Non c’è alcun dubbio, se crescere è cercare di recuperare i frammenti che abbiamo sparso lungo la linea spazio-temporale della nostra esistenza, Colette Shammah è la testimonianza di una donna che continua a crescere e non smette di cercare. Perché sa che la vera grande alleata di ogni esistenza é proprio la zona ignota che ci abita e che ci accompagna nella nostra immensità.
“Già da piccola mi riempivo la testa di domande domande domande, invece di divertirmi e imparare qualcosa” dice Esther, il personaggio che nel suo romanzo “In compagnia della tua assenza” la rappresenta. Lei é quella, tra le quattro figlie, che rimane accanto alla madre negli ultimi momenti della sua vita e la accompagna dolcemente alla morte. Il libro, edito da La nave di Teseo, é una sorta di epopea psicanalitica famigliare, incentrata sulla figura della madre, Sophie. Nata e vissuta ad Aleppo, nella Siria settentrionale, viene mandata da ragazzina a Versailles nel prestigioso liceo dell’Alliance ma, per fuggire alle leggi razziali, lascia la Francia senza riuscire a terminare la sua formazione liceale e si mette in viaggio, ebrea errante. Sola, riesce a tornare a casa, magrissima e nutrita per giorni e giorni di sola erba, stanchissima ma dignitosa e vincitrice sulla paura.
Da questa donna, dipinta fin da sedicenne forte, sicura di sé, emancipata, nasce sottile uno degli aspetti che accarezza Colette, la sua capacità di farsi visionaria. Avere una vision e crederci dubitando, oppure potrei dire dubitare credendoci, è forse una delle caratteristiche che, a prima vista, emergono dal ribollire della sua anima che non vuole più tacere. Tutte quelle domande chiedono risposte e Colette sceglie come interlocutrice sua madre, dedicandole un romanzo proprio dopo la sua morte. Quando, quindi, non può più risponderle con parole chiare, definite, certe.
Forse è proprio questo tipo di risposta che le serve, qualcosa da interpretare, in cui perdersi, da immaginare, da supporre. Perché solo rimanendo nel dubbio può continuare a porsi domande, può continuare a crescere. E chi più di una donna forte come la madre, piena di certezze fin troppo esibite per essere salde davvero, può divenire l’interlocutrice e lo specchio di una Colette che oggi , giunta ad una età matura, ha ancora voglia di scoprire di più, sempre di più sul senso dell’esistenza attraverso il dubbio? “Ho incominciato a pensare di essermi inventata tutto, il lungo rapporto con te, la nostra intimità, il mio ruolo di “preferita””
La passione di Colette Shammah per i legami sembra andare di pari passo con il bisogno di indipendenza perché la sua sete di ricerca ha desiderio di libertà ma il dubbio costante le chiede di avere dei punti di riferimento cui aggrapparsi per non rischiare di perdersi.
“La tua indipendenza aveva quella libertà che a me, con te, è sempre mancata. Non ero in grado di oppormi, ero sempre in bilico tra menzogna e chiusura, e quando negli ultimi anni sono riuscita a tenerti testa ero proprio fiera di me. Finalmente dichiaravo cose che, seppur semplici, ho sempre fatto fatica ad esprimere…..Però quanti sensi colpa! Oggi, nel vuoto che hai lasciato, capisco meglio: eri troppo per me, troppo concreta, troppo attiva e vincente. Io non riuscivo ad esprimermi nella tua sfera materna, ti accompagnavo sì nel tuo mondo ma il mio rimaneva un altro: mi piaceva perdere, piangere, nuotare in acque notturne in compagnia delle mie elusioni. A che sarebbe servito confessartelo?”
Ed é vero che il vuoto non esiste, non può esistere se dal vuoto emergono le infinite possibilità, quello che é stato ma anche quello che avrebbe potuto essere; e nei silenzi della madre Colette si insinua con delicatezza, riuscendo finalmente a dire tutto quello che ha tenuto dentro di sé, tutto quello che per tanti anni é rimasto inespresso. Ma fertile.
