Tanti fatti della vita di tutti i giorni, molti comportamenti ritenuti esagerati e agiti nei vari campi dell’esistenza, ci spingono spesso a chiederci: “Ma dov’è il limite, dove andremo a finire?”
di Maria Giovanna Farina
Difficile rispondere ad un quesito così impegnativo, possiamo però provare a riflettere sul concetto di limite e sulle sue implicazioni.
In Occidente, la prima scuola filosofica a parlare di limite fu quella pitagorica. Pitagora (VI sec. a.C.), il suo caposcuola, non lasciò nulla di scritto e amò circondarsi di un leggendario alone di mistero, tanto da coprirsi il volto con un velo quando comunicava con la ristretta cerchia dei suoi adepti. Ciò che interessa la nostra riflessione non è certamente questo personaggio discutibile, ma l’importanza che il pitagorismo dette al limite.
Per questa corrente di pensiero alla base della realtà c’è il numero, quindi un fondamento di razionalità che dà origine a tutte le cose, il numero è qualcosa in cui astratto e concreto si mescolano; così come il mondo è coesistenza e armonia degli opposti, i numeri posseggono lo stesso tipo di realtà. Per i pitagorici l’opposizione originaria da cui tutto deriva è il limite e l’illimitato (péras e àpeiron), il limite dà ordine e forma all’illimitato creando l’ordine matematico là dove non esiste. Questa definizione sembra essere una tra le più soddisfacenti, il limite dà una forma precisa a ciò che non la possiede, ma se pur veritiera è un po’ rigida e non esaurisce tutti i campi in cui il limite si estende.
Quando immaginiamo il limite pensiamo a dei confini ideali che più concretamente si possono vedere quando disegniamo un poligono su una superficie piana, i lati del poligono racchiudono una parte dello spazio dando ad esso dei veri e propri limiti, lo delimitano. In questo caso siamo noi con degli strumenti tecnici a dare dei limiti precisi ad una parte dello spazio infinito, ma tutt’altra cosa accade quando il concetto di limite lo riferiamo alla Morale, all’Etica, alla Religione, alla Legge e a tutti quei principi istituzionalizzati che governano la vita degli esseri umani che vivono associati. In questi casi il limite è rappresentato dalle leggi, si parla infatti di leggi morali e religiose, di ordinamento giuridico e di valori etici.
Il limite è visto anche come qualcosa che indica mancanza, l’essere privo di, nei casi in cui si pronuncia la fatidica frase: “Questo è il mio limite” come a dire che più di così non posso andare avanti, il limite è una barriera oltre la quale non posso procedere. Un così pesante impedimento può rivelarsi però una fortuna quando l’andare avanti porterebbe in un “luogo” ignoto, ricco di pericoli per la nostra vita o in un vicolo cieco, in una empasse sterile ed infruttuosa come sono le prove dell’esistenza di Dio: a ciò si può pervenire solo con un atto di fede, credo quia absurdum diceva Sant’Agostino elaborando Tertulliano.
Il limite naturale è un punto di incontro tra due entità reali o astratte, è quel punto dove finisce una cosa e ne inizia un’altra. Differente è il limite convenzionale perché il confine è stabilito da regole condivise da un gruppo più o meno ampio di persone.
