Potrebbe sembrare che mi sia allontanata molto dai miei obiettivi iniziali di giovane studentessa di architettura ma in realtà mi sento oggi molto più vicina alla me stessa di allora di quanto lo fossi qualche anno fa, perché in fondo nell’architettura e nel design come nella progettazione urbana, per me l’obiettivo è sempre stato lo stesso: portare la Bellezza nella vita di ogni giorno.
E’ stata la mia “vicina di balcone” per parecchi anni perché abitava accanto al mio studio di allora, che adesso è diventata la mia casa atelier; eh sì, perché tutto cambia e per Vanessa il cambiamento è stato progressivo e radicale: architetto, dispensatrice di processi di progettazione partecipata prima – come sarà lei stessa a raccontarci più diffusamente – e oggi ceramista; prima a Torino e adesso a Vicenza, sua terra d’origine. Insieme a David, suo compagno di lavoro e di vita, hanno creato il marchio R&S ceramica pop, nella convinzione che la bellezza debba essere testimoniata e diffusa.
Grandissima rovistatrice tra i banchi dei mercati, sa riabilitare tessuti e abiti, arredi e suppellettili, restituendoli a nuova vita. Donna di grande gusto, assolutamente anticonformista, “indossa” a mio parere con profonda fierezza il motto della grande Irene Brin: “Nelle difficoltà, arroganza e allegria”.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Sono sempre stata incoraggiata dalla mia famiglia – in particolare da mia nonno – a studiare, non importa cosa.
Definisci brevemente cosa significa per te “fare architettura”
Continuo a essere d’accordo con Rogers sul fatto che l’ambito di lavoro dell’architetto va “dal cucchiaio alla città”. Il ruolo dell’architettura per me resta quello di trovare attraverso il progetto il punto di incontro tra forma e funzione, tra arte e vita quotidiana e questo vale sia che si tratti di spazio – urbano, domestico, naturale, virtuale – sia che si tratti di oggetti – mobili, abiti, utensili … per questa ragione penso di non avere mai cambiato professione pur essendo passata dalle politiche di rigenerazione urbana al design di accessori, alla ceramica.
È più difficile per le donne farsi sentire e salire ai livelli più alti?
Se rispondessi di no negherei quello che affermano molte statistiche e molte altre donne, ma credo che la situazione non sia brutta come la si racconta. Da anni di lavoro nell’ambito della progettazione partecipata ho imparato a guardare i problemi da diversi punti di vista. Penso che ci siano delle resistenze in alcuni ambiti a far salire le donne al vertice, ma sono anche convinta che, rispetto agli uomini, ci sia un minor interesse delle donne a raggiungere i livelli più alti, quando questo significa mettere la propria ambizione davanti ai propri principi o alla qualità della propria vita personale. È vero che le donne che siedono nei consigli di amministrazione sono una percentuale inferiore agli uomini, ma quelle che sono a capo di nuove imprese sono più numerose degli uomini. Il successo non ha necessariamente una forma piramidale e mi piace pensare che molte donne scelgano consapevolmente di non partecipare a una corsa verso l’alto di cui non condividono le regole e che stiano invece, lentamente e inesorabilmente, dando forma ad un’altra idea di successo.
Quale effetto pensi sia stato sul tuo lavoro essere una donna?
Come in tutti i lavori che richiedono capacità di gestione e concertazione essere donna aiuta: siamo più brave a gestire la complessità, mentre gli uomini se la cavano meglio in “verticale”. Ovviamente parlo in generale, quando si tratta di persone ogni individuo è unico e può essere vero il contrario.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto?
Sicuramente lo è stato, l’architettura è una disciplina tradizionalmente maschile, ma penso che non sia più così. Purtroppo oggi nel mondo dell’architettura è molto difficile non solo affermarsi ma semplicemente lavorare dignitosamente, indipendentemente dal sesso.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
Una sola volta, quando mi occupavo dell’allestimento del Padiglione dell’Iran alla Biennale d’arte di Venezia: i responsabili iraniani pretesero di avere un uomo alla direzione lavori, ma era quasi come essere nel loro paese …. in Italia, devo dire che non mi è mai successo.
Qual è stato il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
Le case in cui ho abitato e che, fosse per pochi mesi o molti anni, ho sempre trasformato in uno spazio mio, interpretandone la natura; d’altronde non mi sono mai occupata di progettazione architettonica professionalmente se non a livello di concept.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Penso che non sia molto diversa da quella dei nostri colleghi maschi e degli altri professionisti e imprenditori: inutilmente complicata.
