Nella raccolta di saggi uscita nel secondo centenario della prima pubblicazione di Frankenstein o il moderno Prometeo, diverse studiose indagano, da differenti angolazioni e con differenti tagli, le vicende biografiche, l’ambiente culturale e la produzione letteraria di Mary Wollstonecraft Shelley secondo un’ottica di genere.
di Claudia Speziali
Anna Maria Crispino e Silvia Neonato (a cura di), Lady Frankenstein e
l’orrenda progenie, Roma, Iacobelli Editore, 2018
In questa agile raccolta di saggi uscita nel secondo centenario della prima pubblicazione di Frankenstein o il moderno Prometeo, diverse studiose indagano, da differenti angolazioni e con differenti tagli, le vicende biografiche, l’ambiente culturale e la produzione letteraria di Mary Wollstonecraft Shelley secondo un’ottica di genere.
Nel primo saggio, La donna che anticipò le nostre paure, Silvia Neonato propone una biografia della scrittrice inglese che intreccia ai dati fattuali una attenta ricognizione delle sue letture, della sua formazione intellettuale e delle sue opere, in un gioco di rimandi intertestuali che contribuisce a ricostruire l’ambiente del romanticismo radicale e del proto-femminismo britannico, in ampia parte coincidente con l’ambito familiare e amicale di Mary Shelley.
Si tratta di una sorta di foto di gruppo con signora, con al centro la giovane donna iniziatrice del romanzo di fantascienza, appunto con Frankenstein , “una storia ristampata migliaia di volte che ha cambiato l’immaginario occidentale e che ha dato un volto alle nostre paure più profonde” (p. 8) e che è stata oggetto di circa un centinaio di trasposizioni cinematografiche.
In Mary Shelley in Italia. In fuga oltre il dolore, Carla Sanguineti indaga la coincidenza letteratura/vita in Mary Shelley, prendendo in esame gli anni passati in Italia con la sorellastra Claire, Percy Busshe Shelley e i rispettivi figli. Sono quattro anni, dal 1818 al 1822, ricchi di viaggi, incontri, amore, amicizia, letture, produzione letteraria e ripetuti lutti: muoiono in rapida successione Clara e William, i due figli di Mary e Percy, Allegra, la figlia di Claire e Lord Byron, e infine Percy stesso, in un naufragio. Inizialmente Mary Shelley copre il dolore
con il silenzio, che diventa per un periodo la sua cifra. Poi scrive.
Frutto di autobiografismo catartico, nasce Mathilda, racconto dominato dal tema dell’incesto psicologico con il padre e che diviene una extended metaphor, una metafora ampliata, della condizione femminile. Nel corso della terza gravidanza di Mary prende corpo, oltre a una nuova vita, il dramma Proserpine, nel quale prorompe l’urlo della protagonista: “Dear mother, don’t leave me not” , che chiede aiuto alla madre per salvarsi dal potere di Ade, dio degli inferi, e che prelude, nella letteratura come nella vita, all’abbandono alla vita che continua.
La rinascita di Mary Shelley è segnata dalla stesura del romanzo Valperga, 0r the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca (Valperga, o vita e avventure di Castruccio degli Antelminelli, principe di Lucca), basato su un’approfondita documentazione storica, che ha come filo conduttore l’opposizione tra un luogo di pace, sognato dalle protagoniste femminili, e il mondo della storia e della guerra, impersonato da Castruccio. La scrittrice ne parla come di una gravidanza e una maternità difficili: il romanzo è un monumento alla madre, morta dandola alla luce, e presenta le figure femminili come le protagoniste di una storia alternativa al
patriarcato, rovesciando programmaticamente il canone del romanzo storico e gotico, che prevede eroi maschili sostenuti da personaggi femminili. Con il racconto Trasformazione, cominciato dopo la tragica morte di Percy e ultimato dopo il rientro in Inghilterra, inizia la transizione di Mary verso una fase onirica, che le consente di trovare gioia immaginando nuove rigenerazioni attraverso figure androgine.
