Dacia Maraini fa prostituire le sue parole verso la teatralità e racconta di un incontro tra Amara e Hans a bordo di un treno.
La primavera è matrigna, non la natura, allora.
Quella tiepida madre che dona la speranza della rinascita ma che irradia con raggi maligni i suoi figli uomini e i suoi uomini figli.
La primavera semina MORTE o peggio fissità.
Questo romanzo ha altalenato (ormai è gioco libero all’alternanza tra transitivo ed intransitivo) il mio occhio lettore: una prima parte della narrazione è forzata, dimentica della spaventosa spontaneità di cui è capace, Dacia Maraini fa prostituire le sue parole verso la teatralità e racconta di un incontro tra Amara e Hans a bordo di un treno.
Siamo nel 1956.
I due si alleano fulmineamente per cercare l’amico di lei, Emanuele, ebreo, sparito per il solito capriccioso idiota antisemismo.
Amara vuole ritrovarlo.
La seconda parte è sul campo, il campo della memoria.
Il campo della vergogna dove si finiva con la promessa di un lavoro. I bambini erano gassissati per primi, non portando reddito, meglio liberarli in fretta.
La terza parte è quella più vera e il lettore rimarrà nelle sue maglie, a leccare lacrime salate! Sì, la verità è inimagginabile.
Quante volte si muore e si vive non importa, c’è un incubo peggiore: dopo tanta sofferenza, osservarsi e non riconoscersi più.
Anche oggi è giorno della memoria.
Piccola chiosa: interessante la digressione sul
la etimologia della parola treno.
Inoltre, ho imparato cosa è una gamella.
È sempre snob la Maraini con noi lettori, anche cosa fosse il Niagra in Voci l’ho dovuto intuire.
Voto 9.