Ci racconti quali sono state le tue scelte professionali e la tua professione attuale?
Quando mi sono iscritta ad Architettura avevo intenzione di occuparmi di restauro, ma al terzo anno mi sono appassionata alle discipline legate alla pianificazione urbana e ai processi dal basso fino a svolgere una tesi sugli esiti della gestione urbana partecipata a Cuba. Ho poi vinto una borsa di studio per la scuola di specializzazione in “pianificazione per i paesi in via di sviluppo”, ma alle prime esperienze lavorative mi sono resa conto che l’ambiente della cooperazione internazionale non faceva per me; c’è troppa uniformità ideologica. Dopo una breve esperienza milanese durante la quale ho frequentato un master in “Marketing del territorio” alla Domus Academy sono stata contattata da Avventura Urbana, una delle prime e più importanti società italiane nell’ambito della progettazione partecipata e dei processi inclusivi. Mi sono trasferita a Torino e ho lavorato con loro dieci anni, spaziando dai programmi di riqualificazione urbana ai processi di democrazia deliberativa, con cui la progettazione ha poco a che fare. Sono stati anni intensi, pieni di soddisfazione in cui ho rafforzato molto le mie competenze nell’ambito della sociologia, dell’antropologia e della negoziazione dei conflitti. Intorno al 2010, complice il fatto che con la crisi la quantità e la qualità dei lavori stava diminuendo mi sono resa conto che era tempo di cambiare. Avevo due possibilità: o provare a continuare quel percorso per conto mio, o cambiare strada. Mettermi in proprio però avrebbe significato dover trovare i committenti e la committenza nell’ambito della progettazione inclusiva è rappresentata da enti pubblici o fondazioni; questo significa dover dedicare molto tempo a costruire relazioni in campo politico, una cosa che non mi è mai piaciuto fare. Ho scelto quindi il piano B. Avevo realizzato delle borse che erano piaciute molto, ho deciso di iniziare a farle e venderle nei market indipendenti, poi Maria Teresa Grilli – un’amica e una grandissima artigiana – mi ha offerto di collaborare con il suo Atelier, dandomi l’occasione di approfondire la conoscenza del mondo della sartoria e della produzione artigianale. Nell’anno trascorso con lei l’idea di produrre qualcosa di mio si è rafforzata; contemporaneamente mia madre ha iniziato ad avere problemi di salute e ho deciso di tornare in Veneto, dove avrei potuto anche trovare un ricco tessuto culturale e produttivo per realizzare le mie idee. Inizialmente mi sono orientata sulla pelletteria, mi piacciono gli oggetti che hanno un rapporto forte con la funzione, ma dopo pochi mesi ho conosciuto David Riganelli e il collettivo Sbittarte, che si incontra ogni venerdì nella zona di Marostica a decorare la maiolica. È stato un colpo di fulmine: tutti quegli oggetti belli, unici, fatti per essere usati nella vita di ogni giorno, che non si erano mai visti nei market dell’handmade e del design indipendente che avevo frequentato negli ultimi anni. Con l’entusiasmo che solo l’inizio delle storie d’amore sa dare abbiamo deciso di realizzare duecento tazzine da vendere a Natale: il 24 dicembre non avevamo più nulla. Abbiamo deciso di continuare e da quasi quattro anni abbiamo una nostra produzione che cresce e cambia ogni giorno. Realizziamo principalmente oggetti per la tavola, con le tecniche della ceramica popolare veneta, nata per l’uso quotidiano. Potrebbe sembrare che mi sia allontanata molto dai miei obiettivi iniziali di giovane studentessa di architettura ma in realtà mi sento oggi molto più vicina alla me stessa di allora di quanto lo fossi qualche anno fa, perché in fondo nell’architettura e nel design come nella progettazione urbana, per me l’obiettivo è sempre stato lo stesso: portare la bellezza nella vita di ogni giorno.
Cos’è per te la bellezza?