Colette Shammah, una famiglia di appartenenza ebraica e cultura internazionale, scrittrice, ha lavorato anche come mediatrice familiare e approfondito il metodo Feuerstein: questa sua capacità di mediare emerge dal personaggio che si è scelta tra le quattro figlie nelle quali proietta se stessa e le sue tre sorelle. Portavoce di un affresco tra lo storico e il metafisico, santifica l’assenza con la sua presenza accanto alla madre negli ultimi atti della sua esistenza e nel suo viaggio verso chissà quali altre dimensioni. E così Colette mette insieme uno dopo l’altro i vari frammenti, mai con il cipiglio della collezionista ma sempre con l’umiltà della ricercatrice dell’anima, perché è dal cuore che parte ogni sua domanda, dalla sua intuizione, dalla sua visione e va dritta a quelle dimensioni interiori profonde dove tutto è come deve essere e niente è come sembra.
Mi piace ascoltare Colette Shammah in questa carrellata di Eccellenza al Femminile (che potete leggere qui) per la sua capacità di accogliere e soprattutto di contenere, come un vaso che sa riempirsi non per avidità ma per protezione, un vaso pronto a ridistribuire quello che ha custodito. E mi sembra che con questo suo primo romanzo lo abbia fatto egregiamente.
*I personaggi del tuo romanzo appartengono interamente alla realtà?
Il personaggio principale del mio romanzo è il desiderio. Ho scritto la biografia dei desideri inespressi di ogni componente della mia famiglia. Ho mischiato fatti reali a pensieri immaginati, date effettive a avvenimenti mai avvenuti. Dialoghi di cui ricordavo dei frammenti a dialoghi che avrei desiderato avere o che penso avrebbero desiderato avere i personaggi della mia famiglia diventati i personaggi della famiglia del mio racconto. Al punto che oggi il personaggio di Sophie ragazzina mi sembra proprio quello di mia madre.
* Cosa è rimasto di tua madre in te? ,
E’ rimasto il mio essere figlia, il ricordo di giorni passati assieme. Il suo sguardo che osserva il mondo, tutto quello che pensava, che faceva. La sua forza che mi colpiva quando era presente mi colpisce anche ora che non c’è più. Mi ci confronto, vinco, perdo. Sono io tutti i giocatori della squadra. E a volte sento che lei mi guarda. Non spesso. A volte.
Mi sono rimasti addosso i suoi occhi tristi gli ultimi giorni della sua vita. Una tristezza ricca di orizzonti, lontana dalle piccole richieste, dalle piccole cose. Mi è rimasto il desiderio del suo abbraccio primordiale. E ora che scrivo di lei penso che sarebbe propizio per me, chiamarla in aiuto più spesso. Contare su di lei, qualunque forma abbia assunto dopo essere stata su questa terra.
*Cosa c’è realmente di te in Esther, il personaggio che ti rappresenta?
Adoro Esther. Una figlia impigliata nella rete affettiva, una figlia che cerca, che non si arrende mai , che associa un’immagine con un umore, invidia, gelosia, menzogna. E’ una ricercatrice impaurita che ha individuato un modo di scappare dalla realtà attraverso l’immaginazione. Ma la paura non la ferma. Lei chiede, si interroga, racconta disfunzioni, difficoltà all’interno di un grande amore simbolico. La madre. Il corpo della madre. La forza della madre. Un’altra al suo posto non avrebbe potuto prendersi la libertà di scrivere, di dire. Io rispetto questo personaggio più di quanto rispetti me stessa.
*Accanto a tua madre così fragile negli ultimi attimi della sua vita, pare che tu assuma il ruolo materno…
Nel romanzo parlo del ruolo di madre e figlia e condanno l’inversione. Faccio dire a Esther che una madre ha il diritto di rimanere madre anche quando invecchia e perde il potere. Insisto su questo punto in tutto il romanzo. E’ l’attributo più leale che ho dato al personaggio di Esther che segue la madre come vuole quest’ultima. Fino alla fine.
*Cosa ti spaventa di più nella gestione di un ruolo?
Il ruolo mi stanca, mi fa ridere. E’ una maschera dietro alla quale non si riesce a nascondere niente. Accetto l’impegno, la responsabilità. Sono una madre presente. Cerco di rimediare agli errori fatti ma comunque e sempre sono presente. Ma non in un ruolo. Anche con la scrittura non mi sento in un ruolo. E’ uno spazio del desiderio e in questo sono molto grata ai lettori e agli editori.
