Il risultato del referendum, che non possiamo che definire storico, ha visto trionfare il “sì” con una percentuale del 66,4% dei voti.
Ieri pomeriggio, 26 maggio, è stato reso noto il risultato del referendum svoltosi in Irlanda per l’abrogazione dell’ “Ottavo emendamento alla Costituzione Irlandese”. Il risultato, che non possiamo che definire storico, ha visto trionfare il “sì” con una percentuale del 66,4% dei voti.
Ma cos’è questo “ottavo emendamento”?
La tradizione giuridica irlandese in materia di interruzione volontaria di gravidanza è stata fino ad ora una delle più restrittive d’Europa, insieme a quella polacca (ben noti sono i progetti di una nuova revisione della materia da parte del partito Pis, Diritto e Giustizia, sostenuto dalla granitica Chiesa Cattolica) e vanta origini molto antiche (“Person Act”, 1861) riscontrabili altresì all’interno della Costituzione irlandese del 1937 (art. 40.3.3).
Proprio in tal contesto, e in modo specifico per evitare derive progressiste come quella che nel 1973 aveva toccato da vicino gli Stati Uniti d’America con la storica sentenza della Corte Suprema Roe v. Wade, fu introdotta la disposizione che venerdì donne e uomini irlandesi hanno deciso di abrogare.
Ciò che questo emendamento, a conferma di quanto stabilito dall’articolo sopra citato della Costituzione, intendeva riaffermare era l’attribuzione di una personalità giuridica al “concepito”, equiparandolo alla gestante. In termini più semplici, la vita del feto (anche quando non ancora del tutto “vita” scientificamente parlando e ritenuta tale dal momento del concepimento) viene messa sullo stesso piano di quella della madre, non riuscendo pertanto a garantire un’adeguata tutela dei diritti riproduttivi della donna.
Alla restrittiva normativa si accompagna anche una scarsa tutela di altri diritti riproduttivi, quale quello all’informazione legato alle procedure e allo stato di salute dello stesso feto, non sempre garantite dal personale medico sanitario. L’effetto sulle donne in stato di gravidanza è stato catastrofico: patologie accertate in ritardo ed esodi verso il vicino Regno Unito per ricorrere ad una IVG. In caso di aborto illegale sono previsti fino a 14 anni di carcere e la procedura viene garantita solo in caso di rischio di vita per la gestante (“Protection of Life During Pregnancy Bill” del 2013).
Perché dunque la vittoria delle donne e degli uomini irlandesi ci riguarda?
Abbiamo di recente fatto gli auguri di buon compleanno alla nostra legge 194, una legge maltrattata, sebbene migliore di altre scritte in Europa e nel mondo, e abbandonata a se stessa, come le stesse donne che hanno il diritto di vederla correttamente applicata. In molte zone d’Italia la percentuale di medici non obiettori sfonda il 70% e quei pochi obiettori che ci rimangono sono spesso sottoposti a carichi di lavoro eccessivi e vengono spesso ostacolati nella crescita professionale (questione sollevata con l’Istanza 91/2013, caso CGIL v. Italia).
Abbiamo ben poco di cui gioire, a dimostrazione di come avere una buona legge sulla carta non equivalga ad una sua piena applicazione. Che poi è dunque quasi come non averla.
Dobbiamo quindi festeggiare, perché l’Irlanda ci ha insegnato come non importi quanto tempo possa passare perché una lotta di principio venga coronata dal successo. L’Irlanda ci ha dimostrato che un cambiamento è possibile e che bisogna cercarlo senza mai arrendersi, anche quando sulla parete di una grande città svetta un manifesto che ingenuamente e incautamente definisce l’aborto prima causa di femminicidio.
Non dobbiamo quindi dimenticare di lottare, di esercitare il nostro diritto di parola, di lamentarci se un diritto non viene rispettato, se le tutele non vengono garantite, se una preziosa informazione non ci viene data e, infine, anche quando un farmaco definito “contraccezione d’emergenza” non viene più garantito all’interno di tutte le farmacie (grazie all’aggiornamento della Farmacopea), ma questa è un’altra storia…