Il contributo di Debora Giorgi alla rubrica dedicata alle donne nel loro dialogo con l’architettura è oltremodo interessante.
Me ne aveva parlato tante volte la nostra comune amica; mi aveva raccontato delle molteplici esperienze di Debora in territori non così consueti per il nostro immaginario. Ho pensato che il suo contributo alla rubrica dedicata alle donne nel loro dialogo con l’architettura potesse essere oltremodo interessante ed è così che è nato il nostro incontro; un incontro che poi si è rivelato, come spesso accade, ricco di concomitanze coincidenti e interessi comuni.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Direi di no, ma neanche ostacolata….la battaglia si era consumata prima, per poter fare il Liceo Artistico. Al momento dell’università si erano ormai rassegnati! Feci un patto con mia madre che se avessi fatto il ginnasio con una media alta, poi avrei potuto fare quello che volevo. Mia madre contava sul fatto che me ne sarei dimenticata… ma in quinta ginnasio con la media dell’8, le ricordai il patto e feci l’esame per passare in seconda Liceo Artistico. Gli anni più belli della mia vita!
Architetto o architetta?
Progettista? Le battaglie di genere non credo passino per una vocale.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
Studiare architettura è una scuola di vita e di pensiero: ti abitua ad avere una visione critica e interdisciplinare passando dalle discipline del disegno a quelle umanistiche a quelle tecnico scientifiche; stimola il pensiero laterale, ti abitua a lavorare in team, ti fa capire che per arrivare ai risultati ci vogliono tante competenze e soprattutto tanta passione. Infine ti insegna ad affrontare le cose con progettualità, ovvero con la coscienza che niente è immutabile, che esiste sempre un modo diverso di vedere le cose, che tutto può essere migliorato, cambiato, progettato appunto. L’architettura per me è soprattutto scienza di progetto, a tutte le scale: dal territorio alla città, agli edifici, agli oggetti. Oggi, sempre più, il progetto sconfina dalla forma ad una dimensione sempre più intangibile, in cui tutto è connesso. Progettare oggi, e in generale, per me significa considerare in maniera creativa il contesto, le relazioni, i valori, sapendo che ogni cosa che facciamo ha delle conseguenze; significa quindi progettare in maniera strategica e, in qualche modo, militante.
Com’è maturata la tua scelta di dedicarti all’insegnamento universitario? E in particolare il tuo interesse per le problematiche legate allo sviluppo locale sostenibile e al design per la sostenibilità?
Ho iniziato a studiare Architettura perché volevo avere degli strumenti per ‘fare’ qualcosa di utile partendo dalla mia inclinazione creativa e poi il mio grande sogno era poter viaggiare, conoscere e riuscire ad andare oltre qualcosa che sentivo mi stava troppo stretto. Il percorso tuttavia non è stato particolarmente lineare. Molto presto mi sono resa conto del fatto che la ricerca pura e fine a se stessa non mi interessava e che avevo bisogno di vedere concretamente dei risultati; avevo bisogno cioè di sperimentare sul campo e di vedere i progetti realizzarsi. Sono sempre stata molto curiosa e portata ad interessarmi a tematiche e discipline differenti, e quindi anche il mio percorso di studi e di ricerca non ha seguito una strada diretta: dopo la laurea in Architettura infatti ho conseguito un Dottorato in Storia ed Istituzioni dei Paesi Afro – Asiatici a Scienze Politiche e poi un Master di II livello ad Ingegneria sull’Architettura Eco-Sostenibile; ho lavorato nel management culturale per una cooperativa archeologica e per alcune amministrazioni locali, come consulente e project manager nei progetti internazionali; mi sono occupata di progetti di formazione innovativi, collaborando in varie forme con università italiane e straniere.
