Il linguaggio, le parole, i testi non sono neutri, innocui elementi di una comunicazione che non lascia segni, strascichi. Sono frammenti ed espressioni di una cultura che non è immutabile, che se nociva e foriera di ripercussioni gravi, deve essere parte di una riflessione collettiva, affinché si diffondano strumenti di decodifica di certi messaggi e mutino abitudini, stili, prassi.
Il sessismo
Il sessismo permea ogni aspetto, luogo, contesto, ambito, dalla vita privata al lavoro, non è mai giustificato, ma qualcosa di adoperato quotidianamente in modo più o meno evidente, ostile, esplicito, per ripristinare l’ordine patriarcale, costruendo e alimentando una inferiorità della donna, la sua sottomissione, facendo da sponda a violenza e abusi, sfruttamento e oggettivazione. In pratica, conservare dominio e controllo sulle donne, tramandando e confermando la cultura patriarcale. Il sessismo, parte del bagaglio misogino, non è qualcosa di innocuo, ma è altamente dannoso per la sua capacità di penetrare nella mentalità e nel pensiero di chi lo assorbe, costruisce stereotipi che impediscono un ragionamento scevro da condizionamenti e pregiudizi, in questo caso maschilisti.
In questi giorni ho riflettuto molto sull’ultimo caso di Sfera Ebbasta, sui testi trap, rap, la musica. Mi sono data il tempo per ascoltare e per elaborare. E mi sono posta molte domande, a cui devo dire non ho trovato risposte certe. Posso solo tentare un ragionamento, un’analisi e proporle perché dal confronto possa nascere un dibattito, compiendo un passo in avanti, scorgendo sfumature che nelle contrapposizioni del bianco/nero non sono facili da trovare.
E le femministe?
Immancabile, direi. Questo articolo richiama le femministe, e già su questo dovrebbe accendersi una lampadina. Gli uomini ci spiegano le cose e ci suggeriscono anche su cosa, perché, quando e come mobilitarci, indignarci e prendere posizione. Si chiama mansplaining, che va a braccetto con il paternalismo. E no, troppo facile, soprattutto perché non è roba da donne, ma è una questione che riguarda sia uomini che donne, intacca il pensiero, il linguaggio e la prassi di entrambi i sessi, quindi si tratta di prendere le distanze da un meccanismo che sembra innocuo ma non lo è. Per un approfondimento rimando all’ottimo articolo di Donatella Caione che su questi temi è attiva da anni.
Detto questo, il sessismo è pane quotidiano essenzialmente perché è il modo di agire più semplice e immediato per ristabilire una gerarchia, un gradino, per svilire ogni tentativo civile di dialogo e confronto, silenziare e per annichilire, anche per poter riaffermare l’inferiorità delle donne, all’occorrenza, qualora mai si pensasse di aver raggiunto parità e uguaglianza. Una questione insanata, tuttora aperta, se pensiamo ai fiumi di riflessioni femministe a partire da Simone de Beauvoir, per giungere al prezioso lavoro di Chiara Volpato in Deumanizzazione. Come si legittima la violenza e Psicosociologia del maschilismo. Pensare che sia solo un problema di rap/trap o di un genere musicale sarebbe assai riduttivo, semplicistico, quando in effetti è solo un pezzo del puzzle, basta leggere i giornali e guardare nel nostro quotidiano, le pubblicità, per accorgersi quanto diffuso sia questo mal-vezzo. Politici e rappresentanti istituzionali partecipano numerosi a questa affermata consuetudine. Tassello dopo tassello, goccia a goccia lo stillicidio scava e crea voragini grandi come grand canyon culturali. Una sorta di erosione mentale, da cui è complicato uscire.
Censura? Quali interventi?
