Affresco di donne che salvano il mondo e della solitudine umana
Pochi sanno che Alfonso Cuarón, regista premio Oscar, ha nel cuore come seconda casa la Toscana e, in particolare, Pietrasanta, cittadina ricca di storia e cultura e piccola “Atene d’Italia”, di cui ha avuto nel 2014 la cittadinanza onoraria
Ed è qui che ha voluto raccontare di persona, con la semplicità e la disponibilità propria dei grandi, ma grandi davvero, il suo film Roma appena uscito, insignito del Leone d’Oro a Venezia quest’anno. Raccontare di un lavoro autobiografico che l’ha riportato alla sua terra e alle sue radici, in Messico.
Un racconto autobiografico che, nello svolgersi delle immagini, diventa però storia universale per tutti noi. Vita mostrata nel suo svolgersi quotidiano, drammaticamente faticoso, banalmente intenso e naturale nei suoi accadimenti.
Banale perché cosi “accade”, così capita. Nel succedersi dei giorni che, uno dopo l’altro, compongono il quadro di una vita intera. “L’esperienza umana è esperienza di solitudine”, dice Cuarón. “Io non credo che nella vita umana ci sia un senso, e credo che tutto si debba affrontare da soli. Credo però che l’unico senso in questa vita vuota sia l’esperienza della relazione affettiva. Questo è l’unico modo per dare un senso a questa Vita”.
E film di solitudine, ma anche di relazioni è Roma. Sequenze in bianco e nero digitale che mostrano in primo piano la vita, soprattutto di donne. Donne che partoriscono e soffrono, che danno vita e la sostengono. Donne che portano avanti il peso di scelte obbligate, di dolori da superare necessariamente per andare avanti, ogni giorno. Irrimediabilmente perché non è possibile fare altrimenti e la ruota del quotidiano gira e non si può fermare.
Donne che si perdono solo per un attimo nello sconforto, per “ritrovarsi” poi immediatamente perché proprio quello sconforto non possono permetterselo. Roma diventa cosi uno straordinario affresco sulla potenza del genere femminile. Qualcosa che alla fine ti sembra impossibile sia stato realizzato da un uomo per la sensibilità dello sguardo che riesce a cogliere esattamente il senso di faticoso coraggio che solo noi donne conosciamo, quando scelte superiori per altri ci impongono di andare avanti.
Avanti senza concederci mai il lusso di poter cedere un secondo. Perché quel “cedere” aprirebbe qualcosa di devastante, di troppo grande e non gestibile con i tempi di una vita che ogni giorno, come a Cleo nel film, pone impegni da assolvere e cose da fare di cui non è possibile perdere il ritmo dell’adempimento.
Si rilassa Cleo, infatti, solo giocando in una scena ad “essere morta”. E le viene da dire che poi non sarebbe così male, perché sarebbe “riposarsi”, finalmente.
“Non importa quello che ti dicono”, dice una delle protagoniste all’altra, “alla fine siamo sole”. E sole infatti appaiono le donne in Roma. Sole mentre uomini passano suonando con una banda ogni giorno, si allenano a combattere fra loro, fanno guerriglie, sparano ad inermi, tradiscono e poi abbandonano. Tutto mentre il punto fermo è mantenuto dalla saldezza matriarcale, profonda, uterina ed antica di donne che sono nerbo e radici delle relazioni affettive. Quelle sole per cui la nostra vita ha un senso, dice Cuarón.
Così la scelta emozionale e spirituale di scegliere interpreti che fossero simili ai propri ricordi. Un legame forte con la vita e con le dinamiche profonde dell’essere umano perché “anche nel cinema”, continua a raccontare Cuarón, “credo che la complessità di oggi dopo tanti anni di fantasia abbia bisogno della relazione con il mondo”.
La donna come guida del mondo, anche in assenza dell’uomo. Tre cose, tre pilastri ci confida essere state il motore di questa opera. Il ricordo di Cleo, la protagonista, figura che è stata una seconda mamma, la convinzione di voler finalmente esplorare ricordi personalissimi, di vivere memorie e la certezza di voler rappresentare tutto questo con il bianco e nero della pellicola. “Un bianco e nero che non è classico, ma un bianco e nero apertamente digitale. Un 65 millimetri più nitido, con una gamma di grigi incredibile. Un bianco e nero contemporaneo che visita il Passato”.
Roma, quindi, come rappresentazione della nostra commedia umana. Rappresentazione di fatti che accadono fuori ed intorno a noi, mentre viviamo la nostra personale e solitaria battaglia quotidiana col mondo e con la vita.
Vita che si riunisce e acquista significato esattamente come nella sorta di umana scultura che Cuarón ha voluto nella locandina immagine del film. Un abbraccio. Totale, disperato e meraviglioso di solitudini del momento, di paure appena vissute ma anche di grande ed infinita risoluzione di queste nella solida composizione plastica dell’amore.
Amore che, alla fine, resta l’unica cosa che conti e che resta nella nostra Vita.
1 commento
Di Maria Stefania Carraresi.
Roma
Il film, a mio parere premiato più che meritatamente a Venezia, è romantico “sotto traccia”, senza retoriche banalità, e inneggiante all’amore, quello femminile, che si offre incondizionatamente, che si fida (e per questo spesso ferito profondamente), protegge e avvolge.
ROMA è riferito al nome di un Quartiere di Città del Messico.
Proposto in un meraviglioso bianco e nero (da alcuni definito giustamente “luminoso”), evitando ciò che il colore potrebbe distrarre, e quindi essenziale nel messaggio.
In sintesi, per non svelare a chi non l’avesse ancora visto, narra la storia di una famiglia piccolo-borghese, e della sua affezionata e devota colf tuttofare di etnia autoctona, in cui le esperienze personali, seppur di diversa “classe sociale” si intrecciano, spesso con vari comuni denominatori, in un periodo (anni ’70) di sconvolgimenti politico-sociali.