Che la donna debba fare la moglie-madre-casalinga-infermiera non è un concetto poi così antico. La cultura di genere non ha ancora superato questi stereotipi che si manifestano e si evincono anche in circostanze dolorose. Ma di cura si può anche morire.
“Cos’altro vogliono le donne? Hanno ottenuto tutto”.
Spesso questa frase è usata in risposta ai dubbi manifestati sulla condizione femminile che sembra ancora presentare tanti aspetti irrisolti.
In quel “tutto”, la prima cosa che viene addebitata alle donne è la presunta libertà sessuale “voluta e acquisita”.
Pensiero recondito che allude alla prostituzione “per guadagno facile” non per concause o violenze. Alla volontà decisionale della propria esistenza, motivo per cui è normale che un marito-compagno-fidanzato-convivente uccida colei che lo voglia lasciare.
“Il mercato del lavoro ormai è pieno di donne” si dice, che non importa se quelle molte-poche-future-incerte lavoratrici raddoppino le ore di lavoro con i carichi familiari, che non usufruiscano di un salario uguale a parità di mansioni, abbiano minori opportunità e considerazione del proprio merito.
Che la donna debba fare la moglie-madre-casalinga-infermiera non è un concetto poi così antico. La cultura di genere non ha ancora superato questi stereotipi che si manifestano e si evincono anche in circostanze dolorose.
E’ quanto è successo ad una donna che, lavando per anni le tute piene di amianto del marito, è morta di tumore conseguente alla contaminazione.
Lavare i panni al proprio coniuge non è un obbligo ma un atto di dedizione e una scelta d’amore, una condivisione e un obbligo dettati dal suo essere casalinga. Perché lavando i panni, non ha fatto altro che partecipare all’andamento e al benessere familiare.
E ora chi laverà i panni, chi penserà al marito, ai congiunti? In mancanza di una donna moglie-madre-casalinga ecc., chi ci penserà?
A queste domande ha provveduto a dare la risposta una recentissima sentenza di legge:
gli eredi della donna morta avranno il dovuto risarcimento poiché si è rilevato il nesso causale con l’inquinamento domestico causato dagli indumenti di servizio del marito. E la famiglia, come valore costituzionale, va ricompensata.
Scatterà dunque il risarcimento agli eredi per “il de cuius” morta con il mesotelioma pleurico per l’esposizione all’amianto”. Ovvero si riconosce l’esistenza di un nesso causale fra l’inquinamento domestico creato dagli indumenti da rassettare (ovviamente dalla donna) e la patologia letale.
“Chi muore giace e chi è vivo si da pace”, cita un vecchio proverbio e la saggezza popolare ha sempre un suo perché.
E poiché la signora (che si era accorta dell’avanzare della malattia e della sua fine prossima) ha perso la vita e poiché di conseguenza i parenti hanno perso altresì un parente della famiglia “formazione sociale tutelata dalla Costituzione”, entrambi hanno diritto al risarcimento.
Entrambi! Poco importa se la signora non potrà goderne.
La morta e i vivi saranno risarciti dal colpevole datore di lavoro che non ha azionato le precauzioni per evitare il danno.
È quanto emerge dalla sentenza 2147/18, pubblicata dalla seconda sezione civile del tribunale di Venezia che riconosce che “ Il mesotelioma è un tumore della pleura raro nella popolazione generale e può avere lunghi periodi di latenza: la comparsa in soggetti esposti all’asbesto risulta molto significativa nella valutazione del nesso causale. Quest’ultimo è accertato in base a criteri probabilistici: la donna paga con la vita la dedizione al marito, che nello stabilimento è carropontista e lavora per quasi vent’anni a contatto con silicati idrati”.