In Venezuela è stato come se mi trovassi nel pieno della guerra fredda. Lo stipendio medio è di 6 Euro.
Sono rientrata in Italia. Ho lasciato il Venezuela in un aeroporto presidiato da poliziotti a caccia di giornalisti. “Periodista! Periodista”. Aprivano le borse al check in e via macchine fotografiche, schedine, telecamerine. Ho finto di essere una maestra, come ho fatto per tutte le cinque settimane che ho trascorso in questo paese. Dal momento in cui sono entrata, per la prima volta in 23 anni di giornalismo, hanno saputo chi fossi solo le persone con cui ho parlato e neanche sempre, alcune volte sono stata una volontaria, una cooperante, una venezuelana, una persona qualunque che non faceva nulla di male. Perché oggi essere un giornalista indipendente e non allineato, in questo paese non è tollerabile.
La tensione che ho cercato di celare per queste settimane, cambiando casa, macchine, restando sottotraccia, mi si è accovacciata sulle spalle e per due giorni dal mio ritorno, me ne sono stata a casa ad imbottirmi di analgesici per sconfiggere il dolore. Ma quello fisico passa e a me è dispiaciuto tornare perché mi sembra di aver abbandonato una storia che ancora deve finire, ma il lavoro di freelance a volte è una condanna. Ho fatto quello che potevo nel modo migliore possibile, come sempre, assorbendo l’atmosfera, la gente, gli eventi e cercando di trasformarli in parole. Non sarebbe stato possibile senza le persone che mi hanno aiutato, le mie meravigliose fixer, chi ha badato alla mia sicurezza in alcune situazioni, a chi mi ha ospitato, a chi mi ha accolto a casa e agli amici che mi hanno dato spunti, numeri di telefono, consigli. Alle mamme, sorelle, figli che ho incontrato e che volevano solo essere ascoltati. E soprattutto agli ascoltatori e amici in Italia che hanno permesso che Radio Bullets andasse a raccontare una storia non facile. Si può sempre fare di più e meglio, con i mezzi che avevo, ho provato a fare il possibile in un paese diviso tra due presidenti, due parlamenti e due ideologie.
Raccontando il Medio Oriente, dopo averlo studiato a fondo e averci trascorso tanti anni, ho imparato a giostrarmi. Se non per Israele e Palestina non ci sono stati grandi schieramenti ideologici. E’ facile sentirsi per tutti moderati e non approvare gli atteggiamenti estremisti. Anche se quando ho raccontato gli estremisti l’ho fatto permettendo di dire la loro alla stregua di tutti gli altri, contestualizzando sempre la situazione.
Col Venezuela è stato molto diverso, è stato come se mi trovassi nel pieno della guerra fredda. Se non ero da una parte ero, per gli uni o gli altri, dalla parte sbagliata. E sono piovute critiche come se ci fossero persone che non hanno meglio da fare che stare seduti a casa o chissà dove, a contestare non quello che vedevo, ma quello in cui avrei dovuto credere. E a volte con un livore che anche solo per educazione non mi sarei mai permessa nei confronti di un’altra persona. Di tutte queste critiche di chi non ha vissuto il Venezuela neanche per un giorno, una è stata giusta, non sono riuscita a raccontare la versione dei proMaduro, per tre essenziali motivi. Uno è che in questo momento, un po’ come dopo l’invasione americana in Afghanistan dove tutti i talebani barbuti si sono rasati e non se ne trovava uno che ammettesse di esserlo stato, o come nessuno ammetteva di aver votato Berlusconi, ora è difficile trovare persone che si fanno intervistare parlando di quanto è bello e buono Maduro. E se qualcuno lo ha fatto con il registratore sotto la bocca, poi quando si è spento, mi ha tirato la manica e detto “non è più così”.
