Isabella d’Este e l’Impresa “delle pause”: enigmi musicali e motti della marchesa di Mantova nel suo appartamento al Castello di San Giorgio.
Nec spe nec metu
Attraversando le campagne ancora ghiacciate che conducono da Ferrara verso l’umida e acquosa Mantova, la “Vinegia picolina” del Rinascimento, tra rivi e fossati che luccicano gelidi al timido sole invernale che non può scaldare l’aria pungente e il fiato dei cavalli, sembrerebbe di vederla, Isabella, seduta su quel carro nuziale, sedicenne dagli occhi neri “luminosi e penetranti” e l’atteggiamento risoluto e fiero. Con sguardo limpido, foriero di progetti e ambizione, Isabella scruta l’orizzonte e s’inebria alla vista lontana del castello di San Giorgio, così simile a quello ferrarese che le ha dato i natali, progettato dallo stesso architetto. Il maniero emerge all’improvviso, tra i vapori e le brume, avvolto da un fascino così misterioso che alla ragazza sale, per un attimo, un nodo in gola e un fremito di felicità per tanta e magniloquente bellezza. Risale a pochi giorni prima, il 12 Febbraio 1490, il matrimonio per procura a Ferrara con Francesco II Gonzaga, di otto anni maggiore, già marchese di Mantova. Ella è stata promessa per un accordo stilato fin dalla tenera età di sei anni, quale ulteriore suggello della necessaria e opportuna alleanza tra le nobili famiglie degli Este e dei Gonzaga. Tuttavia, lei è l’erudita e alquanto raffinata figlia dei duchi di Ferrara, Ercole d’Este ed Eleonora d’Aragona, figlia del re di Napoli; lui, lo sposo, per quanto belloccio e sulla carta apparentemente sensibile, tanto da sorprendere la ragazza con amorose liriche a lei dedicate, che la intrigano non poco negli anni dell’attesa, si mostra più appassionato al “mestiere delle armi” e alla vita godereccia piuttosto che all’attività speculativa e intellettuale. Gli Este a Ferrara sono duchi, mentre i Gonzaga sono ancora solo marchesi, e questo Isabella, suo malgrado, lo sa. Ludovico III, nonno di Francesco, è stato l’arguto committente del Mantegna, intellettualissimo artista di corte e autore di quella meravigliosa “camera picta” che celebra i fasti della nobile casata, osservata da un finto oculo aperto sul cielo azzurro, gonfio di nuvole bislacche in cui si intravede un profilo umano. Certamente è una delle più straordinarie invenzioni pittoriche, una balaustra di marmo da cui si affacciano donne, putti cicciotti e un po’ burloni e persino un elegantissimo pavone, per osservare il transeunte umano immortalato dalla pittura con sottile ironia e distacco.
A nulla è valsa per Isabella, ormai impegnata ufficialmente, la proposta di matrimonio di Ludovico Sforza a cui sarà data in sposa, l’anno successivo, il 14 Gennaio 1491, l’amatissima Beatrice; di fatto, pur essendo sorella minore di Isabella, la piccola di casa Este diverrà la consorte a Milano di uno dei più ricchi e potenti signori della penisola. Famoso è l’estatico stupore degli ambasciatori nel vedere l’immenso tesoro del Moro nella Torre Castellana in Rocchetta, gelosamente custodito dalla raffigurazione di Argo, il mitico difensore affrescato dal Bramantino. Beatrice purtroppo vivrà solo per pochi anni ancora, morendo giovanissima e prematuramente di parto, lasciando il Moro nella disperazione più buia, richiuso nel proprio agghiacciante dolore all’interno dei camerini della “Ponticella”. Ancora oggi, si coglie una profonda tristezza nell’immaginare, vedendoli dall’esterno, gli ambienti sforzeschi tutti ammantati da pesanti drappi neri voluti dal Moro in segno di lutto. Di fatto, quella zona del castello è un’ariosa ala soprastante il fossato, progettata, secondo la tradizione dal Bramante, un’artista proveniente da quell’Urbino colta, illusionistica e cosmopolita, fucina di idee e di pensieri nuovi sull’arte.
