Nel caso non aveste ancora capito cosa stiamo attraversando…
Tutte le conquiste non sono per sempre, di segnali reazionari ne abbiamo molti, sta a noi vigilare, perché dietro a operazioni di distrazione di massa, non vengano approvati testi e riforme che potrebbero peggiorare la situazione di uomini, donne e bambini.
8 Marzo 2019, Matteo Salvini: con la sua consueta imperturbabilità ribadisce il suo diritto di rispondere a ciascun attacco nei suoi confronti, senza alcuno sconto, quindi rivendica la sua abitudine di pubblicare sulla sua pagina Facebook, foto di donne che lo contestano, facendole sbranare dai follower con commenti di una violenza inaudita. Questa sarebbe per il ministro una sana modalità di azione, a me pare semplicemente un esempio dei tempi che viviamo.
Aggiunge che: “Il Ddl Pillon sarà il punto di partenza per la riforma del diritto di famiglia a tutela dei minori… certo si può migliorare, emendare, ma la parità di diritti di padri, madri e figli, su questo bisogna lavorare”. “Il diritto di famiglia va riformato nell’interesse delle donne, degli uomini, ma soprattutto dei minori, dei nonni che perdono i nipoti. Contro i padri che non danno gli alimenti pur potendoselo permettere, alle madri che con le false accuse, intasando i tribunali, trattano i figli come merce di scambio per ottenere quello che non sempre potrebbero ottenere. I bimbi sono usati troppo spesso per le beghe degli alunni”. Quindi per fare l’interesse dei minori, garantire loro maggior benessere, li equipariamo a pacchi postali, da spostare ogni tot giorni da un’abitazione all’altra, secondo piani genitoriali e schimi rigidi, costringendoli a cambiare abitudini, luoghi, contesti, per seguire il meccanismo delirante dei tempi paritetici, senza entrare nel merito delle specifiche e singole esigenze, senza consentire appunto ai figli, anche in relazione alla loro età, di avere condizioni di vita a loro veramente favorevoli.
Il testo di Pillon vorrebbe attuare un modello di bigenitorialità rigido, chiuso, estraneo a considerazioni relative all’interesse del minore. Almeno che non ci siano le seguenti ipotesi ostative: violenza; abuso sessuale; trascuratezza; indisponibilità di un genitore; inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore.
Violenze che devono però essere comprovate e passate in giudicato. Eppure sappiamo quanto differenti siano i tempi della giustizia penale e civile.
Gli affidi sono condivisi nell’89% dei casi, ma il collocamento prevalente è ancora a carico della madre. Il motivo lo spiega bene la giudice Monica Velletti, giudice tribunale civile Roma, nella puntata di Presa Diretta:
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Né ci si può appellare all’Europa, sostenendo che ci dobbiamo adeguare a quanto prescritto a quel livello, perché le cose l’Europa le ha concepite in modo del tutto diverso da quanto la cultura, l’ideologia che sta alla base della riforma Pillon ha partorito. Perché è assai pericoloso asserire che Pillon di fatto recepisce e vorrebbe attuare qualcosa che è stata disegnata a livello europeo. Assai pericoloso pensare che questo testo, o gli altri ad esso collegati, sia recuperabile anche solo in parte: si corre il rischio non solo di lasciar intendere che sia cosa buona e giusta in alcune sue parti, ma che ne si condivida l’impianto, che da più soggetti è stato giudicato assai negativo. Non lascerò passare l’idea semplicistica e manipolatoria che Pillon stia semplicemente compiendo quanto a livello europeo si suggerisce di attuare, che ci si debba allineare a qualcosa che altrove è già realtà, ma guarda caso omettendo le specificità di ciascun paese e soprattutto senza tenere conto della diversa condizione della donna.
Siccome la questione del fatto che il Ddl Pillon sia in linea con un dettato europeo non sussiste e non è assolutamente adoperabile a mo’ di propaganda in nessuna sede, aggiungo uno stralcio della Risoluzione 2079 (2015) del Consiglio d’Europa:
“introduce into their laws the principle of shared residence following a separation, limiting any exception to cases of child abuse or neglect, or domestic violence, with the amount of time for which the child lives with each parent being adjusted according to the child’s needs and interests”.
Pillon di fatto omette nel suo testo un fattore centrale e discriminante come la violenza domestica, in più fa finta di non aver visto che la risoluzione prevede la possibilità di modulare i tempi paritari sulla base delle necessità e dell’interesse del minore. Non c’è la rigidità e l’inflessibilità dei tempi previsti dall’art. 11 del Ddl Pillon nel testo europeo.
