Per lei non c’è posto nell’albergo. Come una Messia femmina, Asia Bibi ripercorre le tappe del suo peregrinare in un tempo d’Avvento che non ha nulla di retorico e dolciastro. Non c’è posto davvero, letteralmente. La donna cattolica pachistana scagionata dall’ingiusta (e insensata) accusa di blasfemia dopo una vicenda distopica durata dieci anni vive in una sospensione penosa.
Per lei non c’è posto nell’albergo. Come una Messia femmina, Asia Bibi ripercorre le tappe del suo peregrinare in un tempo d’Avvento che non ha nulla di retorico e dolciastro. Non c’è posto davvero, letteralmente. La donna cattolica pachistana scagionata dall’ingiusta (e insensata) accusa di blasfemia dopo una vicenda distopica durata dieci anni vive in una sospensione penosa. Costretta a lasciare il Pakistan per sfuggire a branchi di fanatici sanguinari, non trova un solo paese occidentale disposto ad accogliere lei e la sua famiglia . Non uno. Già: e chi vuole inimicarsi i “devoti”? O forse altri paesi, palestre notorie di terroristi, in cui i diritti umani valgono meno di zero, ma indispensabili per gli interessi economici occidentali? E dunque nell’albergo Europa, culla delle libertà democratiche, posto per una madre cattolica povera, a rischio di una morte orribile, non esiste.
Ma non si tratta solo di Realpolitik o di denaro.
Asia Bibi non trova luogo nemmeno nei nostri cuori; nei nostri crani; e questo è incomparabilmente peggio. Le azioni e gli interessi sono nulla senza cultura, e la nostra è la causa prima del suo martirio.
Nella giornata dedicata alle donne vittime di violenza non si è levato un pensiero per lei. I professionisti dei diritti umani, sempre verbosamente pronti a indignarsi per le cause più disparate, si ostinano nella loro mutria ormai decennale, perché Asia non è una povera dei loro, è una povera della concorrenza; un’orientale senza schemi, soprattutto senza orientalismi. È una donna cattolica, quindi difenderla non è mainstream perché tutto quanto ricorda il cristianesimo per questi signori va rigettato come “colonialista” e “occidentale”; dimenticando fra l’altro la banale verità per cui il cristianesimo è nato in Medio Oriente ed è, a oggi, la religione più perseguitata al mondo.
I terzomondisti da salotto lo ignorano perché, a dispetto del conclamato multiculturalismo, conservano una visuale eurocentrica, ristretta e supponente.
I pochi che sono intervenuti sul caso, infatti, non hanno dimostrato solidarietà ad Asia e alla sua famiglia, ma ne hanno approfittato per intavolare polemiche meschine e pretestuose.
“Cosa fa il Vaticano?” essi chiedono fingendo indignazione.
Quel Vaticano che vorrebbero veder sparire dalla faccia della Terra viene improvvisamente ricordato (sempre per criticarlo, si capisce), pur di non fare i conti con la propria viltà.
Il punto è che quella di Asia non è una faccenda “vaticana”. È il dramma di una donna. È una tragedia della giustizia e dell’umanità. E dovrebbe interessare tutti/e.
Non comprenderlo è una schizofrenia mentale, una metanoia del pensiero, una fessura speculativa. Ridurre Asia a questione confessionale per la sua appartenenza religiosa (cristiana) simboleggia il fallimento dell’impianto culturale e valoriale dell’Occidente odierno.
Asia smaschera la cattiva coscienza del perbenismo progressista. La sua paura.
Chi teme di difenderla col pretesto di “non urtare i musulmani” sta lanciando un messaggio tre volte nefasto. Ci informa cioè che: 1) il fondamentalismo ha pieno diritto di cittadinanza, anzi, è la forma più autentica dell’Islam; 2) noi non sappiamo fronteggiarlo quindi è meglio patteggiarci tentando di contenerne i danni (un’Europa “alla Chamberlain” insomma, quando il primo ministro inglese cercava di blandire Hitler con continue concessioni e qualche tazza di tè); 3) e tutto quanto in barba ai musulmani pacifici, alle donne e alle minoranze perseguitate.
Perché, poi, gli strumenti per arginare il fondamentalismo esisterebbero. Nella stessa cultura d’origine, non come prodotti d’importazione. L’averroismo, l’India Moghul, gli innumerevoli momenti umanisti di cui è costellata qualsiasi civiltà dimostrano che una convivenza tra diversi è non solo possibile ma auspicabile; che il letteralismo è ignoranza e ottusità. Ma pensare è faticoso, lento; meglio le soluzioni spicce, gli slogan a effetto, e pazienza se a farne le spese sono i soliti noti. Quelli, guarda caso, che non detengono alcun potere.
Ma, se Asia è respinta dall’albergo dei diritti, non trova ospitalità, va pur detto, nemmeno presso molte sue congeneri.
È stata incarcerata, picchiata, stuprata, condannata due volte alla pena capitale e adesso cacciata di casa in casa da orde di maschi smaniosi d’impiccarla e bruciarla; c’è di che trasformare in femminista radicale perfino la Bella Addormentata nel Bosco.
Ma in questo decennio non le è stato dedicato un sit-in, un evento, un flash-mob, un’apologia, un cenno: nulla. Ci si è mobilitate per un’Asia del jet-set trasformata incredibilmente in icona del femminismo, le vocianti liberal si arrabattano per convincerci quanto sia bello prostituirsi per lavoro (o vocazione?) e affittare il proprio utero, si pretende di rappresentare tutte le donne, anche quelle coi baffoni, ma Asia no, lei è una di meno, non interessa e non deve interessare, forse è troppo normale, troppo sé stessa.
E così assistiamo al paradosso – ma non troppo – per cui il solo a battersi per lei (a parte i media cattolici, pur se non tutti, e organizzazioni come Aiuto alla Chiesa che Soffre ) sia un suo connazionale, musulmano e gay, attivista per i diritti umani. A trecentosessanta gradi, però.
Il quale commenta, lapidario: “Il silenzio delle femministe su Asia Bibi è assurdo”.
O, forse, troppo chiaro.
Daniela Tuscano, insegnante e blogger, eclettica e multiforme. Ha scritto quattro libri e si occupa da sempre di politica delle donne, cultura, arte e religione. Vive e lavora in provincia di Milano.