Su quel carro, che ci ricorda la magnificenza del “Trionfo di Minerva”, dipinto da Francesco del Cossa nella spendida residenza degli Este a Schifanoia, Isabella d’Este, ora Gonzaga, porta con sé cervello e profondissime ambizioni, che le derivano da un’educazione raffinata. E per magnificare il proprio lignaggio agli occhi dei Gonzaga, porta con sé anche ben quattordici bauli di dote: tremila ducati, gioielli, piatti decorati, un servizio d’argento e raffinati dipinti. L’accompagna l’artista ferrarese Ercole de Roberti, che ha dipinto in oro i forzieri e le decorazioni del letto nuziale, proprio quel pittore che caratterizza con veemenza espressiva le figure dai tratti incredibilmente originali, stilizzati, innaturali e spigolosi. Isabella, nonostante la giovanissima età, sa già il fatto suo, finemente cerebrale, sottile stratega e amabile diplomatica. Non a caso l’Ariosto, protetto dai Gonzaga nella stesura dell’Orlando Furioso, di lei scriverà “D’opere illustri e di bei studi amica/… Liberale e magnanima Isabella…”. Le sono stati accanto, negli anni della sua formazione, maestri dell’Università di Ferrara del calibro di Jacopo Gallino, Battista Guarino, per non parlare di Antonio Tebaldeo, precettore e raffinato musicista. L’amore per la musica, trasmessole dal padre Ercole, accompagna la futura marchesa di Mantova nei suoi studi, fervente latinista e appassionata di humanae litterae e di ars antiqua, sempre a caccia di oggetti unici e preziosi, reperti da collezionare e sonetti da mettere in musica, impegnata com’è nel canto e nell’accompagnamento al liuto. Più di diciassettemila forestieri sono invitati a Mantova al banchetto di nozze, ricordato ai posteri con una splendida medaglia in cui spicca l’effigie classica di profilo dei due giovani e alquanto glamour coniugi mantovani. E’ ancora lontana l’epoca del selfie. Alla giovane sposa viene affidato, al piano nobile della torre sud-orientale del castello, un appartamento composto da diversi ambienti di svariate dimensioni, messi in comunicazione tra loro da un sistema articolato di rampe. Oltre a questi locali, ella abita nella controtorre a nord, la torretta di San Nicolò, due piccoli camerini che spiccano, per scelte e intenzioni della proprietaria: lo “studiolo”, luogo privilegiato di raccoglimento nello studio e nei piaceri dell’otium alquanto eclettico della sovrana, e la “grotta”, in cui raccogliere le collezioni d’antichità. Tutti appassionati collezionisti, gli illuminati signori del Quattro-Cinquecento gareggiano tra loro per decorare il proprio ambiente privato di studio e accaparrarsi sia oggetti dell’antichità, quali monete, gemme, gioielli, cammei, frammenti di sculture, sia oggetti di nuova progettazione e mirabolante uso, quali strumenti musicali, compassi, clessidre, strumenti di misurazione e precisione, collezionando persino conchiglie giganti e animali imbalsamati esotici o rari, che ripongono con maniacale cura in armadi, finemente decorati o illusoriamente intarsiati, insieme ai propri e amatissimi libri e preziosi codici miniati.
Appena giunta a Mantova, Isabella vuole adornare lo studiolo che, nel tempo, è l’oggetto di un complesso progetto figurativo commissionato ad artisti quali il Mantegna, il Perugino, Lorenzo Costa e, più in là negli anni, quando la donna si trasferirà ricreando gli stessi ambienti nei più comodi appartamenti a piano terra in corte vecchia, in seguito alla morte del coniuge, persino da due dipinti del Correggio. Sono tutte opere intente a esaltare i valori e le doti classiche a cui si ispira la marchesa, l’esaltazione mitologica e allegorica dell’amore sacro e delle virtù. Sottostante lo studiolo, Isabella progetta la “grotta”, un piccolo ambiente ancor più ispirato e affascinante, il cui soffitto a botte è rivestito da una sorprendente volta in legno, intagliata, dorata e dipinta di azzurro e oro, i colori araldici degli Este, opera di Antonio Mola. Isabella non è solo raffinata e colta, ma detta fin da subito a Mantova le linee guida sulla moda, lo stile, i modelli delle vesti con cui si diverte a competere con le dame più illustri d’Europa, non ultima l’affascinante e bellissima Lucrezia Borgia, dai meravigliosi capelli dorati, di cui ci rimane il vivivo ricordo in una misteriosa ciocca conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Amata dal cardinale Bembo, moglie di Alfonso, duca di Ferrara e pertanto cognata di Isabella, nonché amante dello stesso Francesco e pertanto ancor più rivale della marchesa in amore, Lucrezia vestirà i panni di un altro topos femminile, appassionato, raffinato e sensuale nella sua fragilità. Ma Isabella è altro: se non può la sua sola avvenenza, certamente più affascinante che bella, Isabella si muove alla ricerca del gusto e del Bello in sé. Ama i profumi e le essenze, per non parlare delle innumerevoli acconciature sfoggiate a corte e che tutte le dame fanno a gara per riproporre in altri ambienti cortesi. Mentre la sorella Beatrice è ritratta spesso con il più semplice “coazzone”, la lunga treccia che riunisce capelli e nastri raccolti in una reticella ornata, Isabella osa di più e inventa, innovatrice e modernissima influencer. Ne è esempio la “capigliara” di sua invenzione, un insieme fantasioso di capelli veri, ciocche posticce, perle e galloni con cui è raffigurata nel famoso ritratto di Tiziano conservato a Vienna, compiuto dall’artista veneziano in absentia della modella quando Isabella ha ormai sessant’anni, ma riprendendone le sembianze giovanili dal ritratto commissionato a suo tempo a Francesco Francia. Nella sua cerebrale ambizione, Isabella desidererà in seguito essere ritratta dal più sperimentale e innovativo tra gli artisti che aprono a Milano la “Maniera Moderna” al refettorio delle Grazie, quel Leonardo da Vinci che ripara a Mantova poco prima dell’ingresso a Milano dei Francesi e della fuga del Moro. Tuttavia, il rapporto tra l’esigente Isabella e Leonardo rivela la volontà dell’artista di non sottostare ai dettami precisi e forse a richieste troppo puntuali della committente. Leonardo la ritrae nel 1500 almeno in due disegni preparatori. Si conserva solo il cartone del Louvre, già forato e pronto per lo “spolvero” per il supporto finale. Probabilmente utilizza il modello della medaglia realizzata l’anno precedente da Gian Cristoforo Romano e che ben evidenzia le sembianze e il temperamento volitivo della “prima donna del Rinascimento”.