Scompare altresì ogni riferimento alla valorizzazione del minore quale soggetto titolare di uno specifico potere d’iniziativa, che invece è espressamente previsto dall’art. 5.11 della Risoluzione 2079. Tale disposizione, con riferimento ai piani genitoriali, prevede che vi sia la “possibility for children to request a review of arrangements that directly affect them, in particular their place of residence”. È previsto quindi un ruolo attivo dei minori anche nella definizione di quanto deciso dai genitori, specialmente per quanto riguarda i luoghi di residenza. Si dovrebbe sempre verificare la praticabilità di certe previsioni, oltre che la loro costituzionalità.
Anche il nostro ordinamento riconosce la tutela del “best interest of the child”, principio di natura costituzionale, in quanto come Paese ci siamo impegnati ad ottemperare anche a normative sovranazionali (ex art. 117 Cost.), in riferimento alla Convenzione di New York del 1989 ed ad altri testi che salvaguardano l’interesse del minore. Nessuna legge può essere varata se contraria a quanto previsto dal nostro testo costituzionale, questione da non dimenticare mai.
Ve lo faccio spiegare anche da un ex ministro, giudicate voi se combacia o meno con quanto prescritto dal ddl 735 e da un intento che vuole criminalizzare le donne che denunciano le violenze domestiche o che vogliono separarsi per allontanarsi da compagni maltrattanti.
A ottobre 2016 l’ex ministro della Giustizia Orlando interveniva in risposta a una interrogazione:
“La risoluzione del Consiglio d’Europa n. 2079 del 2015, firmata anche dai rappresentanti italiani, al par. 5.5 richiama gli Stati membri ad introdurre nella loro legislazione il principio della shared residence dei figli in caso di separazione, limitando le eccezioni alle ipotesi di abuso, negligenza o violenza domestica, e “ad organizzare i tempi di permanenza in funzione dei bisogni e dell’interesse dei bambini”. Pertanto, la shared residence si sostanzia in una “tendenziale” parità di permanenza del minore con entrambi i genitori al fine di garantire l’effettività del suo diritto alla continuità affettiva con ciascuno di essi: principio che, per sua natura, non può essere assoluto, dovendosi necessariamente commisurare ai bisogni ed al “superiore interesse” del minore, richiamato in tutte le convenzioni internazionali di protezione e di tutela dell’infanzia e dell’adolescenza. Con tale chiave di lettura della shared residence, non condizionata da impostazioni adultocentriche, non pare in contrasto la disciplina dell’affido esistente nell’ordinamento italiano. Come è noto, la legge 8 febbraio 2006, n. 54, ha introdotto l’istituto dell’affidamento condiviso dei figli in caso di separazione dei coniugi, modificando il testo dell’originario art. 155 del codice civile ed introducendo gli articoli da 155-bis a 155-sexies. Successivamente, il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, ha abrogato tali ultime norme e modificato nuovamente il disposto dell’art. 155, il quale oggi si limita a rinviare, per l’affidamento dei figli in caso di separazione, agli art. 337-bis e seguenti del codice civile. Tali norme affermano, fra l’altro, il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore, ricevendo cura ed educazione da entrambi, dovendo il giudice valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori e potendo decidere per l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori, ma, in ogni caso, assumendo ogni decisione “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”. La determinazione dei tempi e delle modalità di permanenza dei figli presso ciascuno dei genitori non è lasciata, pertanto, ad alcun arbitrio giurisprudenziale, ma è funzionale all’effettiva realizzazione del diritto che ha il figlio minore di conservare un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori.”
e ancora aggiungeva:
“Nell’analisi delle fattispecie concrete, l’ordinamento interno ha demandato, infatti, al giudice il compito di adattare i tempi di permanenza con ciascun genitore alle esigenze di vita del minore, senza che possano trovare spazio pregiudizi che traggono fondamento su una presunta diversa capacità genitoriale scaturente da diversità di genere. È evidente che le esigenze di vita sono ontologicamente diverse per ogni singolo minore e sottoposte a variabili, da considerare caso per caso. Stabilire, in via di principio, l’affido materialmente condiviso, con analoghi periodi di permanenza del minore presso entrambi i genitori, significherebbe condizionare fortemente l’attività interpretativa in valutazione concreta dei fabbisogni del minore, calati nella realtà familiare.