*Nel capitolo finale del tuo romanzo fanno capolino anche i personaggi con i quali hai rappresentato le tue tre sorelle. La voce di ognuna rimanda ad un aspetto diverso di tua madre, la sinfonia finale è un caleidoscopio nel quale si rispecchiano quattro diverse madri, quattro donne che sembrano disgregarla in quattro diversi specchi diverso l’uno dall’altro…
Il capitolo finale è un memoire totalmente inventato. La mia intenzione era di rendere tutti i personaggi buoni, uniti, comprensivi gli uni con gli altri. Le quattro sorelle sono dei puri personaggi anche se alcuni avvenimenti di cui parlano sono realmente avvenuti.
Quattro figlie, quattro voci. Aline, la figlia maggiore ricorda e parla con qualcuno fuori campo. VIgée è fitta fitta in un dialogo beckettiano con sua madre come se stesse bevendo un tè con uno spirito che dialoga con lei e attraversa con leggerezza avvenimenti pesanti come la morte della madre.
Victoria, la minore si trova in una seduta di psico analisi a Londra e attraverso un sogno si rende conto di non essere colpevole nei riguardi della madre. Una bella invenzione letteraria.
Esther, l’io narrante va sulla tomba della madre e si confida con lei per l’ultima volta. Da li prende il titolo il romanzo. Una figlia che ormai ha un’unica possibilità. Essere e restare in compagnia dell’assenza della madre.
*Che ruolo gioca, in generale, l’assenza nella tua vita?
L’assenza nella mia vita è quando non cerco più dentro la realtà ma sono attratta dall’altrove, da ciò che esiste ma che non si vede. Faccio diventare presenza un sentimento, una ragnatela di pensieri, delle proiezioni altrui. E queste presenze sono le ancelle dell’assenza. In parole più chiare l’assenza mi coglie alle spalle e mi toglie da dove sono per portarmi in un luogo nuvoloso. L’assenza non è innocente nella mia vita.
*Ho letto un tuo bellissimo scritto sull’”altrove”..é un tema che si riflette nel tuo approccio alla vita. Ma ritorniamo al tuo romanzo. Come hanno reagito le tue sorelle leggendo ciascuna la propria “parte”?
Era la parte più delicata, quella che avrebbe potuto creare imbarazzi e separazioni. Invece è andata liscia. Aline, Claudia, lo ha letto e non ha detto nulla. Sembrava indifferente o per lo meno è quello che mi è sembrato di percepire. Vigée, Andrée, (n.d.r. qui la mia intervista su Dol’s alla sorella Andrée) si è divertita molto e comunque mi aveva seguita durante tutta la lavorazione. Infatti il libro è dedicato a lei. Victoria, Suzy, non lo ha letto penso o comunque non me ne ha mai parlato. Esther sono io per cui problemi non ne ho fatti.
*Io, da figlia unica, avrei tanto desiderato delle sorelle.. ma come è in generale nella vita il tuo rapporto con le altre donne?
Mi sento amica delle donne, ho avuto delle belle esperienze, mi piace il loro corpo, lo sento amico. Sarà perché sono cresciuta in un mondo di donne tra sorelle cugine e nipoti. Ora mio figlio mi regala un equilibrio che con mio marito non sono riuscita a raggiungere.
*Ti definiresti una persona accogliente?
Ascolto e accoglienza mi sono familiari anche nei loro contrari, il non ascolto e il rifiuto. Sono sensibile alle parole dell’altro perché dietro il sipario c’è molto da ascoltare. E mi viene naturale accogliere, è un gesto materno, un’attenzione al dettaglio, un prevedere cosa farebbe piacere all’altro e prepararlo, che sia cibo, ordine in una stanza, un abbraccio sentito anche con il corpo.
*Sai accogliere incondizionatamente?