Tutte queste esperienze mi hanno portato dove sono ora! Ho cominciato ad interessarmi alle tematiche dello sviluppo locale sostenibile all’Università con Alberto Magnaghi e Pietro Laureano, rispettivamente relatore e co-relatore della mia tesi di laurea sulla rivitalizzazione e lo sviluppo di un gruppo di oasi nel deserto algerino – le oasi del Gourara – attraverso una progettazione autocentrata e sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale e culturale. Alberto Magnaghi mi ha dato l’impostazione teorica e metodologica che effettivamente ancora oggi costituisce la base di partenza per tutto il mio lavoro di ricerca. Ho poi collaborato per diversi anni con Pietro Laureano, urbanista e consulente UNESCO, esperto di zone aride; e grazie a lui ho avuto modo di partecipare a progetti internazionali che mi hanno portato in luoghi straordinari: in Giordania, a Petra, nello Yemen, in Eritrea, in Algeria, in Eritrea e a Matera dove mi sono trasferita per sei mesi per collaborare alla stesura del dossier per l’iscrizione dei Sassi di Matera alla Lista del Patrimonio mondiale, iscrizione che oggi compie 25 anni.
Grazie a queste esperienze ed al lavoro che per anni ho svolto per una cooperativa archeologica nell’ambito della progettazione di eventi e servizi, mi sono avvicinata alle tematiche del patrimonio culturale, tangibile ed intangibile, e alle Traditional Knowledge, maturando la convinzione che la sostenibilità – ambientale, economica, sociale, culturale – del progetto si appoggia in maniera forte ai valori patrimoniali e culturali che determinano l’identità locale e che possono divenire la base per un processo di innovazione autocentrato e sostenibile. In questa dialettica tra tradizione e innovazione, il progetto stabilisce un legame con i destinatari del progetto stesso, generando appropriazione e sostenibilità sociale e culturale ma anche ambientale, dal momento che si creano dinamiche di cura e di protezione. Da qui si è profilato il lavoro che per diversi anni mi ha impegnata come consulente in progetti finanziati dall’UNESCO, UNCCD, World Heritage Fund, Commissione Europea e Cooperazione Italiana in Etiopia, Marocco, Tunisia, Algeria, Haiti e proprio nell’ambito di questi progetti, grazie all’incontro con Saverio Mecca che da diversi anni lavora intorno alle tematiche delle tecniche tradizionali – e oggi è Direttore del Dipartimento – ho avviato la collaborazione con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. Per diversi anni si è trattato di collaborazioni sporadiche su progetti in corso e sulla scrittura di nuovi progetti; poi dal 2013, avendo vinto un importante progetto in Tunisia sul design per lo sviluppo sostenibile, finanziato dalla Commissione Europea, la partecipazione è diventata continuativa e si è strutturata in particolare con il Laboratorio di Design per la sostenibilità, diretto da Giuseppe Lotti. La ricerca e i progetti nei Sud del mondo nell’ambito del design nascono dalla consapevolezza condivisa che in questi contesti si gioca una sfida importante in termini di modelli di sviluppo e che proprio in tali scenari il design può svolgere un importante ruolo di supporto e stimolo verso comportamenti maggiormente sostenibili. Questa sensibilità condivisa con il gruppo di lavoro e le esperienze in ambito Mediterraneo sono state fondamentali per l’avvio del progetto del Dipartimento di Architettura di Firenze con l’Université Euro – Méditeranéenne di Fès in Marocco per la co-creazione dell’Ecole Euro – Méditerranéenne d’Architecture, Design et Urbanisme a Fès, in base ad un accordo interministeriale tra MIUR e Ministère de l’Enseignement supérieure marocchino. Il mio contratto attuale prevede che io insegni in Marocco oltre che a Firenze e che continui a svolgere ricerca in Marocco e nell’area mediterranea. Le tematiche del design dei servizi e del design per l’innovazione sociale di cui mi occupo sono fortemente legate a quelle dello sviluppo sostenibile dei territori ed il lavoro in ambito universitario mi offre l’opportunità straordinaria di proseguire la ricerca ed al tempo stesso di trasmettere esperienze e competenze alle giovani generazioni. Quest’ultimo aspetto, in questa fase della mia vita, è per me assolutamente importante e ne sto traendo enormi soddisfazioni.
Cos’è per te la Bellezza?