C’è un verso di Keats “ la verità è bellezza e la bellezza verità” che ho sempre considerato un’ottima sintesi, ma come tutte le sintesi, un pò troppo riduttivo. Più che verità, termine monolitico e perfetto, io parlerei di autenticità, una parola che comprende anche le contraddizioni, gli errori, i difetti, i limiti. Ma nemmeno l’autenticità è sufficiente per creare bellezza, servono anche l’amore, inteso come cura e attenzione per quello che si sta facendo e soprattutto serve maestria, ovvero la capacità di usare consapevolmente gli strumenti e le tecniche del proprio mestiere più adatte ad ottenere il miglior risultato possibile. Certo è un ragionamento astratto, la “Bellezza” è un concetto astratto, nella realtà siamo circondati da infinite forme di diverse bellezze ma credo che in tutte ci sia qualcosa di vero (la funzione, la storia, il materiale, il luogo, il soggetto, l’idea…) realizzato con cura e sapienza.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano, con la tecnologia?
Un architetto che non ama la tecnologia che architetto è? La tecnologia è fondamentale per costruire ed è grazie alla tecnologia che cambiano i materiali, i metodi costruttivi, le esigenze di spazio, i linguaggi e quindi che la creatività evolve.
Come è organizzata la tua attuale attività? cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Siamo in due nella vita e nel lavoro e lavoriamo in modo molto libero, ma ovviamente ognuno di noi ha la sua sfera di eccellenza e responsabilità.
Cosa consigli a chi vuole investire nei propri progetti e intraprendere una carriera come la tua?
In realtà credo di non avere consigli da dare a chi è più giovane di me, anzi ho imparato moltissimo dai giovani creativi indipendenti che ho incontrato negli ultimi anni: rispetto alla mia generazione non puntano al lavoro o a una carriera strutturata ma direttamente a realizzare i loro progetti.
Pensi che nell’Italia di oggi ci siano ancora dei pregiudizi nei confronti di una donna architetto?
No
Quali sono le caratteristiche o le qualità che prediligi nella selezione dei tuoi collaboratori\trici?
Mi piacciono le persone chiare e dirette, ho sempre guardato a questo sia tra le persone della mia squadra quando avevo il ruolo di project manager, sia adesso, quando si tratta di scegliere fornitori o accettare committenti.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura?
Dipende da quali sono i suoi obiettivi. È una facoltà che io ho amato molto soprattutto per la varietà di discipline che ho potuto affrontare e per questo la consiglierei, ma ora il piano di studi è molto più rigido, bisogna quindi essere molto più convinti di voler progettare edifici una volta usciti.
Cos’è per te fare design (o architettura) oggi?
Penso che il design e l’architettura oggi debbano, nuovamente, ricercare la “durabilità”. Oggetti e architetture invecchiano sempre più velocemente, produciamo una quantità eccessiva di rifiuti e abbiamo rovine quasi contemporanee, dovute non tanto al degrado fisico dei materiali, ma alla poca adattabilità delle tipologie a nuove funzioni. Oggetti e luoghi devono di nuovo essere in grado di sfidare il tempo.
A chi ti ispiri?
A William Morris trovo la sua visione del rapporto tra creatività e libertà professionale molto attuale e il suo desiderio di portare la bellezza nella sfera del quotidiano mi ha affascinato fin dal primo anno di Università.
C’è una donna architetto a cui ti ispiri o ti sei ispirata?
Nessuna professionista conosciuta mi ha mai affascinato particolarmente, ma sono stata molto influenzata da due studiose, Françoise Choay ed Egle Trincanato. Il suo “Venezia minore” è un testo fondamentale per la formazione del mio senso estetico, penso sia grazie a questo libro se mi sono innamorata della ceramica popolare.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
La mia sedia di vimini disegnata da Gio Ponti e le calli di Venezia.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Qualcosa di bello che non serve a nulla.
Una buona regola che ti sei data?
Credere nel processo più che nel progetto.
Grembiule e vecchi abiti… È la cosa che mi piace meno del mio nuovo lavoro, non potermi “vestire”. Per fortuna oltre al tempo in laboratorio ci sono anche le fiere, i market e i workshop.
Work in progress
Sto lavorando a dei vasi in terracotta rossa, vasi da piante. Li realizzo con una tecnica che richiede molto tempo e che li rende quindi commercialmente “improbabili”, perché il costo della manodopera è sproporzionato rispetto al valore del materiale e alla funzione dell’oggetto. Li considero un omaggio al valore della manualità e un regalo che faccio a me stessa, lasciandomi libera di creare al di fuori dei vincoli del prodotto.