Ovviamente non ho parlato con 27 milioni di abitanti, ma ho girato tanto, ho ascoltato tanto, ho parlato con gente di altri Stati, ho parlato con persone che operano, aiutano, si fanno il mazzo da anni e nessuno sembra felice. Il secondo motivo è anche che nessun politico madurista si è fatto intervistare. Non da me ma anche dal resto della stampa internazionale che è piovuta come rane nella tempesta. Qualcuno ha intervistato Maduro dopo essere stato accreditato e riconosciuto come giornalista “embedded”. Girava voce che solo il presidente dovesse parlare con la stampa. Il resto, le loro versioni sono arrivate solo grazie a twitter o i discorsi a fiume del presidente, qualche conferenza stampa della vicepresidente.
Il terzo motivo era il rischio sentito e reale che parlare con qualcuno del governo segnasse l’arresto del giornalista non allineato. 20 giornalisti in pochi giorni sono stati presi, derubati e rispediti al mittente, solo perché stranieri, quelli locali nel corso degli ultimi anno subito destini peggiori, come la galera, le intimidazioni, le percosse. Ho scelto di limitare la mia copertura dell’amministrazione a quello che dicevano senza “controintervistare” perché ho ritenuto più importante entrare nelle scuole, negli orfanotrofi, nelle case della gente, nei supermercati, negli ospedali, nelle farmacie, nei barrio, ho parlato con parlamentari e mendicanti, ricchi, poveri, analisti, artisti, giornalisti, cantanti, fotografi, pittori, maestre, medici, avvocati, ingegneri, contabili, gelatai, commesse, operatori umanitari, delle Nazioni Unite, dei diritti umani. Poliziotti, produttori, profughi.
E mi scuso se non sono riuscita a parlare con chi avrebbe fatto di tutto per buttarmi fuori. Non ho neanche mai parlato con un militante di Al Qaeda, ma l’ho fatto con uno della Jihad Islamica a Gaza e alcuni dei Lashkar Toiba in Pakistan. Con i talebani in Afghanistan e quelli di Al Sadr in Iraq. Forse non sono così brava e ne prendo atto, ma in Venezuela rifarei tutto allo stesso modo, se avessi avuto più soldi sarei andata a Tachira il giorno dell’entrata degli aiuti e adesso sarei sul confine con il Brasile a parlare con gli indigeni Pemones, ma non li avevo e non ho potuto, è un dato di fatto, in questo mestiere maledetto con il quale si deve fare i conti con quello che si ha.
Ho comunque tentato di essere la voce della gente e di riportare i loro sussurri. Ho vissuto come loro in case senza acqua dove devi scegliere la doccia o la lavatrice. Ho fatto la spesa, rimettendo a posto le cose troppo costose, mi sono impietrita davanti al dolore di chi ogni giorno è malato e non riesce a curarsi. Ho visto genitori devastati dall’impotenza di non poter aiutare il proprio figlio malato, per non potergli garantire un futuro sicuro, li ho visti guardarmi e chiedermi: perché? Stanno bombardano? No. Mancano le risorse? No. E allora perché diavolo quel paese è a pezzi?
Forse proprio perché oggi si deve scegliere da che parte stare, o con un opposizione tacciata di fascismo, non sono un’esperta ma ogni deputato con il quale ho parlato mi è sembrato piuttosto ragionevole vista la situazione, oppure stare con un’amministrazione che ha abbandonato, violato un paese e che per il solo fatto di proclamarsi socialista, fa si che chi sta al di là della frontiera, li assolva, “un compagno che ha commesso alcuni errori”, mi ha detto qualcuno. La gente muore, questo è più di un errore. E se un “compagno” si comporta male, compagno mio non è. Come non lo sono quelli dell’opposizione che hanno tutto da dimostrare. E che non escludo possano essere peggio, ma ancora non lo sono stati. E capisco le preoccupazione che si ha sull’ingerenza degli Stati Uniti che hanno le mani in pasta a tutto, ma non mi sembra che russi e cubani si siano dimostrati lungimiranti.
