Psicologia e contraccezione. Se ci fermiamo a parlare con i ragazzi e le ragazze di oggi, si direbbe che di contraccezione in fondo se ne intendano. Ma spesso la tradizione sopraffà l’intenzione.
Se ci fermiamo a parlare con i ragazzi e le ragazze di oggi, si direbbe che di contraccezione in fondo se ne intendano. Nella maggior parte dei casi scopriremmo che ne parlano con competenza, con la sicurezza di chi ha le idee chiare.
Strano a dirsi, sembrerebbe allora che le tantissime campagne d’informazione degli ultimi decenni siano state efficaci, tanto quelle dei consultori tanto quelle televisive e ministeriali.
Strano a dirsi davvero, dato che questa presunta diffusa competenza si scontra malamente con i dati che ogni anno ci arrivano per le mani.
Dati che ci dicono per esempio che dal 1995 al 2005 le vendite dei preservativi sono aumentate di sole 2000 unità (da 98200 a 100200) e dal 2007 al 2016 le vendite di preservativi sono calate del 13%. Rispetto agli altri Paesi europei siamo agli ultimi posti
O che in Italia il primo rapporto avviene di media intorno i 16 anni, mentre l’avvicinamento ai contraccettivi non prima dei 20. Che il 20% delle ragazze confessa di affidarsi al coito interrotto e il 46% a tecniche più o meno fai da te (per cui i il 70% di fatto non usa nulla). Che ogni anno nel nostro paese si registrano quasi 15mila parti di minorenni e 4mila interruzioni di gravidanza (senza contare, non registrati, i casi di aborti clandestini). E che su tutto si segna costante l’incremento dei casi accertati di malattie sessualmente trasmesse.
Viene allora da chiedersi: dov’è che la buona intenzione della teoria va a perdersi, senza mai riuscire a tradursi pienamente in pratica? Perché in materia di contraccezione è così profondo quel mare che sta tra il dire e il fare?
Per capire le ragioni di questa pericolosa discordanza tra intenzione e azione, bisogna che facciamo un piccolo excursus nella psicologia (che tanto “excursus” poi non è, considerato che la “psicologia” è linfa e parte fondamentale e integrante della “sessuologia”).
Ogni singolo comportamento di uomo e donna è condizionato da regole, da sempre. Regole che possono essere: biologiche (ormonali, per cui già nel pancione materno lo sviluppo degli ormoni gonadici – androgeni o estrogeni – pone le basi di quel che siamo e quel che saremo), ambientali naturali (il clima e il territorio dove cresciamo, l’alimentazione e l’aria stessa che respiriamo, creano opportunità e necessità di comportamento differenti), e culturali (scritte – scolpite – in noi per necessità e/o opportunità sociale, tante volte senza che neppure ce ne accorgiamo).
Con questa premessa, dovremo comprendere quanto oggi sia complicato definire (e catalogare) i comportamenti umani, e in particolare quelli sessuali.
Scrive bene il Dott. Alessandro Salvini: l’uomo da sempre, come per tutte le altre funzioni necessarie alla sua esistenza, ha cercato di elaborare modi, forme, riti, proibizioni, scelte, che hanno fatto della sessualità un fatto culturale pur basato su presupposti biologici. Biologia e cultura sono perciò i due poli dialettici all’interno dei quali si colloca la sessualità e in cui la contraccezione si inserisce prepotentemente: essa infatti nasce dalla cultura e modifica la biologia sfidando l’ordine naturale delle cose e del corpo (A. Salvini, Personalità femminile e riproduzione umana, Lombardo Editore, 1993).
È semplice: la contraccezione è nata di fatto per poter controllare l’essenza sociale e culturale della femminilità, vale a dire la maternità.
Per capire meglio questa affermazione, soffermiamoci ancora sulle regole sociali e culturali, che sembrano essere qui in vero nodo gordiano. Salvini ne individua due tipi:
le regole intrasomatiche (che costituiscono il mondo interno individuale fatto di valori, norme, ideologie, affetti, cognizioni e ricordi così come si vanno strutturando e accumulando nell’arco della vita nella continua relazione con il mondo esterno: sono istruzioni culturali che l’individuo interiorizza nel proprio sistema nervoso a partire dalla nascita);
le regole extrasomatiche (che stanno cioè al di fuori dall’individuo, che sono fonte potenziale di apprendimento e possono influenzare il mondo interno individuale: norme, valori, idee, ideologie, teorie scientifiche, politiche, economiche).
Queste due istanze culturali, che con le loro tensioni sono capaci di plasmare i nostri comportamenti, chiaramente non viaggiano alla stessa velocità. La prima, quella storica personale, è molto più profonda, radicata in noi, quasi cromosomica, perciò è difficile da scalfire o semplicemente da accomodare; la seconda è più dinamica e mutevole perché obbedisce alle accelerazioni (tecniche, scientifiche, politoche, economiche e di costume) del modo che ci circonda. Per capirci, nella sua storia l’uomo si adatta facilmente al rapido passaggio dal cocchio all’aereo, dalla lettera ceralaccata alle email e agli sms, difficilmente riesce a farlo se si tratta di passare da donna angelo del focolare a madre single in carriera, ad esempio.
Il fatto è che il ruolo femminile storico culturale è ancora adesso il risultato di un insieme di atteggiamenti e comportamenti sedimentati nei secoli, secondo schemi cognitivi condivisi tanto dalle dirette interessate (le donne) e tanto dagli uomini che le circondano (che siano questi i loro compagni, mariti, padri o fratelli).