Si può ricordare che, sulla base delle informazioni assunte dai competenti Dipartimenti, risulta che, nel nostro Paese, le separazioni consensuali siano la maggioranza ed in esse, com’è noto, il tribunale si limita ad omologare l’accordo raggiunto dalla coppia, potendo intervenire solo se tale accordo leda l’interesse dei figli minori. Ne consegue che nella maggioranza dei casi sono i genitori a volere l’assetto “sbilanciato” in favore di uno solo dei due (di solito, la madre).”
Sarebbe quindi da salvaguardare il potere del Giudice di valutare, caso per caso, quale sia l’interesse del minore, quindi avendo riguardo al “best interest of the child”. Naturalmente si auspica altresì una formazione specifica del giudice affinché sappia cogliere ogni dettaglio utile a fare l’interesse del minore. Soprattutto ci si augura che la violenza domestica possa emergere e non restare sommersa: nella valutazione dell’affidamento non può essere sottovalutata o non tenuta in debita considerazione. Ne parla il giudice Fabio Roia, che ci aiuta anche a confutare la tesi delle “false accuse” tanto care al senatore Pillon:
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Pertanto, riportiamo i piedi per terra e ricostruiamo i fatti come sono, perché non si continui a diffondere disinformazione su questi temi. Sono testi irrecuperabili, inemendabili, totalmente corrotti alle radici, altamente pericolosi se introdotti nel nostro ordinamento. Nel caso questi disegni di legge dovessero essere approvati, non solo si introdurrebbe l’alienazione parentale nel nostro ordinamento, non solo si ostacolerebbe il divorzio, non solo si consentirebbe di assicurare al padre violento di continuare a frequentare i figli e a condividere l’affidamento, non solo si irrigidirebbe la vita dei figli, non solo si andrebbe contro gli interessi dei minori, ma, con il ddl 45 De Poli, ci sarebbero cambiamenti notevoli anche in materia penale, in tema di maltrattamenti, ma anche in merito alla fattispecie della “calunnia”, quindi in caso di indimostrabilità delle violenze subite e denunciate. C’è come detto in precedenza ben più che il mero intento di rivedere la materia dell’affidamento dei figli, si intravede un disegno in chiave misogina e regressiva di revisione del diritto di famiglia, ma anche di tutte le fattispecie che riguardano la violenza di genere. L’obiettivo sottinteso è obbligare le donne a non denunciare gli abusi e a non separarsi più.
Lo fanno per il nostro bene, come quando si è presentata la legittima difesa come uno strumento a tutela delle donne. Siamo noi che non abbiamo capito, siamo noi donne italiane a doverci allineare ai modelli europei, dobbiamo cambiare mentalità, sì come qualcuno l’ha definita, “parassitaria”. Peccato che ad alcuni uomini durante il matrimonio ha fatto comodo che la donna assumesse su di sé quasi tutto il carico di cura familiare, rinunciando spesso a carriera, lavoro, autonomia economica e prospettive future, riducendo orario di lavoro e cercando di conciliare tutto, seguendo il nostro marito e sostenendo le sue aspirazioni lavorative. Per poi sentirci anche dire che siamo noi a dover cambiare, fare come le donne degli altri Paesi europei. Chissà perché è a noi donne viene richiesta versatilità, adattabilità, tuffi carpiati, acrobazie e possibilmente tutta una serie di disponibilità al mutamento delle situazioni. Chissà perché siamo noi donne, che oltre a vederci stravolgere la vita da una serie di discriminazioni e ostacoli, dobbiamo anche assistere al progressivo annientamento di quel po’ di diritti conquistati. Il pensiero di tanti seguaci di Pillon ha contaminato anche un sacco di donne, anche in contesti in cui si dovrebbe riuscire a discernere con la propria testa.
A colpi di sentenze e di ddl ci vogliono riportare indietro di decenni.
Un uomo ottiene una riduzione della pena per un femminicidio da lui commesso, poiché in preda a una “tempesta emotiva” soverchiante, dettata dalla gelosi. Dramma della gelosia e delitto d’onore di ritorno.
Tre giudici donne scrivono in sentenza: “Troppo mascolina. Poco avvenente. E quindi è poco credibile che sia stata stuprata, più probabile che si sia inventata tutto”. Così due giovani, condannati in primo grado a cinque e tre anni per violenza sessuale, vengono assolti in appello. Per fortuna interviene la Cassazione, che annulla la sentenza. Appello dunque da rifare.
Ci sono segnali inquietanti dappertutto, ogni giorno. Non permetteremo che si compiano arretramenti e continueremo a far chiarezza ogni qualvolta ce ne sarà bisogno. Certo sarà assai complicato, anche grazie alle donne che vanno sottobraccio al patriarcato e fanno il gioco di queste falangi reazionarie.