Quando l’accoglienza ha a che fare con l’accettazione del carattere introverso dell’altro o con la sua disattenzione, o con dei modi che non appartengono ai miei gusti morali, allora non sono più così brava ad accogliere. Il diverso è sempre “un lavoro da fare” per me. E per diverso in questo ambito intendo una persona che esce dal panorama che io desidero avere. Un panorama fatto di riflessione, di impegno, di confronto con difetti e qualità.
*Qual è il tuo rapporto con la parola scritta?
La parola scritta ha un forte potere su di me. Vivo la realtà scritta come se fosse quella vissuta con il corpo. Amo le parole scritte, amo leggerle, costruirle, disegnarle, come fosse un dipinto o una partitura. Amo cercare nel dizionario come si scrive una parola, gli accenti, le doppie. L’italiano è la mia lingua di adozione, io non sento di avere una lingua madre. Mia madre parlava francese ma un francese che veniva dal medio oriente. Eravamo stabiliti in Italia ma mi avevano messa in una scuola francese. L’italiano parlato e scritto l’ho incontrato dopo i diciotto anni, all’università. Da allora leggo solo in francese anche quando rileggo. Cerco delle traduzioni buone, le migliori. Sono molto attenta alla traduzione e grata ai traduttori che prestano la loro voce per altri. E’ un mestiere così importante e così poco riconosciuto.
* Sei un’attrice, hai lavorato in teatro e nel cinema. …
Ho recitato tanti anni nel teatro di mia sorella con Franco Parenti e molti altri colleghi di lavoro. La parte preferita era lo studio del testo a tavolino, lo sguardo del regista sul testo, la partitura. Poi andare sul palcoscenico. Lo spazio, la voce, il diaframma che si muove, i tempi giusti. Ho lavorato anche con De Filippo nella compagnia di suo figlio Luca.
*E poi, perché hai abbandonato?
Mi piace mettermi dentro a un’altra persona, un personaggio, mi piace recitare ma non aprezzo la vita dell’attore e sapevo che quella non era la mia vita. Volevo una famiglia tranquilla e tutte quelle tournée non facevano per me. Mi sono data un tempo. Volevo fare la protagonista e poi andarmene. L’ho fatto. Con il regista Gianni Serra in televisione a Napoli. Una serie sul disagio seguito da un gruppo di analisti. Io recitavo la parte dell’analista. Ero coccolata e seguita e importante. Quello che volevo. Poi è stato facile interrompere. Tanti anni che oggi mi sembrano uno scherzo che mi ha dato tanto.
*Cosa è la solitudine per te?
La solitudine per me è una bestia nera. La sento quando non mi sento. Quando ho paura di non essere vista e di non essere capace di vedere. La solitudine è dover decidere cose importanti da sola, quella è una solitudine più amica, più facile, più semplice da gestire. Infatti ci sono molti tipi di solitudini nella mia vita. In sintesi devo dire che sono fortunata per le mille possibilità che mi offre e mi ha offerto la vita. La solitudine peggiore per me è la mia ingratitudine che esiste e persiste malgrado la logica e la lotta. Ma sempre meno, sto raggiungendo il traguardo.
*E il silenzio?
Il silenzio non è legato alla solitudine. Anzi è il suo opposto per me. Adoro il silenzio. Mi nutre, lo cerco, lo trovo e lo adopero per stare bene, per ritrovarmi per ricominciare. Non potrei vivere come vivo senza il mio adorato silenzio.
*Quale spazio ha nella tua vita tua componente spirituale?
Cerco di vivere modificando le parti della mia natura meno generose. Cerco di non voler solo ricevere ma anche condividere. Voglio fare degli sforzi per essere degna di vivere. Non so quale spiritualità io stia seguendo oggi. Forse frammenti di molte. Nella saggezza ebraica c’è tutto come in altre filosofie di vita. Ma dato che è parte di me senza che io la vada a cercare, penso che ultimamente ho scelto lei. Seguo i kabalisti. Trattano l’oscurità e la luce come entità con cui abbiamo a che fare dal Big Bang. Mi piace il loro modo di interpretare questo gioco di luce e ombra. Nella mia vita c’è molta ombra. Devo e voglio farla fuori al più presto anche se ormai so che ci vuole tempo. Le cose fatte in fretta sono momentanee.
Grazie Colette!