Oggetto dell’indagine tra strutturalismo e psicanalisi di Marina Vitale ne L’incubo della generazione è la consonanza vita/letteratura in Frankenstein, in cui genesi, generazione, procreazione “percorrono l’intero testo e riecheggiano nell’espressione “hideous progeny”, che compare per la prima volta nell’introduzione all’edizione del 1831 e che starebbe a indicare insieme l’opera, il protagonista, l’autrice stessa, la scrittura delle donne e il suo rapporto con il mostruoso. Nel romanzo
il mostro parla di se stesso come di un aborto, mentre Mary è perseguitata dal senso di colpa per essere stata causa indiretta della morte della madre e, durante la stesura di Frankenstein, vive esperienze di disagio e dolore personali, quali l’essere quasi costantemente incinta dal 1814 al 1822, e di persone a lei vicine, quali la questione del riconoscimento della figlia avuta da Lord Byron e dalla sorellastra Claire, il suicidio di Fanny, un’altra delle sue sorellastre, e di Harriet, la giovane moglie abbandonata con due figli piccolissimi da Percy Busshe Shelley.
Tutta l’opera è dominata dall’istanza della generazione e proprio questa curvatura fisiologica determinerebbe instabilità nelle connotazioni simboliche di genere e renderebbe possibile, secondo alcune studiose, rileggere il romanzo come revisione dal punto di vista femminile del Paradise Lost di Milton. L’ambivalenza e la problematicità del testo porterebbero a identificare il Mostro con Eva, attraverso giochi linguistici e immagini che richiamano il sistema riproduttivo femminile, come a esempio l’architettura della casa/officina di Frankenstein.
Marina Vitale parla di testo “incinto” , in cui la gestazione si manifesta nella struttura: il racconto della Creatura è incapsulato, come un feto nell’utero, in una serie di strati concentrici, mentre “il corpus del romanzo è una tessitura di narrative e testualità diverse”, tenute insieme da suture, come il corpo del Mostro. Questa organizzazione strutturale sarebbe espressione del sentimento di inadeguatezza e dell’ansia di legittimazione di Mary, schiacciata da pressanti aspettative, e manifestazione della sua esigenza e della sua difficoltà di generare se stessa come scrittrice.
Attraverso una lettura intertestuale e interespressiva di Frankenstein di Mary Shelley, dell’Iguana di Anna Maria Ortese, la poesia di Wislawa Szymborka e di Sylvia Plath, nonché Maman, opera della scultrice contemporanea Louise Buorgeois, Sara Simone indaga l’opera della scrittrice inglese e Il mostro che la abita. L’immagine del mostro compare per la prima volta a Mary Shelley nel luogo per lei privilegiato della creazione, il dormiveglia, fatto di catene associative che si formano come
una successione di avvenimenti immaginari. Il mostro stesso è un succedersi di membra, una concatenazione di orrore e di fantastico. Il sogno da sveglia inoltre è per Mary il non-luogo privilegiato di incontro con i suoi morti; la coincidenza della nascita di una Mary, Shelley, con la morte di un’altra Mary, Wollstonecraft, induce l’autrice di Frankenstein a vedere la vita e la morte come vasi comunicanti. Il libro stesso è la sua creatura mostruosa, il rovescio della grande potenza
generativa delle donne, che le fa correre il rischio, scrivendo, di diventare il mostro di casa. Il mostro è un infelice, attraverso le cui parole parlano il rimosso, l’abietto, l’essere donna e l’essere artista, come starebbero a indicare alcune spie linguistiche. In Frankenstein compare il termine mummy, che in inglese significa sia mamma, sia mummia, mentre il primo confronto tra lo scienziato creatore e la sua creatura avviene alla Mer de Glace, sul monte Bianco, visitato da Mary poco più di un mese dopo l’inizio della stesura del romanzo; la scrittrice non può non conoscere l’omofonia in francese tra la mer, il mare, e la mére, la madre.