La bellezza è qualcosa che ti può rendere felice, accendere una luce dove regna il buio. La bellezza per me ha un potere salvifico e spirituale, permette di allontanarsi dalle visioni stereotipate e ristrette e consente la connessione con una dimensione superiore. Vorrei citare a questo proposito una frase di Piero Ferrucci, filosofo e psicoterapeuta, che esprime in maniera più chiara quello che penso: “L’esperienza del bello ha il potere straordinario di renderci felici, stimolare l’intelligenza, cambiare la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo. È alla portata di tutti, perché possiamo trovare la bellezza ovunque: in un film, in una musica, in un paesaggio, in un volto, in un pensiero. Anche nel mondo interiore di una persona.” La bellezza quindi è anche molto democratica! La cosa importante è imparare a vederla, e questo non è così scontato. Come architetti e designer abbiamo un punto in più perché, come dice Zurlo, “il designer è colui che sa vedere, far vedere, pre-vedere”.
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
Per me l’architettura ha assolutamente bisogno della sensibilità femminile perché richiede ingredienti che sono connaturati alla femminilità: empatia, creatività, sensibilità, capacità di comunicare e di creare emozioni. La parte maschile legata piuttosto alla forma, alla tecnica presenta elementi comuni all’ingegneria. L’architettura per essere tale deve arricchirsi della parte femminile.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne?
Indubbiamente! I posti di potere sono prevalentemente degli uomini e la tendenza a considerare le donne delle efficienti segretarie o al massimo delle performanti comprimarie è sempre molto forte.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
Discriminata forse no; utilizzata molto ma, al tempo stesso, ho a mia volta fruito di opportunità ed esperienze che hanno contribuito alla mia formazione e alle mie ricerche.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Penso che le donne architetto o designer, che possono vivere del loro lavoro sono troppo rare. In parte credo sia dovuto alla dedizione feroce che queste discipline richiedono e alla atroce consapevolezza che purtroppo ancora oggi molte incombenze familiari ricadono sulle donne. Ed in parte per l’attitudine maschile a vedere le donne come utilizzabili e la disposizione femminile a farsi utilizzare e sentirsi gratificate per il fatto di sentirsi indispensabili. Ma questo non riguarda solo l’architettura o il design!
Che rapporto hai, nel tuo lavoro e nel quotidiano, con la tecnologia?
Un rapporto strumentale, direi. Nel senso che la uso e la apprezzo e cerco di vederne l’utilità per facilitare le cose. Negli ultimi tempi mi sto confrontando in diversi progetti con le tecnologie proprie dell’industria 4.0 come Realtà Aumentata, Realtà Virtuale, Internet of Things e mi affascina l’idea di avere ulteriori strumenti per esprimere concetti e valori in maniera emozionale; inoltre la possibilità di aumentare la percezione e le potenzialità di questi strumenti in tutti i settori, dai beni culturali, ai servizi, alla cooperazione, allo sviluppo.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Riuscire a delegare è una conquista recente, ci sto ancora lavorando….
A quale tra le tue pubblicazioni sei più legata?
A quella che sto scrivendo in questo periodo. Sarà un libro a tre mani con Giuseppe Lotti e un antropologo che collabora con il nostro gruppo di lavoro. Parla dell’innovazione e della tradizione, di come l’innovazione può nascere non solo da un impulso tecnologico ma da un pensiero; dalla modalità con cui ci si relaziona ai cambiamenti, all’ambiente, alla società e di come talvolta siano proprio le crisi, le situazioni limite, la marginalità a creare le condizioni per l’innovazione. Il design in qualche maniera è stato sempre interprete della contemporaneità e al tempo stesso portatore di visioni future e di profonde innovazioni.
E a quale dei tuoi progetti?
