Avevo compreso che l’architettura è un codice di Matrix, che permette di conoscere aspetti apparentemente nascosti del mondo, una porta verso ciò che il visibile non cela, ma rende non a tutti interpretabile.
Flavia Rossi è una giovane architetta che vive a Roma dove si dedica all’arte e alla fotografa. Tutto ciò che la circonda può diventare lo stimolo per strutturare un nuovo lavoro. Sorretta dalla letteratura, dalla musica, dall’architettura e più in generale dalle arti visive, confeziona progetti di forte introspezione, tant’è che le sue opere sono state definite vere e proprie “finestre sull’anima”.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
No, in generale la mia famiglia non ha mai cercato di indirizzarmi in alcuna scelta, ma di fornirmi gli strumenti necessari per riconoscere e seguire i miei sogni.
Che cosa significa per te “fare architettura”?
“Fare architettura” significa saper apprezzare e gestire due aspetti: lo spazio e la luce, tenendo conto della relazione tra gli elementi che ne fanno parte e dando importanza sia allo “spazio del vuoto” che allo “spazio del pieno”.
A chi ti ispiri?
Fin dai primi anni dell’università non ho mai guardato esclusivamente l’architettura per “fare architettura” o la fotografia per “fare fotografia”. Ritengo che conoscere e guardare tutte le arti sia l’unico modo per essere veramente se stessi in quello che si fa, poiché c’è un passaggio fondamentale: la reinterpretazione. Quindi negli anni mi sono circondata di immagini ricorrenti, scaturite nella mia mente grazie a una musica o a un libro, che non sono stimoli prettamente visivi, oppure sono stata ispirata da un avvenimento capitato a me o ad un amico. La vita è un mistero così affascinante!
È più difficile per le donne affermarsi e salire ai livelli più alti?
Penso di sì, chi non ammette di vivere in una società maschilista mente.
Come concili l’attività professionale con la tua duplice attività di ricerca artistica? Ci racconti nel dettaglio la tua attività?
Lavoro principalmente come artista in uno studio di architettura e questo va continuamente ad arricchire la mia ricerca personale. Intendere la fotografia come ricerca e non come mero documento o espressione di un sentire momentaneo implica uno studio continuo e un’analisi approfondita del significato delle immagini.
Utilizzo principalmente la fotografia come mezzo espressivo, per un amore e cultura delle immagini che ho incamerato nel tempo e perché credo che la fotografia dia non solo la possibilità di comunicare, ma anche di prendere coscienza di se stessi e del reale che ci circonda. Se non si tratta di lavori su commissione, cerco semplicemente di fotografare e lavorare successivamente sull’archivio. Penso che le idee migliori maturino nel corso delle azioni.
Quali ripercussioni ha avuto sul lavoro il tuo essere una donna?
Esprimo me stessa all’interno di ogni lavoro, e quindi credo che traspaiano alcune peculiarità femminili che mi connotano. Sono molto sensibile e anche romantica; elementi che, nella composizione di una fotografia, hanno il loro peso. Tante volte sono riuscita a comprendere il carattere di un fotografo dalle sue immagini.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto?
Penso di no, semplicemente i ritmi delle donne sono diversi da quelli degli uomini. E sicuramente ci sarebbe bisogno di fare maggiormente squadra tra noi donne.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
Fortunatamente no.
Qual è stato il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
Villa Planchart di Giò Ponti, il primo progetto che ho ridisegnato per l’università insieme ad una cara amica.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano, con la tecnologia?
Direi buono, anche se spesso penso che alcune macchine, come le stampanti, stiano preparando una rivoluzione contro gli esseri umani.
Nell’ambito della fotografia cerco di seguire tutto da sola, dalla fase dell’ideazione, allo scatto, all’editing. Sicuramente cerco il confronto con chi stimo o ha esperienza in un determinato ambito che posso non aver mai intrapreso, ma penso che i fotografi, se veramente tali, debbano riuscire ad assumere delle scelte individuali sul proprio lavoro.
Nel processo di stampa sono seguita da anni da uno stampatore bravissimo e, per quanto riguarda le mostre, ritengo che la figura del curatore sia fondamentale, ma anche in questi casi si deve sviluppare una sinergia direzionata dal fotografo, che deve agire come un regista, e dal risultato che vuole raggiungere.
Cosa consigli a chi vuole investire nei propri progetti e intraprendere una carriera come la tua?
Consiglierei di studiare molto, seguire le proprie ossessioni e di non smettere mai di essere curiosi.
Pensi che nell’Italia di oggi ci siano ancora dei pregiudizi nei confronti di una donna architetto?
Dipende dagli ambienti. A livello progettuale no, ma a livello esecutivo, di cantiere, sì.
Quali sono le caratteristiche o le qualità che prediligi nella selezione dei tuoi collaboratori\trici?
