Il nuovo romanzo di Martino Sgobba, La stanza dei racconti, Giovane Holden edizioni, 2018, ci invita, in modo complesso e singolare, a interrogarci sullo spazio etico della scrittura.
Il nuovo romanzo di Martino Sgobba, La stanza dei racconti, Giovane Holden edizioni, 2018, ci invita, in modo complesso e singolare, a interrogarci sullo spazio etico della scrittura impiegando l’espediente della metanarrazione, cioè delineando un personaggio-autore che riflette sulla creazione del libro stesso e sull’uso del linguaggio per plasmare molte altre trame di senso, ricordandoci che modificando le parole si può “funambolare un diverso progetto di esistenza”.
Il libro è questo e molto altro ancora. Si divide in tre parti dalla lunghezza asimmetrica; la prima, la più lunga, è un raccogliere frammenti biografici del proprio passato a Belluno – ricordi scrostati, immagini vivide – per inserirli in brevi narrazioni compiute, in cornici di un senso mai definitivo, ma carico di intensità e toni che variano dall’ironia, alla compassione, alla sorpresa, in una vera e propria apertura a quell’altro tempo e spazio che qui si possono incontrare. Il protagonista, Luca, è un giovane supplente che, dal sole della Puglia, si insedia nel freddo di Belluno, ma non con l’atteggiamento dell’esiliato infelice e nostalgico, del ‘deportato’, bensì con l’incuriosita gratitudine di chi è pronto a osservare e comprendere – sospendendo il giudizio – una realtà diversa perché sa che in quell’altrove, in quei nuovi paesaggi, suoni, colori qualcosa può accadere, ci può essere l’incontro, l’io può diventare sorprendentemente altro e sentirsi accolto nella propria distanza:
”Decisi che sarei diventato bellunese e avrei selezionato gli amici terroni in base alla qualità della loro nostalgia. Ci sono nostalgie che ti impediscono di vivere altrove e nostalgie che ti consentono di sentire come nuova patria cieli diversi.”
A Belluno, molti anni dopo, ritroviamo lo stesso Luca, convalescente a seguito di una difficile malattia, in veste di ospite provvisorio di un’anonima stanza d’albergo in cui si insedierà per scrivere con l’obiettivo di diventare vecchio. “Scrivere liberamente per invecchiare liberamente” significa mettere in atto un’operazione narrativa in grado di trasformare lo spazio malinconico di quella stanza in un luogo che non sia trappola ‘claustrofilica’, bensì possibilità di apertura all’altro, caratterizzato da accoglienza e ospitalità.
L’elemento che, per l’appunto, contraddistingue il romanzo (definiamolo così per comodità, anche se l’autore non ama la sterile disquisizione sui generi e le appartenenze letterarie) è l’alternarsi dei punti di vista narrativi: ogni capitolo della prima parte del romanzo è scritto inizialmente in terza persona, ma si trasforma, nella parte finale, nel punto di vista soggettivo dell’autore che, dalla clausura della stanza 125, riflette sulla sua scrittura, ne rivela i trucchi al lettore, dialoga con i personaggi, mettendo a nudo le sue ossessioni e le sue perplessità, mentre la stanza sembra animarsi e gli oggetti che ne compongono lo squallido arredamento si fanno interlocutori, in particolare lo specchio che è sempre più irritato con l’autore perché lo ha sottratto ai suoi giochi di superficie senza memoria per dargli profondità. Agli oggetti è, dunque, attribuita una vita autonoma, una capacità di ascolto e dialogo, di farsi correlativo oggettivo della temperie emotiva dei personaggi. Far parlare gli oggetti, inoltre, significa poter liberare i gesti dall’ordinarietà del quotidiano, che li ricopre con la patina dell’abitudine e li confonde; in questo modo recuperano la loro straordinarietà.
Non si tratta tuttavia solo un espediente metaletterario; Luca comincia a scrivere in uno spazio anonimo che lentamente si trasforma in luogo grazie alla presenza dei fantasmi del passato che diventano, finalmente, personaggi perché “occorre vestire tutti gli uomini con una storia, altrimenti il loro enigma diventa più oscuro”.
In qualche modo, ci viene suggerito da Luca-autore, la vita che viviamo dipende dalla qualità della narrazione che ne intessiamo, per cui il suo senso, finanche la sua possibilità di regalarci scampoli di felicità, sono collegati proprio al racconto che ne facciamo.
Saper curare e dosare le parole, connetterle in una o più trame ma anche scomporle quando è necessario, lacerandone la sintassi, operando commistioni inusitate tra aggettivi e sostantivi, significa regalare a quei frammenti e istantanee del passato che ci restano nella memoria temporalità, costruzione di senso, profondità e leggerezza insieme, poiché “ridisegnare i contorni delle proprie maschere è ridisegnare la propria esistenza”.