Uno più vecchio ed uno recente ma in qualche modo molto legati. Nel 2003, la costruzione di un museo della cultura berbera nel Medio Atlante, in Marocco, nell’ambito di un progetto di sviluppo finanziato dal Ministero degli Esteri italiano, in un momento in cui ancora l’identità berbera del Marocco non era accettata dal potere. Il museo è stato costruito utilizzando tecniche tradizionali come la terra cruda ma migliorate e realizzato con maestranze locali con la formula di scuola cantiere. Ma la cosa veramente più coinvolgente è stata l’esperienza nel suo complesso che ha coinvolto associazioni locali, studenti, maâlem, ovvero maestri artigiani, architetti locali… È stato un progetto corale, durato quasi due anni, in cui ho appreso un’infinità di cose ed un’esperienza umana incredibile. Nel 2016 è nata la mostra “Identità Fluide. Un progetto Mediterraneo” curata insieme a Giuseppe Lotti, approdata alla Triennale di Milano e al Musée du Bardo di Tunisi, frutto di un progetto di quattro anni, finanziato dal programma europeo ERASMUS+ in Tunisia per la creazione del Master “3D design pour le Développement Durable des productions artisanales en Tunisie”. Nel corso del progetto si è lavorato sull’identificazione dei valori materiali ed immateriali del patrimonio culturale tunisino, incluso ovviamente l’artigianato, come base e punto di partenza di un progetto d’innovazione per la competitività dei territori. Molti di questi valori sono un patrimonio comune a tutta l’area mediterranea e la mostra cercava di fare dialogare queste identità, in parte perdute o minacciate dalla globalizzazione, che grazie alla loro fluidità e permeabilità riescono ad attraversare tempi e luoghi. Il percorso narrativo cross-mediale ha utilizzato video mapping che raccontavano il concept alla base dei trenta progetti realizzati da giovani designer tunisini. La riflessione attorno all’identità tunisina e mediterranea mi pare oggi essenziale come fondamentale è la ricerca di punti di contatto piuttosto che di conflitto. Così a Milano la dimensione materica della mostra era rappresentata da 42 statue ceramiche provenienti da Sejnane, in Tunisia (iscritte fra l’altro nello stesso anno alla Lista del patrimonio immateriale dell’UNESCO) mentre al Musée du Bardo (in cui ancora si intravedono i fori delle pallottole dell’attentato del 2015) nella sala punica, l’Odalisca di Ettore Sottsass, che evoca archetipi arcaici o immaginari, convive con i capolavori dell’arte cartaginese e ne stempera il conflitto nella sua straordinaria e sottile ironia. Entrambi i progetti per me significano che “si può fare”, si può provare a cambiare un poco le cose, le visioni, attraverso la cultura e la creatività.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura o design?
Assolutamente sì, per le ragioni di cui ho parlato prima. Anche se non diventeranno architette – !! – o designer apprenderanno strumenti per poter affrontare molte delle complessità della realtà e daranno corpo e volto alla loro creatività. E poi le inviterei a non arrendersi, andare avanti, continuare a studiare e fare progetti, anche se il riscontro non è immediato; insomma, non avere paura di inseguire i propri sogni. Nel tempo tutto acquisterà un senso.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata.
L’oggetto: le Antiche ceramiche di Sottsass, realizzate con il ceramista Alessio Sarri nel 1989, oggetti onirici, quasi completamente svuotati delle loro funzioni, architetture misteriose, forme archetipe di città o spazi che vagamente sembrano citare le città visionarie di Sant’Elia, portando i nomi di antichissime città scomparse: Ur, Ninive, Babilonia, Yazd, Gerico, Susa. Forme archetipe, non essenziali come specifica Sottsass stesso, “perché l’essenziale presume uno stato ideale o un assoluto metafisico”.
Per l’architettura, in generale sono legata alle città e alle architetture tradizionali, come i Sassi di Matera, gli Ksour dell’Atlante, le oasi del deserto, Petra, le chiese di Lalibela, per la straordinaria integrazione con il paesaggio, la natura, e soprattutto per la capacità di queste architetture di utilizzare in maniera virtuosa le scarse risorse disponibili e di superare i limiti imposti da condizioni spesso quasi al limite. Sono insediamenti e architetture che riescono sempre a coniugare la funzionalità con valori simbolici e significati che trascendono la pura forma. Per citare un’architettura in particolare direi la moschea Sidi Brahim a El Atteuf, in una delle 5 oasi dello M’zab, nel Sahara Algerino. È un’architettura organica, plastica, essenziale, misteriosa, che secondo molti ha ispirato Le Corbusier per la sua cappella di Notre Dame du Haut a Ronschamp.
Come riesci a conciliare la tua attività di ricerca con l’impegno professionale dentro l’Università?