Il punto è che certi valori e certe idee sono giustissime in teoria, chi non vorrebbe istruzione, sanità, prosperità, giustizia per tutti? Ma questo non è il Venezuela che ho visto io, dove il cibo diventa un arma per il voto e per la lealtà, dove a scuola non si va perché non c’è da mangiare in mensa, dove la sanità non esiste visto che devi pagare tutto. Han dato le case e il clap, certo, le case spesso non avevano neanche gli allacci per l’acqua. E le scatole di clap non arrivano tutte le settimane, e di riso, farina e fagioli non si campa.
Se devo stare dalla parte di qualcuno e da giornalista non devo necessariamente, sto dalla parte della gente, di quelli che chiedono meno corruzione, meno narcotraffico, meno incompetenza, meno militari ovunque, meno paura, meno arresti arbitrari, meno torture, più informazione libera e la carta per poter ristampare i giornali. Potranno i venezuelani chiedere elezioni trasparenti, giuste, indipendenti e monitorate?
Credo sia difficile spiegare un paese dove non tutto è bianco o nero, per chi sta fuori la realtà, è facilmente interpretabile nel modo sbagliato e forse davvero non sono stata abbastanza brava, se non sono arrivata alle persone che la pensano diversamente. Ancora adesso dopo 17 anni che racconto l’Afghanistan, qui spesso mi chiedono: ma come puoi amare quel posto che per molti sembra l’antro dell’inferno? Perché ci ho vissuto, perché mi ci sono immersa, perché facendomi strada tra attentati, mine e bombardamenti, ho visto la gente e mi è entrata dentro.
Ammetto di non essere un’esperta di Sudamerica e credo di non aver mai fatto una personale analisi politica sul Venezuela, ma questo non è un pezzo, quindi concedetemi una slabbratura: per quel che ho visto, ascoltato e ripeto, vissuto, a me è sembrato che i maduristi abbiano idee più vicine all’estrema destra che a sinistra, chiamano gli esiliati fascisti, golpisti, i profughi e gli immigranti, li chiamano vermi. Non mi è mai accaduto che degli sfollati perdessero completamente la loro umanità e le loro ragioni, se non per voce di persone come Salvini o estremisti di destra. Persone che riterremmo vittime della corruzione, del totalitarismo vengono descritti come criminali.
I venezuelani sono un popolo gentile, diretto, chiacchierone, affettuosi nei modi (credo di aver abbracciato più persone qui in un mese che in tutta la mia vita professionale), che ama fare festa, non sono razzisti o particolarmente conservatori. Hanno un carattere tropicale che li rende entusiasti, resistenti ma molto poco formali e strutturati. Spesso si preoccupano poco di cose invece importanti. Il petrolio per me è una maledizione, ma gli ha permesso prima di evolvere arricchendo una classe della popolazione e poi di soccombere. Credo che la maggior parte dei venezuelani siano di centro sinistra, possono anche dirti di essere di centro destra o di destra, ma quando poi parlano e ti dicono quello in cui credono, senti che hanno una responsabilità sociale di centro sinistra.
Sono quelli che hanno accolto migranti da ogni dove. Quello che sta accadendo in Venezuela va oltre le ideologie, ed è qualcosa che non ho mai visto, semplificare, dividere in due la società, confonderne il suo carattere per obiettivi ideologici, non li rispecchia. I profughi, gli esiliati, i prigionieri politici, la gente per strada, i poveri, la classe media o quel che ne è rimasto, i professionisti, gli intellettuali stanno chiedendo libertà. Libertà di scegliere, lavorare, guadagnare, fare, dire, disfare, girare. Come tutti quanti. Oggi un passaporto costa 1200 dollari e ci vogliono mesi per farlo. Lo stipendio minimo, ovvero della maggior parte delle persone, dalla cassiera al professore universitario è di 6 euro. La gente chiede una possibilità di provare a risollevare il paese che ha tutte le risorse intellettuali e fisiche per farlo. Anche se russi, cubani e americani soffiano alle spalle, è veramente meglio chi dice che gli aiuti umanitari – che possono certo anche essere un cavallo di Troia – sono contaminati per far venire il cancro per altro a gente già malata? Come direbbe mia madre col suo buffo accento inglese: ma davvero?