Negli ultimi 50 anni, come mai prima d’ora nella storia biologica dell’essere umano, si è assistito ad una vera e propria rivoluzione del ruolo sociale femminile (il voto, il lavoro, l’autonomia, la libertà), ma a ciò fatalmente non è corrisposta un’effettiva rivoluzione psicologica interiore (i sedimenti culturali evidentemente sono ancora troppo profondi). Ed ecco allora la dissonanza, l’inizio, il prospettarsi nel profondo nascosto di ognuna di noi, anche quella che si dichiara più moderna, più emancipata, di quella discordanza che abbiamo nominato in principio.
Questa divaricazione tra spinta emancipativa esterna e istinto conservativo latente negli ultimi decenni ha creato situazioni di conflitto psicologico in tante donne (e anche in moltissimi uomini).
Ebbene, la contraccezione è stata forse la scelta che più ha risentito di questo contrasto: l’atteggiamento (l’atteggiamento favorevole, indiscutibilmente pro-contraccezione, per cui milioni donne sono pronte a scendere in piazza, cuore in mano), al momento topico, alla resa dei conti diciamo, non si traduce affatto in comportamento. Senza che a volte neppure ce ne accorgiamo, la tradizione sopraffà l’intenzione.
Badiamo, non si tratta di storielle e supposizioni: al contrario, sono fondamenti di psicologia da manuale. Le discipline comportamentali ci insegnano infatti che ogni qual volta un individuo debba fronteggiare aspettative e ruoli diversi rispetto alle regole e ai modelli di comportamento appresi, entra in uno stato di conflitto che prende il nome di “dissonanza cognitiva”.
E così pure ci insegnano che per eliminare la dissonanza cognitiva è necessario integrare l’elemento perturbatore in un processo di razionalizzazione il cui effetto salvaguarda la credenza minacciata. Cioè a dire, se consideriamo la contraccezione l’elemento perturbatore e la femminilità la credenza, il modello di comportamento minacciato, per sciogliere la dissonanza basterà convincere razionalmente le donne che la buona contraccezione in realtà la valorizza e la salvaguarda la femminilità, non la minaccia affatto.
Certamente, fosse così semplice non leggeremmo quei dati sconfortati che abbiamo riportato all’inizio. Il problema è che la credenza in ballo, il modello di comportamento minacciato, qui non è la femminilità: è invece ciò che secoli e secoli di tradizione sedimentata ci ha portato a riconoscere come principio unico e assoluto (se non addirittura sinonimo stesso) di femminilità: e cioè la maternità. E vallo a spiegare tu alle donne che la contraccezione non “perturba” la maternità.
Se la tradizione (anche a nostra insaputa) ci ha inculcato che donna è mamma, allora il nostro approccio alla contraccezione, pur con tutte le buone intenzioni del mondo, creerà una dissonanza, talora inconscia, quasi subliminale, che tante volte finisce per tradursi in arrendevolezza, o peggio in pretestuosità (“Mah, per una volta, vabbè, cosa vuoi che sia?”, o peggio “Mi fa male, mi rende gonfia, mi fa ingrassare”).
La contraccezione ormonale è senz’altro parte della dinamica sociale: è innovativa, razionale e civilizzante.
La resistenza alla contraccezione ha invece a che fare con le istanze storiche e con la tradizione, che sono invece conservative e protettive. Ma attenzione, conservativa e protettive lo sono rispetto ai gruppi sociali di appartenenza: ai gruppi, non al singolo. Anzi, per loro stessa natura si tratta di istanze che tendono a conservare e proteggere la comunità sacrificando la libertà (e non solo la libertà) del singolo. Sono quei valori sociali comuni, alti, storici, puri e collettivi, come l’ideale di “patria” ad esempio, per la cui strenua difesa si accetta anche l’estremo sacrificio del singolo, in guerra.
Forse il paragone è altisonante, esagerato: la patria, la guerra, la morte in trincea. Eppure sono proprio i più conservatori a gridare poi all’eccidio per le migliaia e migliaia di aborti, legali e clandestini, che funestano il nostro paese. Ma cosa sono queste morti, se non l’imbecille sacrificio dei singoli, gettati in trincea per una guerra che la tradizione più bigotta, in nome di sé stessa, ha dichiarato alla contraccezione?
Fortunatamente per noi, per tutti noi, sono passati i tempi in cui la pillola era considerata immorale. Sono passati, sì, però il fatto è che ci sono stati. E non facciamo l’errore di creder che in fondo, da qualche parte dentro di noi, non abbiano lasciato il segno. E quando una ragazza di oggi, informatissima e apparentemente coscienziosa, al momento di decidere se prendere la pillola, o semplicemente di chiedere al partner di indossare il preservativo, se in quel momento quella ragazza sentirà dentro, in fondo, da qualche parte, qualcosa che non sa spiegarsi, qualcosa che la porterà a alla fine pensare, a dire “Mah, per una volta, vabbè, cosa vuoi che sia?”, ecco, quel qualcosa che quella ragazza ha sentito e che non si sa spiegare, non sono che i segni, le cicatrici profonde e remote di quei tempi passati, i retaggi di una tradizione, di una storia che non sempre, ammettiamolo, ha operato nel giusto, e che tante volte ci ho fatto combattere guerre che forse si potevano evitare.
Prendere coscienza di tutto questo è davvero complicato. Non sappiamo con precisione tra quante generazione queste cicatrici si saranno rimarginate.