La scomparsa di Isabella Biagini
A suo modo, anche lei era una dea. Una dea minore, di quartiere; una santina, o santona, da superstizione pagana, perché Isabella Biagini incarnava una bellezza facile e sgargiante, di quelle che abbagliano ma stancano presto. Come tutte le dee, aveva avuto le sue croci; senza resurrezione, però. Lei, agli anni ’70, era rimasta inchiodata. Eppure era stato Antonioni il mentore di questa Loretta Goggi in versione sexy. Le inconfondibili tutine e l’aria bambolesca la rendevano una caricatura vivente, al punto da rammentare più una travesta che una donna.
Non per nulla una delle sue imitazioni più riuscite fu quella di Renato Zero, cui l’accomunava la pettinatura, la romanità e il sapido gusto della battuta. Entrambi lontani, e forse agli antipodi, del genderismo attuale. L'(auto)ironia debordante della Biagini celava dolori struggenti, amori scialati, famiglie distrutte. I suoi eccessi odoravano di cene rimediate e palcoscenici irrisori, mondi “altri” dove la diversità era uno stigma, il trucco un graffio di biro.
Una burlesque del Cupolone che ha mancato troppi treni. Dimenticanza? Altrui crudeltà? Probabilmente, questo e ancor più. Isabella Biagini non ha avuto eredi e oggi, del resto, non ci sarebbe posto per la sua avvenenza da modernariato. Ricordiamola così, bionda e incompiuta. Con la polverosa ingenuità che fa tutto perdonare, e rimpiangere.