard, di Isaiah e di Alfie… tre neonati di cui è stata decretata la fine contro il volere dei genitori. La vita non è un bene disponibile e non ci appartiene. Europa, ritrova le tue radici. Sii fiera della fede dei martiri e del sangue che versarono. Possano i santi Pietro e Paolo guidarci e aiutarci nel cammino verso la verità”.
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