Il limite che condiziona quotidianamente e inderogabilmente la nostra esistenza è certamente la legge, che con il suo valore prescrittivo, pone continue e nuove soglie oltre le quali non dobbiamo avventurarci, a partire dal limite di velocità per le automobili per arrivare a quello oltre il quale si violano i diritti umani. Il limite si fa legge mettendo continui paletti lungo il nostro cammino e se da un lato regola la convivenza, altrimenti impossibile, dall’altro sembra aumentare la naturale aggressività degli uomini. Pensiamo alle numerose guerre che insanguinano il nostro pianeta mosse dal bisogno di difendere i propri confini territoriali e rinforzate dal desiderio umano di dominio: sono, paradossalmente, quei confini (il limite territoriale) a potenziare il desiderio di andare oltre, invadendo lo spazio dell’altro. Gli etologi Konrad Lorenz e Edward Hall hanno scoperto per primi che lo spazio intorno ad un essere umano non è neutro, anzi Hall ha precisato che vi sono quattro zone immaginarie che suddividono lo spazio intorno all’uomo: intima, personale, sociale e pubblica. Non è necessaria una profonda riflessione per osservare come queste zone siano continuamente violate offrendo l’opportunità all’aggressività di incanalarsi in condotte comportamentali di vario grado di espressività, dalla più simbolica alla più concreta. Il limite prescrive un certo grado di tolleranza oltre il quale non è possibile invadere le aree, sembra mettere ordine, in realtà potenzia il desiderio di infrangere la legge.
Dunque dovremmo iniziare con l’eliminazione della proprietà privata che impone dei limiti territoriali? Nel “Il contratto sociale”, Jean-Jacques Rousseau ritiene l’uomo buono per natura, ma orientato a dominare sui suoi simili a causa della proprietà privata, per i confini territoriali che essa traccia. A questo proposito Sigmund Freud ribalta la posizione di Rousseau nel suo saggio “Il disagio della civiltà”, sostenendo che i sovietici tentarono invano di arginare la connaturata aggressività umana eliminando la proprietà privata. In realtà non si può risolvere il problema dell’aggressività eliminando il limite, la possibile e auspicabile soluzione non è pertanto rintracciabile nella soppressione della legge e delle sue applicazioni, ma in un rinnovato uso della ragione che prevalga sull’istinto e sulla paura.
Il limite assicura a due entità confinanti la loro autonomia; un caso eccezionale come l’innamoramento stravolge, sia sul piano fisico che spirituale, questa regola cercando di eliminare il limite di separazione tra due persone che tendono a fondersi. In un’occasione come questa nessun limite esterno riesce a bloccare lo stato di grazia di chi vive il miracolo dell’innamoramento.
Non possiamo non occuparci, in questa nostra riflessione, del limite in Bioetica, quella branca dell’Etica che si occupa del limite etico in campi delicati come l’eutanasia, l’accanimento terapeutico, la procreazione assistita, la clonazione delle cellule a scopo terapeutico… L’etica della sacralità della vita (orientamento religioso) si contrappone all’etica della qualità della vita (orientamento laico), per poter conciliare queste due posizioni si rende necessario l’intervento della legge.
Da qualche anno, le istituzioni hanno varato una legge di regolamentazione per la procreazione assistita, non entriamo nel merito delle polemiche che essa ha suscitato, ma occupiamoci del limite introdotto. Si è stabilito, nei casi di infertilità accertata, quanti embrioni si possono impiantare per coppia (fecondazione eterologa cioè all’interno della stessa coppia) tutti da utilizzare per un unico e contemporaneo impianto nell’utero. In questa delicata vicenda possiamo ben osservare la differenza tra limite convenzionale e limite naturale, il primo stabilisce delle regole legali fortemente influenzate dalla bioetica che a sua volta risente fortemente l’influenza della religione, il secondo porterebbe a conclusioni differenti. Se da una lato la scelta della singola donna sarebbe inevitabilmente influenzata dai suoi valori e dalla sua educazione, dall’altro dovrebbe essere lei stessa a stabilire il limite dei propri tentativi, a decidere quando è il momento di fermarsi. Si è detto che con questa legge si favorirà la fuga all’estero degli aspiranti genitori, ancora una volta la legge spinge le persone ad oltrepassare il limite stabilito.