E dunque il mostro “è più spaventoso di una madre rediviva, e più gelido di una madre glaciale”. L’artista francese Louise Bourgeois rimette al mondo la madre scomparsa attraverso la scultura Maman, un enorme ragno pieno di uova di marmo bianco, un mostro come Frankenstein, che però
conserva l’embrione della vita, aprendo a una possibilità di futuro.
In Creature post-umane: da Frankenstein ai Cyborg, Anna Maria Crispino, esamina l’enorme impatto dell’opera di Mary Shelley sull’immaginario
collettivo e sulla produzione letteraria, colta e popolare, degli ultimi due secoli, prendendo in considerazione due testi: Frankenstein (1818) e l’assai meno noto L’ultimo uomo (1826), significativo antecedente della narrativa distopica e cyberpunk. Negli anni dal 1818 al 1826 la scrittrice inglese passa dal dubbio alla certezza che l’umanità abbia imboccato la via verso il disastro. Frankenstein è una chiara esemplificazione dell’effetto centrifugo del testo: è ovunque. Se, come argomenta Rosi
Braidotti, mostruoso è ciò che si discosta dal prototipo standard dell’umano, ovvero maschio, giovane, bianco e eterosessuale, la donna è il prototipo dell’anomalia. Frankenstein è mostruoso e fa paura perché è brutto e, anziché essere stato generato, è stato creato. Da lui discende una “immonda progenie” di mostri che incarnano le paure della civiltà occidentale e che portano al Cyborg. Nelle storie cyberpunk allo scienziato si sostituiscono le multinazionali. Gli interrogativi sulla natura del potere e le modalità con cui combatterlo e resistergli sono al centro del romanzo Il cacciatore di androidi (1968) di Philip K. Dick e della sua trasposizione cinematografica di Ridley Scott, Blade Runner (1982) e il romanzo Ragazze elettriche (2016) di Naomi Alderman. Come già in Frankenstein e Blade Runner è invece centrale il tema della memoria in Quando nascesti tu, stella lucente (2017) di Nadia Tarantini. A quale sia l’essenza dell’umano tentano di dare risposta il sequel di Blade Runner, Blade Runner 2049, e Cybergolem (1991) di Marge Piercy, in cui si recupera Frankenstein passando per la figura del Golem e si apre alla possibilità che il mostro possa essere la salvezza; dal lavoro di una scienziata e di uno scienziato nasce il “maschio perfetto”, “proiezione dei desideri femminili di relazioni positive tra uomini e donne, fuori da modelli
patriarcali e di potere”. Frankenstein dà voce ai rovelli della modernità, mentre L’ultimo uomo incarna la certezza del fallimento – e questo spiegherebbe il suo scarso successo – e è ispiratore della narrativa distopica, in particolare dei decenni a cavallo tra XX e XXI secolo, tra le altre di Margaret Atwood, P.D. James, Nicola Griffith, Ruth Neswold e Ursula K. Le Guin, che nella Salvezza di Aka (2002) immagina due mondi speculari, entrambi basati sul pensiero unico, uno dominato da una setta
di fondamentalisti religiosi e l’altro da un regime di fondamentalismo laico “aziendale”. Ispirato all’Ultimo uomo è anche tutto il filone dei racconti distopici per Young Adults, presenti dalla narrativa al cinema, dalla tv ai videogiochi, dalla musica ai fumetti, come a esempio la trilogia di Suzanne Collins, Hunger Games (2008). Nell’Ultimo uomo, infine, un’ultima donna, Mary, racconta l’apocalisse finale, ovvero il fallimento della propria vita e la catastrofe dell’umanità, che oggi si
può anche leggere come catastrofe della ragione maschile. Complementare al saggio di Anna Maria Crispino è Il cinema e il suo mostro, in cui Giovanna Pezzuoli passa in rassegna le principali trasposizioni cinematografiche direttamente o indirettamente ispirate al romanzo di Mary Shelley, a partire dagli anni ’30 del Novecento. Autentica icona è Frankenstein (1931) in bianco e nero di James Whale; il mostro è interpretato da Boris Karloff, vero protagonista del film, che suscita una dolente pietas. Il suo aspetto viene stravolto rispetto alla descrizione che ne fornisce Mary Shelley, come viene stravolto il romanzo, in un continuo rimando tra la solitudine della creatura e la solitudine dello scienziato. Nella Moglie di Frankenstein (1935), sempre di James Whale, il mostro, sempre interpretato da Boris Karloff, acquista maggiore consapevolezza e inizia a nutrire sentimenti umani. Il figlio di Frankenstein (1936), diretto da Rowland K. Lee, è l’ultimo Frankenstein
interpretato da Boris Karloff. Nella pellicola la creatura si guarda per la prima volta allo specchio e si dispera. Il figlio dello scienziato rianima il mostro, che ha due pallottole nel cuore, per vendicare la memoria del padre e, durante l’esperimento, l’immagine di Frankenstein legato e ripreso dai piedi pare quasi il Cristo di Andrea Mantegna.