Il primo vero enorme problema non è pensare di censurare, che sappiamo non ha mai funzionato, ma come lavorare affinché i fruitori di questi prodotti e contenuti, che provengono da più parti, siano in grado di decodificarne il senso, sezionarlo, analizzarlo, coglierne ogni aspetto, anche quelli nocivi, elaborare un’opinione e capirne il significato, ovvero tutto ciò che compone il pensiero critico. Una cassetta per gli attrezzi che torna utile non solo in caso di sessismo. Per questo un’educazione di genere, alle differenze, a relazioni tra uomini e donne fondate sul rispetto e la parità, al contrasto degli stereotipi e linguaggio sessisti, ci appare l’unico vero strumento che abbiamo per intraprendere un percorso, quanto meno una riflessione. Non possiamo crogiolarci nel senso di ineluttabilità, di immutabilità, per cui certi modelli culturali ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Altrimenti saremmo sempre fermi a considerare normali certi comportamenti. Invece le cose cambiano e in tanti aspetti si sono fatti passi in avanti, per esempio abolendo il delitto d’onore, il matrimonio riparatore e riconoscendo la violenza sessuale come reato contro la persona. Evitiamo di applicare il solito metodo di di mettere sotto il tappeto le questioni, liquidandole come roba da bacchettone femministe che non comprendono l’arte. Non si tratta di questo e ancora una volta si tratta di un invito a non sottovalutare e ragionarci almeno un po’. Non possiamo sempre sviare dalle sollecitazioni che la nostra realtà ci pone. Come dire, chiudiamo qui la faccenda perché sull’arte non si discute, nulla di più sbagliato, perché l’arte e i fenomeni stessi ci spingono a far emergere elementi, generando una dialettica che possa produrre anche cambiamento.
Purtroppo sempre vero e attuale ciò che dicevamo l’anno scorso a proposito del brano Yolandi di Skioffi:
“Non è una novità, non è il primo caso, né sarà l’ultimo. A livello musicale abbiamo una lunga tradizione, una sorta di visione mitizzata dell’uomo che abusa, agisce il proprio potere di vita e di morte su una donna. Così come non sono nuovi epiteti e gergo. Sembra che ci si compiaccia in questa sequenza orrorifica. Anche questo fa parte di un certo merchandasing della violenza, una esibizione ostentatamente machista. Si ricalca un modello, lo si cosparge di un po’ di glitter, di una parvenza artistica e lo si dà in pasto al pubblico. Si vende questo prodotto e il relativo corollario di subcultura maschilista, sessista e violenta.
Qualcuno potrebbe sostenere che è una “istantanea” del punto di vista distorto del femminicida. Eppure il rischio emulazione, di immedesimazione è altissimo e ci dobbiamo chiedere se vale la pena lasciar correre. Soprattutto se quel pubblico è composto di giovanissimi, digiuni di chiavi di lettura e di mezzi per guardare oltre la superficie. Ci chiediamo che impatto possano avere simili contenuti su un individuo in formazione, che sta costruendo una propria idea e percezione delle relazioni affettive.
Non è sufficiente segnalare un contenuto, una foto, un video, un testo sul web, sui social, perché ve ne saranno altri mille similari e comunque il brano e quello che diffonde continueranno a girare altrove. Occorre allargare lo sguardo di azione facendo riferimento all’urgenza di un intervento educativo massivo che doti i ragazzi degli strumenti per decodificare certi messaggi e valutarne senso e conseguenze.”
Al momento questo tipo di interventi restano a macchia di leopardo, non sono sistematici, anzi c’è chi li ostacola con forza, ed è proprio questo il punto. So bene, per esperienza diretta, quanto bisogno c’è di diffondere questo tipo di esperienze, quanto bisogno di confronto e di approfondimento c’è tra i ragazzi e le ragazze e quanto arricchimento reciproco si sprigiona quando si propongono certi percorsi.
Il sessismo, la violenza, la trasgressione
La trasgressione è qualcosa di naturale e alimento irrinunciabile dalla pre-adolescenza in poi. Una fase per misurare i propri limiti, conoscersi, esplorare, formarsi. Ci siamo passati/e tutti/e, con varie declinazioni e zig zag. Conosciamo e ricordiamo tutto quello che rappresenta quel senso del “proibito”, sconosciuto limite da superare ad ogni costo. Quindi non è possibile farne una questione di scontro generazionale, di adulti che non comprendono le nuove generazioni. Non possiamo nemmeno farne un elemento distintivo legato al nostro tempo attuale. Perché sappiamo che così non è. Dobbiamo però tener conto del rischio normalizzazione, emulazione della violenza e dei comportamenti veicolati, in totale assenza di mezzi e strumenti di decodifica e contestualizzazione.