Ma la grande passione intellettuale di Isabella, fin dalla gioventù, sono le “imprese” araldiche, una sorta di gioco erudito con la creazione di rebus enigmistici in cui combinare immagini, dalle più semplici, come le lettere del proprio nome, ad altre più complesse e di difficile interpretazione, caratterizzate da insiemi di parole e lettere. Una volta decifrate, queste immagini svelano un simbolo o un significato che non solo caratterizza il personaggio corrispondente, ma ne identifica un motto, spesso una frase porta fortuna, in cui riconoscersi e identificare i propri intenti morali, gli insegnamenti personali e le ammonizioni, anche per coloro che sostano negli ambienti in cui le imprese sono raffigurate sulle pareti delle abitazioni o persino riportate su stendardi, gonfaloni, sugli arazzi, sulle suppellettili di arredo e sui finimenti dei cavalli, animali che, con i cani di razza, sono il grande orgoglio della famiglia Gonzaga. Con l’ideazione delle imprese, Isabella testimonia il suo desiderio di emergere, quale individuo, che appartiene coscientemente alla propria epoca, con gusti e valori suoi propri.
Nec spe nec metu, così recita una delle imprese isabelliane. Traducibile come il monito o il desiderio di entrare dentro un nuovo progetto, un nuovo anno, una pianificazione ambiziosa, non tanto senza speranza, come letteralmente inteso, ma senza l’illusione di dover necessariamente riuscire nell’impresa e tuttavia, sempre mossi dal coraggio di provarci, senza paura. Isabella non vuole temere la propria condizione femminile in un mondo a misura d’uomo e lo dichiara al mondo, consapevole della necessità di esprimere le proprie virtù; così si spiega l’impresa “XXVII”, in cui la pronuncia in dialetto mantovano del numero romano “Vinci i sette”, alludenderebbe ai sette vizi capitali da sconfiggere, allontanando così le inclinazioni negative.
Una, tra le enigmatiche imprese che decorano gli ambienti della grotta, amatissima da Isabella come attestano le fonti e i documenti d’archivio, è legata alla sua passione per la musica e per l’ispirazione intellettuale che dalla musica deriva. Un legame indissolubile tra la capacità di concentrazione ed evasione che la musica sola può indurre nell’animo umano, senza alcuna mediazione visiva, e il silenzio. Curiosamente, l’impresa non tratta di note, o di un motivo a lei caro appartenuto a un madrigale di sua creazione, oppure di un piccolo estratto sonoro di un brano particolarmente significativo, bensì tratta di pause. Nota come l’ “Impresa delle pause”, l’opera a intaglio decora il soffitto e copre una precedente decorazione con i segni zodiacali, passione, quella dell’astrologia, altrettanto condivisa e vincolante negli esiti delle proprie scelte, per i “razionalissimi” uomini del Rinascimento. Isabella la utilizza per la prima volta nel 1502, facendosela ricamare sull’abito indossato proprio alle nozze di Alfonso con Lucrezia, per incutere curiosità e dimostrare una superiorità intellettuale femminile senza pari. L’impresa è costituita da un pentagramma incorniciato su fondo oro, quale fosse un’unica battuta, in cui sono raffigurati una chiave, quella di contralto, corrispondente al registro della voce di Isabella, seguita dal segno grafico del valore della misura musicale riempita solo da vari tipi di pause, ora più più lunghe, ora più brevi, ora ripetute. L’Isabella erudita e neoplatonica spinge chi entra nel suo ambiente più segreto, la grotta, alla considerazione che la musica possa essere perfetta solo se ascoltata in silenzio, quale premessa, dopo l’ascolto, e tra l’esecuzione di un brano e l’altro, per ulteriori considerazioni e riflessioni interiori sull’arte, sul trascorrere ineluttabile del tempo, sulla meditazione che il solo silenzio sa colorare il pensiero umano di contenuto e bellezza imperitura. Il silenzio è musica.