Scelgo sempre di lavorare con persone che stimo nell’ambito professionale, ma dò un peso rilevante al “fattore umano”. Non sopporto gli arroganti e gli egotici, categorie dalle quali cerco di tenermi distante.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura?
Certamente consiglierei ad una ragazza di iscriversi alla facoltà di architettura! Ritengo che gli insegnamenti ricevuti durante l’università mi siano stati molto utili per capire la direzione da intraprendere, poiché li ascoltavo accettandoli e reinterpretandoli. Per questo motivo, nonostante dal secondo anno avessi già capito di non voler fare l’architetto, non mi sono iscritta ad un’altra facoltà. Avevo compreso che l’architettura è un codice di Matrix, che permette di conoscere aspetti apparentemente nascosti del mondo, una porta verso ciò che il visibile non cela, ma rende non a tutti interpretabile.
Cosa vuol dire per te fare design (o architettura) oggi?
“Fare architettura” oggi significa non perdere di vista la tradizione e la tutela del paesaggio ambientale e culturale. Significa inoltre saper ascoltare le persone, i loro desideri quotidiani, con serietà e rispetto, perché l’architettura è di tutti, è una faccenda sociale.
C’è una donna architetto a cui ti ispiri? E una artista?
La figura di Lina Bo Bardi mi ha sempre colpito, è senza dubbio una delle più significative e rivoluzionarie figure dell’architettura del Novecento. Ti riporto un suo pensiero per me molto importante e che penso riassuma un po’ di quanto ho affermato fino ad ora nell’intervista: “Per un architetto, la cosa più importante non è costruire bene, ma sapere come vive la maggior parte della gente. L’architetto è un maestro di vita, nel senso modesto di impadronirsi del modo di cucinare i fagioli, di come fare il fornello, di essere obbligato a vedere come funziona il gabinetto, come fare il bagno. Ha il sogno poetico, che è bello, di un’architettura che dia un senso di libertà”. Un’artista che stimo molto invece è Sophie Calle, per la sua capacità di utilizzare qualsiasi mezzo espressivo e saper trasformare in opere d’arte la sua vita e quella delle persone che incontra, spesso coinvolgendo in modo attivo lo spettatore.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
Le caffettiere disegnate da Aldo Rossi! Sono delle vere e proprie architetture in miniatura, capaci di incarnare valori poetici ed emotivi, che mi fanno pensare quanto Aldo Rossi non facesse solo confusione tra “sentimenti e luoghi” – concetto a me molto caro – ma anche tra i sentimenti e gli oggetti.
Come architettura direi il Pantheon, per il senso di sacralità che traspare già attraversando il pronao e per la sua cupola straordinaria, decorata da cassettoni di misura decrescente man mano che si prosegue verso l’alto, verso l’oculo che collega l’esterno con l’interno e fa del Pantheon un “luogo in cui ci piove dentro”, per citare Calvino
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Un blocchetto di post-it e l’agenda, una piccola Moleskine nera con le pagine morbide ma la copertina rigida.
Una buona regola che ti sei data?
Cercare di non perdere mai il sorriso.
Il tuo working dress?
Casual, ma mai senza un gioiello.
Città o campagna?
Entrambe, o meglio direi città e montagna, visto che sono per metà romana e per metà abruzzese. Il rapporto con la montagna segna in maniera molto forte chi lo vive.
Qual è il tuo rifugio?
Ne ho più di uno. In primis, la mia stanza: vivo nella casa in cui sono nata e la ritengo una vera fortuna. Poi, alcuni palazzi del centro di Roma. Mi piace entrarvi di nascosto, soprattutto in quelli che possiedono cortili, perché mi interessa la relazione tra spazio interno e spazio esterno. Salgo a piedi fino all’ultimo piano, mi soffermo sui dettagli, una decorazione o un pavimento particolari, che leggo come sinonimi di libertà da un processo di industrializzazione colpevole di rendere l’architettura sempre più globale e globalizzata.
Ultimo viaggio fatto?
A Sofia, per la Triennale di Architettura.
Il tuo difetto maggiore?
Sono testarda.
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
La perseveranza, che forse deriva dalla testardaggine..
Un tuo rimpianto?
Ho sempre ritenuto antipatici coloro che rispondevano no a questa domanda ma, ahimè, mi ritrovo a farlo anch’io: non ne ho! Ci tengo però a spiegare perché la penso in questo modo, non certo perché ritenga di aver sempre compiuto le scelte più appropriate o di essermi comportata nella maniera migliore, ma perché credo in una certa prepotenza del caso, in un’energia che governa un disegno più grande, del quale poche volte abbiamo la possibilità di intravederne la trama. Quello che ci capita è sempre quello di cui abbiamo bisogno, diceva uno vecchio scrittore giapponese.
Work in progress….?
Ho moltissime idee in testa e altrettante sono in preparazione….intanto una mostra personale a Roma in autunno e una nuova autoproduzione in forma di libro.