L’Università in realtà è il luogo in cui posso svolgere la mia ricerca con molti gradi di libertà. È un grandissimo privilegio, come oggi – a 54 anni – è un privilegio poter trasmettere qualcosa delle mie esperienze ai ragazzi e contribuire, almeno un po’, a renderli capaci di pensare e quindi di essere liberi.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Un quaderno su cui appuntare e schizzare idee e pensieri.
Una buona regola che ti sei data?
Quella di non avere regole rigide e di non avere paura di cambiare direzione se qualcosa non funziona.
Il tuo working dress?
Comodo, cambia in base al mio umore e al mio stato e, con una concessione agli stereotipi, è molto tendente al nero.
Città o campagna?
Le colline di Firenze… un magnifico compromesso.
Qual è il tuo rifugio?
Negli anni ho imparato che il mio rifugio alla fine è me stessa, la mia mente e la mia immaginazione. Ma devo dire che il luogo che più mi fa sentire in pace e mi consente di ricaricarmi è il deserto, e poi al di là di una duna, un’oasi, un giardino completamente progettato dall’uomo utilizzando le scarse e nascoste risorse a disposizione per creare un mondo lussureggiante e di pace. Ci sono infinite sensazioni ed emozioni legate ai deserti in cui sono stata a cui ricorro mentalmente quando non posso andarci fisicamente.
Ultimo viaggio fatto?
In Tunisia a Mahdia nel Sahel, dove ho portato alcuni studenti di Firenze a lavorare con studenti tunisini e alcune associazioni locali su un progetto di valorizzazione delle produzioni alimentari locali. Organizzare workshop, corsi e creare occasioni di scambio in Europa come referente Erasmus e nei paesi della sponda Sud del Mediterraneo o del Medio-Oriente è una parte importante del mio lavoro in ambito universitario ed è un aspetto che amo molto e che mi dà e mi ha dato grandi soddisfazioni. Del resto anche per me tutto è cominciato da viaggi di studio, fino a decidere di svolgere la mia tesi di laurea in Algeria. Ogni viaggio è stato un punto di non ritorno e sono felice di poter dare ai giovani questa opportunità. Viaggiare ci mette a confronto con la diversità, ci obbliga a misurarci con l’alterità, a capire che esistono modi diversi di affrontare le cose, spesso a misurarci con la nostra inadeguatezza e quindi a cercare nuove strade e soluzioni. Nei viaggi intrapresi con gli studenti mi sono resa conto di come queste esperienze siano importanti per i giovani e di quanto cambino le loro vite, allargando i loro orizzonti, facendoli crescere anche come esseri umani. Spesso, dopo una di queste esperienze, ho sentito dire che quel viaggio è stato la cosa più bella della loro vita.
Il tuo difetto maggiore?
L’intemperanza e la testardaggine
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
La mia costante insoddisfazione che mi porta a non adeguarmi e a perseguire strade meno battute, anche grazie alla testardaggine…
Un tuo rimpianto?
So che può sembrare presuntuoso, ma in effetti non ho grandi rimpianti, perché alla fine anche le scelte “sbagliate” mi hanno insegnato qualcosa. A volte però è divertente pensare a come sarebbe andata, un po’ come nel film Sliding doors.
Work in progress….?
Un ciclo di workshop e conferenze in Marocco sul tema del Circular Design, ovvero dell’economia circolare, promossa da una importante fondazione marocchina e dall’Istituto Italiano di Cultura a Rabat. Saranno coinvolti designer italiani e marocchini, studenti e docenti universitari di entrambi i paesi. Le riflessioni e le sperimentazioni che emergeranno da questo lavoro confluiranno in una mostra nel 2020 a Rabat e a Firenze dedicata a mostrare lo specifico contributo dei due paesi al tema dell’economia circolare non solo secondo il paradigma economico e produttivo ma rispetto alla capacità del design mediterraneo di dare senso e forma alle dimensioni meno tangibili, in un processo trasformativo, che da una parte assume e riconosce tutte le sollecitazioni che arrivano dal contesto e dall’altra le connette, le integra e le sintetizza in qualcosa di altro.