Il disagio. La presa di coscienza
Esistono brani della storia del rock che raccontano disagio, rabbia, depressione, dolore e riescono a esprimerlo attraverso figure, metafore, non solo attraverso un linguaggio esplicito. Narrare una storia non è mai semplice, è una dote, un talento, qualcosa di speciale. Ecco ci sono modalità differenti che riescono a parlare del medesimo tema ma a proporlo in termini tali da attivare la riflessione. Non si intende fare una valutazione del livello artistico, semplicemente sarebbe bello educare all’ascolto e a scavare nei testi, proponendo un lavoro critico a riguardo. Un po’ come entrare in un romanzo, fare letteratura. Ricordo il metodo di insegnamento della mia insegnante di inglese delle superiori, per cui i brani musicali erano parte del percorso, al pari di una poesia, di un testo teatrale o del romanzo. Si può fare, anzi è un modo per avvicinarsi ai ragazzi e alle ragazze, entrare in un mondo a loro più in sintonia. Ma occorre saperlo fare, senza alcuna presunzione e restando “in ascolto”. L’autore dell’articolo sopra citato sul Il Fatto Quotidiano, Fabrizio Basciano, musicologo, musicista, docente potrebbe iniziare ad occuparsi di questo, anziché chiedersi in modo retorico cosa fanno le femministe a riguardo.
Responsabilità. Mercato, produttori, industria discografica, domanda e offerta
Per Federica Sciarelli, Sfera Ebbasta non ha responsabilità per quanto accaduto a Corinaldo, però, a suo parere andrebbe fatta una seria riflessione sui messaggi che veicola con le proprie canzoni. Ma a questo punto occorre allargare lo sguardo. Riprendo le argomentazioni del rapper Kento: “la fruizione della musica è cambiata più negli ultimi 15 anni che nei precedenti 150 e ovviamente l’industria non può non tenerne conto. Un esempio per tutti: sono sempre più rari i contratti discografici che comprendano solo l’elemento discografico e i concerti e non anche il merchandising e i diritti d’immagine in generale. Il prodotto è l’artista, non più la musica. Ecco la gara all’estremizzazione del look, dell’attitudine, in un certo senso anche dei testi.”
In questo c’è chiaramente un richiamo a una responsabilità più vasta, che tira in ballo direttamente un elemento che traina tutto: il mercato e ciò che crea business. Un moloch al quale tutto diventa sacrificabile, subordinabile.
E Kento suggerisce: “Un altro filo conduttore abbastanza discutibile tra la trap e una parte del rap classico è certo machismo e sessismo ostentato del quale, a 45 anni dalla nascita del movimento Hip-Hop, potremmo forse cominciare a fare serenamente a meno.” Non è un’impresa semplice, deve partire dai soggetti interessati questo farne a meno. Ma chiaramente domanda e offerta si influenzano a vicenda, i gusti stessi sono qualcosa di raramente spontaneo. E il potere degli artisti per poter prendere le distanze da una industria discografica che continua a investire in questo senso non è poi così forte.
Tra l’altro NUDM alcuni mesi fa aveva redatto un manifesto antisessista, proprio mettendo in connessione sessismo e hip hop/rap: “non un’imposizione o uno strumento di censura/autocensura ma un punto di partenza per una discussione seria e approfondita. A tutti gli artisti e le artiste che si riconoscono nei suoi valori chiediamo di sottoscriverlo e farlo girare.”
Insomma, la strada non ha soluzioni semplici e immediate. Né possiamo cucirci la bocca perché si tratta di arte o invocando la libertà di espressione.
Abbiamo più di qualcosa che non va e non riguarda solo la musica. Riguarda il nostro modo di rappresentare le donne, le relazioni, la costruzione di una maschilità nuova, di modelli fluidi che siano meno gabbie stereotipate, ma che sappiano accogliere le molteplicità dell’essere uomo e donna, di raccontare un’altra storia, che contempli rispetto e valorizzi le differenze. Sugli adulti il lavoro è indubbiamente più arduo e complesso, ma sulle nuove generazioni è tutto possibile, siamo in tempo per evitare che sessismo, misoginia e cultura patriarcale si cristallizzino e si fissino nel loro sentire e agire.
Concludo, ragionando su quanto accade sempre più frequentemente negli ultimi tempi: attacchi verbali e fisici nei confronti di donne con ruoli istituzionali. Un effetto del clima d’odio che purtroppo viene alimentato anziché arginato. Dimostra quanto vasta e diffusa sia l’abitudine alla prevaricazione e a colpire le donne, una violenza che non deve trovare più sponde e che va stigmatizzata sempre. Siamo immersi in un clima pesante, difficile, ostile, e ad essere uno dei bersagli privilegiati sono ancora una volta le donne, soprattutto se libere e portatrici di valori e contenuti positivi e progressisti. Si deve andare avanti con coraggio e perseveranza nella costruzione di una società priva di violenza e intolleranza, ma è una cosa che riguarda tutti/e noi nel quotidiano, nessun ambito può essere escluso.
Per approfondimento: