Ha fatto della sua ispirazione poetica un lavoro, un successo e un metodo per scavare dentro se stessi esprimendo in un linguaggio ‘cifrato’, quello dei versi, ciò che di più intimo può emergere. Isabella Leardini (Rimini, 1978), poetessa giovane che scrive per i giovani, ha trovato il modo di ammansire la belva feroce della poesia rendendola strumento di rinascita.
E, nel saggio narrativo Domare il drago (Mondadori, 2018) – che non è un corso di scrittura creativa, ma il metodo per mettere a fuoco ciò che siamo – ci spiega, attraverso l’esempio degli autori classici e le prove poetiche degli allievi dei suoi laboratori, come si può trasformare la tensione emotiva in spinta creatrice e risanatrice.
Partiamo subito dal metodo dei “Sette Sì” da dire alla poesia, che illustri nel tuo saggio Domare il drago. In che cosa consiste? Può essere valido per tutti?
Sì, il mio metodo offre la poesia come uno strumento che tutti possono usare per mettere a fuoco qualcosa di inespresso nella propria vita: un linguaggio istintivo che ci consegna dei simboli e delle verità che chiedono di essere ascoltate e affrontate. Seguendo questi sette passi ci ritroviamo a scrivere anche se non l’abbiamo mai fatto, e chi scrive estrae qualcosa in più dal proprio percorso. Il primo sì è al silenzio in cui la parola non è ancora nata, quello in cui possiamo imparare ad ascoltarci. Il secondo è alla parola, quella della poesia ci sorprende all’improvviso come un inchiostro che già ci scorreva dentro. Il terzo sì ci insegna a riconoscere i volti che animano le nostre parole, il nostro ‘‘tu’’, che spesso è un destinatario nascosto con cui abbiamo dei non detti in sospeso. Il quarto sì è una ricerca della verità attraverso l’attenzione con cui modifichiamo ciò che abbiamo scritto: cercare la parola che più ci assomiglia finisce per svelarci qualcosa di noi. La poesia ci mette in mano una mappa che porta in profondità: il quinto sì ci porta a toccare i nostri nodi, il grande argomento della nostra vita che ci chiede di essere finalmente detto. Il sesto sì pronuncia a voce alta ciò che abbiamo scritto, anche nella solitudine dare corpo alle parole è liberarle. Il settimo sì è una piccola forma fissata nella carta, da realizzare con le proprie mani, come se delle nostre parole potessimo fare un gioiello di cui andare fieri.
Da molti anni, conduci laboratori di scrittura poetica nelle scuole primarie e secondarie e in altri contesti giovanili. Quali differenze di sentimenti e contenuti riscontri tra le composizioni dei bambini e quelle degli adolescenti? Scrivere poesie è più terapeutico per gli adulti, o per i ragazzi?
Scrivere poesia trasforma in bellezza il dolore e ogni materia oscura della nostra vita. Ci insegna a vedere ciò che in noi vuole brillare. I bambini come gli adulti sono meravigliati e appassionati, si offrono e si svelano disarmati appena le parole iniziano ad agire. Gli adolescenti invece sono selvatici, piccole belve bellissime nascoste nella timidezza, le loro ferite le mostrano solo a chi lo merita. Tutti alla fine scriviamo dei quattro elementi di cui siamo composti: l’amore, la paura, il desiderio, la mancanza. I bambini lo fanno con improvvisi misteri che si affacciano nel gioco, i ragazzi con un magma visionario di pensieri e immagini, gli adulti quasi tracciando un segno che finalmente li unisca al tempo che hanno già attraversato.
A soli 24 anni, nel 2002, hai vinto il Premio Montale nella sezione inediti. Non molto tempo dopo, i tuoi versi sono stati raccolti nel volume La coinquilina scalza (La Vita Felice, 2004), oggi alla quarta edizione e tradotto nel 2017 in lingua spagnola. Alcune tue opere compaiono nelle antologie di editori ‘cult’, stranieri e italiani: Les Poètes de la Méditerranée (Gallimard, 2010), Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012). Ti aspettavi questo successo per un genere letterario attualmente difficile da farsi pubblicare, la poesia?
Mi accorgo che non me lo sono mai chiesto, ho scritto poesia come se non potessi fare nient’altro nella vita. La poesia mi ha sempre risposto, la sento un po’ come una lingua madre e un dono da mettere in opera in molti modi. Nei miei libri ho sempre raccontato l’imperfezione dell’amore: quello non corrisposto, quello che deve attendere per compiersi, quello che trattiene in sé una piccola quota di lontananza; il fatto che i miei versi potessero raccontare le vite e le storie di tante persone, perfino un poco cambiarle, mi ha dimostrato quale potere e quale responsabilità abbia la poesia. Credo che i lettori e anche gli editori abbiano premiato il mio rigore, la poesia ci chiede un prezzo anche doloroso di verità, e miracolosamente è proprio questo che la rende potente, capace di agire in modo liberatorio su chi scrive ma anche su chi legge.
La tua ultima raccolta di versi, Una stagione d’aria, edita da Donzelli e vincitrice del premio di poesia Città di Arenzano, è uscita nel 2017, a 13 anni di distanza dalla prima. Quanto è cambiato in te, e nel tuo modo di scrivere, in poco più di un decennio?
Nel mio primo libro ho raccontato l’amore non rivelato e non corrisposto dell’adolescenza e della giovinezza, in quel libro c’era la freschezza di una poesia che ha appena trovato la propria voce, l’imperativo della sincerità. Il mio primo libro è andato molto bene, se avessi voluto avrei potuto replicarlo quasi subito, ma non volevo fare il verso a me stessa. Ho aspettato che nascesse un’opera nuova, sono stata di fronte ai tempi dell’ispirazione e della vita. Il mio secondo libro racconta una storia d’amore che si compie negli anni attraversando ostacoli e attese, ma racconta anche la fine giovinezza, quell’età sospesa che desidera toccare terra; è un libro pieno di figure femminili, ne racconta la capacità di attendere, di resistere di rimanere. Credo che in questo libro si sia fatto strada qualcosa di corale nella mia poesia, e da quello che mi hanno scritto i lettori mi sono accorta che Una stagione d’aria è un libro-specchio, diverso per ognuno. Chiunque lo legge inizia a seguirne una traccia soltanto, quella che porta alla sua vita e alla sua storia.
Una stagione d’aria è ambientato sulla riviera romagnola, simbolo del turismo di massa, e tratta il tema universale dell’amore; protagoniste, le ragazze nate tra gli anni ‘80 e i ‘90. Esprimendoti in prosa e non in versi, quale messaggio vorresti lasciare alle nuove generazioni di donne?
Scrivendo Domare il drago ho usato la stessa urgenza della poesia, ma la prosa mi ha permesso di essere un canale aperto, e credo di aver lasciato in questo libro un messaggio per i più giovani e non solo. Le ragazzine che ne sono protagoniste con i loro versi e le loro storie sono ciò che noi tutte siamo state, ci mostrano anche i nodi che ancora non abbiamo affrontato. Alle mie allieve, che spesso sono dominate dall’asia, dico di non essere perfezioniste, ma di cercare piuttosto una perfezione che sia prima di tutto un aderire a se stesse, alla propria natura che è bella anche perché conquistata attraverso squilibri e cadute. Nel mio libro accanto a queste ragazze ci sono figure del mito o della fiaba come Psiche, Arianna, la Sirenetta di Andersen. Sono ragazze che come noi sbagliano i calcoli, che attraversano piccoli e grandi inferni per compiere il proprio amore e se stesse.
Sei Direttrice artistica del festival Parco Poesia, dedicato ai giovani poeti; insieme all’artista Giovanni Turria, curi le collezioni di poesia e grafica d’arte – di talenti nuovi e affermati – Print & Poetry. Nella società multimediale la poesia, soprattutto quella giovane, può trovare validi sbocchi alternativi?
Il talento trova sempre sbocchi, anche a costo di inventarli. Oggi in Italia ci sono tantissimi giovani che scrivono, cercano la poesia come un linguaggio del profondo, come un modo per essere presi sul serio e ascoltati. Quelli che hanno la scrittura nel proprio destino troveranno il modo di emergere e di evolversi, qualunque strumento abbiano scelto per iniziare. Di certo il successo planetario che ha invertito la rotta del mercato per il genere della poesia ha evidenziato un bisogno di poetico che risuona con il nostro tempo. La nostra epoca fa un uso continuo e quotidiano della scrittura, è diventato il mezzo principale con cui dire l’emotività; anche solo un messaggio sullo smartphone può risvegliare l’istinto innato del linguaggio da cui nasce la poesia: desideriamo che le nostre parole possano assomigliare alla forza delle nostre emozioni, dirle come meritano di essere dette.
Isabella Leardini, Domare il drago. Laboratorio di poesie per dare forma alle emozioni nascoste, Mondadori, pp. 228, € 19.
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