Come uscire da questo vicolo cieco? Forse dovremmo rivolgere la nostra attenzione all’accanimento con cui alcune donne portano avanti i loro tentativi di maternità, è lo stereotipo culturale che ancora una volta agisce indisturbato: “Una donna completa deve essere madre”, non importa a quale costo e a quale rischio. In questo caso il limite naturale potrebbe far accettare la ineluttabile finitezza umana aiutandoci ad arrenderci al nostro personale limite alla procreazione permettendoci di considerare l’adozione di un orfano. Sull’autorevole rivista Science è stato pubblicato alcuni anni fa il risultato di un studio condotto dall’Università Nazionale di Seul in collaborazione con dei ricercatori americani dell’università del Michigan: un embrione umano è stato clonato. Si parla di un passo avanti importante per la cura di alcune malattie degenerative come il morbo di Parkinson, ma al contempo si è aperto un dibattito etico sul limite da porre alla sperimentazione sulla clonazione umana che in Italia è stata vietata a scopo riproduttivo. In un caso come questo, quando ci sono in gioco possibilità di guarigione e di sopravvivenza, porre un limite diventa molto complicato.
Il grande boom della chirurgia estetica anti-invecchiamento ci spinge a soffermarci anche su questo punto, tenendo conto che questi interventi non hanno regolamentazione di carattere etico/legale, tutto è nelle mani di chi vi si sottopone e in quelle del suo chirurgo. Qui il limite è naturale? Direi di no, in natura con tempi differenti tutto invecchia. In questo caso il limite è stabilito dall’individuo che decide di porre un freno chirurgico alla vecchiaia incombente e da sé dovrebbe stabilire il limite oltre cui non andare, ma sembra molto difficile fermarsi al momento giusto, a quel punto ideale che farebbe del lifting un ritocco artistico e non una caricatura della giovinezza che fu. È la cultura dell’apparire giovani, perché la giovinezza è bella e dà successo, che cerca di rimuovere la vecchiaia e con essa l’esperienza, quel patrimonio che potrebbe aiutare gli uomini a non ricadere negli stessi errori, in quei corsi e ricorsi storici che il filosofo Gianbattista Vico vedeva avvicendarsi con scontata ciclicità. Il corpo è testimone della memoria, i ritocchi estetici possono essere considerati come un tentativo di cancellare la memoria. La pelle testimonia il nostro vissuto, parla di noi e delle nostre esperienze, si e ci racconta, nel senso proprio di raccontare di noi agli altri. Se cancelliamo i segni del tempo perdiamo il ricordo “vivo sulla pelle” delle nostre esperienze. Gli interventi chirurgici per gonfiare le labbra o ingigantire i seni sono l’alterazione del corpo femminile per esaltare una femminilità che non è femminile, ma un trionfo della tecnica che distrugge la femminilità stessa. La femminilità è qualcosa di principalmente interiore che non ha necessità inderogabile di estrinsecarsi attraverso un corpo, tanto più se un corpo è “violentato” e ridotto ad una prevalenza di materiale plastico. Barattare la propria connaturata femminilità in cambio di un’immagine corporea artefatta dalla tecnica impedisce alla femmina di mettere in gioco le proprie capacità seduttive, addirittura la conduce alla perdita definitiva: tutto ciò a favore di una “prevalenza del silicone”. Credo che un fisico alterato e adulterato crei una pericolosa frattura tra anima e corpo: come può l’anima mettersi in contatto con una “pelle” che non ha più la propria storia?
Quando ci chiediamo dov’è il limite non dobbiamo aspettarci una risposta definitiva: il limite è un concetto dai confini troppo labili e impossibili da fissare perché sempre in mutamento. In ultima analisi possiamo affermare che il limite in senso astrattamente universale è troppo subordinato all’arbitrio del soggetto o dei soggetti che lo applicano; forse il filosofo Martin Heidegger accetterebbe di definire il limite come qualcosa che si sottrae continuamente nell’incontro col Noi, il limite apparentemente vicino al Noi, è in realtà soggetto al volere fluttuante di chi lo applica a seconda dei suoi interessi etici, religiosi, politici e finanziari. La via d’uscita auspicabile, perché forse più confortante e sicura, sarebbe quella di rifarsi agli antichi Latini cercando di vivere la nostra vita cum grano salis e ri-trovare nella saggezza d’altri tempi quel equilibrato rapporto con le occasioni della nostra limitata esistenza.