A tal fine, dopo il percorso di ricomposizione e reinterpretazione del proprio passato che si compie nella prima parte del libro, la stanza d’albergo verrà lasciata perché nella scrittura entrerà il flusso di vita del presente, tramite la figura di Valeria, che obbligherà quel Luca tornato a Belluno con l’obiettivo di imparare a diventare vecchio a fare il salto nella realtà.
Nondimeno, questo salto non sarebbe stato possibile senza la permanenza nella stanza 125, in cui anche le temporalità ha avuto quella sospensione che la lunga convalescenza di Luca ha implicato. Sottratta allo scorrere frenetico del quotidiano e del lavoro produttivo, la scrittura (non a caso legata alla malattia) obbliga alla riflessione, alla trasformazione della percezione, alla rilettura del passato, alla lentezza accurata, alla possibilità di interagire con i propri fantasmi inappropriabili, per dar loro un senso che possa finalmente permettere il presente aprendo la possibilità di una novità di vita. L’elaborazione del fantasma, il lutto e l’accettazione della perdita, il riconoscimento della mancanza, sono tappe necessarie per rimettere in moto i significanti e ricominciare ad usare la parola per intessere corde da lanciare verso l’altro, verso il presente.
Uscire dalla stanza per immergersi nella realtà è ora possibile perché “il passato è diventato una giostra da cui scendere e salire, un tunnel delle meraviglie e delle paure.”
Tale realtà, caratterizzata dall’apertura al mondo, è la casa famiglia che lo ospiterà, popolata da ‘poveri cristi’, personaggi fragili, marginali, eccedenti, spaventati dal caos del mondo che li ha feriti, i ‘non-adatti’, delineati con grande simpatia e tenerezza mai accondiscendente; a loro lo scrittore Luca si unisce volentieri in quanto sente l’affinità data dal non integrarsi mai del tutto nel flusso della vita per quella sua capacità/maledizione di osservare senza partecipare, per quel dialogare continuamente con i propri fantasmi, per quell’essere “uno che non si consegna mai completamente”, come gli ricorda il misterioso personaggio di Chiara, che compare alla fine di molte visite mancate.
Chi è quest’ospite che non appare agli appuntamenti, che rimane a lungo senza nome, che incuriosisce per il suo non rivelarsi e che talvolta si confonde con tutte le altre figure di donne che compaiono e che il desiderio del protagonista ha, in un modo o nell’altro, sfiorato e lasciato andare? L’amore, nel romanzo, si coniuga spesso come rinuncia all’incontro dei corpi, perché il “loro attrito potrebbe essere fatale”, e preferisce mantenere nell’inattingibile il desiderio, escludendone il possesso.
La sfaccettata e contraddittoria figura di Valeria, figlia di Chiara, che è centrale nella seconda e terza parte del romanzo, diventa personaggio cardine intorno a cui si intrecciano complessi rapporti e si costruiscono tessiture narrative cadenzate da autodistruttive trame del godimento.
L’allontanamento dalla casa-famiglia, che sia Luca sia Valeria dovranno lasciare alla fine del secondo capitolo, è paragonata alla cacciata dal Paradiso Terrestre che forzerà il protagonista a varcare la soglia dell’Inferno (la terza parte del romanzo), dove alberga la realtà nelle sue sfaccettature più sordide e disperate.
Se, da un lato, sembra dirci l’autore, la bellezza è possibile proprio nella casa famiglia, dove si creano rapporti e si intrecciano legami, dove c’è un’ospitalità semplice e sincera a cui si può dare il nome di amicizia, la vita – per essere raccontata e dunque vissuta – ha bisogno dell’attraversamento dell’Inferno, dove una complessa e impegnativa paternità simbolica si delinea in tutte le sue difficili e contraddittorie sfaccettature
Il finale, di delicata intensità, è legato a una stazione – topos sempre presente nella scrittura di Sgobba in quanto transito tra mondi – in cui il rapporto tra i corpi che si sfiorano è forse impossibile, ma può comunque essere immaginato se l’occhio che guarda è quello di Luca-scrittore condannato/destinato a osservare e a creare storie, perché la fedeltà ai fatti mostra solo la superficie della realtà, perché c’è verità nel racconto soprattutto quando è menzogna. Grazie a queste riscritture del reale, Luca è pronto a superare la nostalgia e a vivere, finalmente, il presente.
Copertina: Piazza dei Martiri (Belluno) di Paolo Carazzai
Maria Grazia Tundo, è dottore di ricerca in ”Teoria del linguaggio e scienze dei segni” e insegna Lingua e Letteratura Inglese in un liceo di Bari. Tuttavia, essendo il suo sguardo offuscato dal velo di Maya delle tecnologie informatiche, cerca di conciliare la dispersione in mondi digitali con la quotidianità del suo lavoro, costruendo reti di comunicazione che possano ridisegnare il concetto di ”distanza”.