Bela Lugosi interpreta Igor, il diabolico servitore gobbo che manipola la creatura, inducendola a uccidere per soddisfare la propria sete di vendetta. Nel Terrore di Frankenstein (1942) di Erle C. Kenton, Bela Lugosi nuovamente interpreta Igor, che si offre volontario e fa inserire il proprio cervello nella testa di Frankenstein. Già da questa prima serie di film si delineano un paio di motivi che correranno sotto traccia anche nelle produzioni successive: la creatura come vittima inconsapevole,
strumento di chi la manipola, e il non controllabile uomo-macchina di potenza sovrumana.
A partire dagli anni ’40 e per i due decennisuccessivi, l’attenzione si sposta quasi esclusivamente sullo scienziato e il mostro diventa un burattino nelle sue mani, come nella Maschera di Frankenstein (1957) di Terence Fisher. Con Frankenstein junior (1974) di Mel Brooks si ha una fantastica presa in giro dei film degli anni ’30 di James Whale e il vero stravolgimento riguarda la creatura, bonario gigante che balla il tip tap con Gene Wilder, mentre in The Rocky Horror Picture Show (1975) di Jim Sherman l’uomo artificiale è il bellissimo, biondo e palestrato Rocky. In Blade Runner (1982) di Ridley Scott, i replicanti del modello più evoluto paiono cattivi, in realtà vorrebbero solo prolungare un po’ la loro esistenza. Terminator (1984) di James Cameron è un cyborg da combattimento malvagio e minaccioso, mentre nel sequel , Terminator 2.
Il giorno del giudizio è programmato per difendere il futuro eroe della Resistenza dagli attacchi di un cyborg che lo vuole eliminare. Il cyborg di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven, che ha il cervello di un poliziotto, è stato costruito per eliminare il crimine a Detroit. Con Frankenstein di Mary Shelley (1994) di Kenneth Branagh si ha un ritorno alle origini, mentre Frankenweenie (2012) di Tim Burton pone al centro il tema della creazione come atto d’amore. Il piccolo Victor Frankenstein riesce a far
rivivere il suo cane, Sparky, e il film è dominato dal tenero rapporto tra i due. In I, Frankenstein (2014) di Stuart Beattie si arriva alla totale identificazione tra creatore e creatura e diventa esplicito l’equivoco della “cosa senza nome” che assume quello del suo artefice e passa attraverso conflitti drammatici, sempre cercando se stessa.
A due secoli di distanza dalla prima edizione di Frankenstein, i temi del confine tra scienza e manipolazione, la paura della morte e il desiderio di immortalità continuano a suscitare domande irrisolte, incarnate nella creatura di Mary Shelley, e tutti gli ibridi che ne derivano appaiono ormai fusi con lo scienziato, inducendo alla riflessione che forse i veri mostri sono dentro di noi.
Claudia Speziali – Nata a Brescia, si è laureata con lode in Storia contemporanea all’Università di Bologna e ha studiato Translation Studies all’Australian National University di Canberra (Australia). Ha insegnato lingua e letteratura italiana, storia, filosofia nella scuola superiore, lingua e cultura italiana all’Australian National University di Canberra e a quella di Heidelberg; attualmente insegna lettere in un liceo artistico a Brescia.