Le numerose varianti moderne del racconto si allontanano dal tessuto narrativo originario e divengono l’espressione dei tempi, nella pluralità dei diversi significati sottesi.
Ora, voi che vivete fuori, ditemi se per caso vi accade di cogliere nella fitta pasta di suoni che vi circonda il canto di Euridice…
Italo Calvino
La multiforme materia mitica su Orfeo si rinnova. In ambito letterario, figurativo e nelle più svariate performance teatrali, musicali e cinematografiche, all’interno di un processo di adeguamento continuo, dal mondo antico fino ai giorni nostri, la figura di Orfeo divino cantore suscita interesse e fascino, sempre più nel mondo contemporaneo. Orfeo rappresenta la premessa e il modello archetipico di ogni possibilità di espressione artistica e di conoscenza misterica, in un rinnovamento creativo aperto alle sollecitazioni esterne. La vitalità creatrice primigenia, espressione dell’artista che compenetra i segreti del mondo naturale e si pone in qualità di mediatore tra cielo e terra, in lui prende forma già a partire dalla capacità di fermare l’attimo, incantare gli uccelli, ammansire le fiere che si approssimano, ammutolite nell’ascoltare il canto improvviso. Oppure si palesa nell’impietosire, ancor meglio “persuadere”, chi non vorrebbe fargli oltrepassare quella soglia, tanto da modificare persino il volere di un dio. Ma si sa, l’arte può essere seduttiva e alquanto pericolosa.
Tuttavia è con il gesto di voltarsi, e perdere per sempre Euridice, che Orfeo, la parola poetica fatta persona, si rivolge di fatto all’amore per un’altra donna, la Musica. Unica, totalizzante, la sola capace di non tradire e di sollecitare, senza sbalzi di tensione, quell’io vivifico ed esasperato che si nutre solo di canto e suoni. La Musica è manifestazione dell’istinto e, insieme, l’istanza che tende a mitigarlo.
A pari passo con le lacerazioni della contemporaneità, il processo di mitopoiesi ha trasferito le forme narrative del racconto in un immaginario culturale diverso, veicolando nuovi significati e valori, attualizzandoli rispetto al nucleo primigenio fondante il racconto di Orfeo e dell’amata Euridice, tradita per la Musica. Orfeo ed Euridice ora passeggiano tra la gente, in metropolitana, e pure a fumetti, nell’immaginario onirico di Dino Buzzati, illuminati da una luce giallina e artificiale.
In realtà, le esperienze artistiche Novecentesche hanno raccolto ed elaborato soprattutto due temi: quello del poeta cantore e il gesto del voltarsi indietro, il respicere, che causa la perdita definitiva della sua lei, almeno così parrebbe sulla carta, se non fosse che Orfeo si deve proprio voltare. Certo, dovendo fare i conti con l’estrema solitudine. Di fatto è solo quando canta, ama, agisce, lotta e muore e la sua nuova donna, la Musica, è piuttosto virtuale e lo attanaglia, senza pace. La cetra attira animali e piante, gli esseri dell’oltretomba, ma non gli esseri umani; da solo, Orfeo discende nell’Ade e solo ritorna. Canta il suo dolore in solitudine e affronta in assoluta solitudine il suo destino di morte. Charles Segal interpreta la solitudine del poeta-cantore Orfeo come espressione della condizione paradigmatica della creazione artistica che non ama nessuno, se non se stessa.
“Orfeo e Dioniso tendono a convergere. Entrambi hanno a che fare con la musica, con l’immediatezza del sentimento e con l’abbattimento delle barriere tra sé e gli altri (…) La musica agisce in un ambito tenuto accuratamente distinto da quello del consorzio civile e volutamente contrapposto. Il particolare uditorio di Orfeo è formato da alberi e fiere, non da cittadini”.
Le numerose varianti moderne del racconto si allontanano dal tessuto narrativo originario e divengono l’espressione dei tempi, nella pluralità dei diversi significati sottesi. La critica novecentesca è concorde nel delineare un momento nodale a partire dalla produzione poetica di Rainer Maria Rilke che connota un Orfeo pervaso da un senso di straniamento e di distanza. Il poeta elabora una riflessione sulle potenzialità e sui limiti dell’arte, non solo nei celebri Sonetti a Orfeo del 1922, ma anche nella lirica giovanile Orfeo. Euridice. Hermes, composta nel 1904. Euridice è immersa nella pienezza del suo essere nella morte e non riconosce più l’amore dell’uomo “terreno”; al voltarsi dello sposo, ella è apatica, distratta, non reagisce e non ricorda neppure chi sia l’amato. Orfeo, a sua volta, non riconosce più, nell’estraneità della donna, la fanciulla tanto amata che ora di lui dice, Orfeo chi?
La bionda sposa che il poeta
aveva cantato nei suoi versi,
il profumo della sua vita,
l’isola del suo ampio letto,
non era più sua, non era più.
(…)
E quando all’improvviso,
il dio la trattenne e con dolore
esclamò: Si è voltato -,
lei non comprese e disse, piano: Chi?
Più o meno negli stessi anni, in Italia, Dino Campana indaga il senso dell’atto creativo come emanazione sciamanica di Orfeo che si volta indietro perché così deve. Con la pubblicazione nel 1914 dei Canti Orfici, l’aggettivo “orfico” assume un significato esteso e indeterminato, nel senso di magico, mistico e segreto, sulla falsariga delle teorie del cubismo orfico espresse da Robert Delaunay e da Guillaume Apollinaire, autore della raccolta Le bestiaire ou Le cortège d’Orphée, pubblicata nel 1911. Apollinaire incita a trarre ispirazione da motivi non desunti dalla realtà visiva, ma creati dall’artista e dotati di un carattere sacrale verso il ritrovamento della sensazione pura. L’artista, quindi Orfeo, è l’unico votato alla possibilità di cambiamento attraverso la purificazione estetica dell’anima. E’ sua la capacità di esplorare il momento di transizione tra il reale e la religiosità del sovrannaturale.
Il voltarsi indietro diviene, invece, sia nell’interpretazione di Cesare Pavese, nel racconto L’inconsolabile, tratto dall’opera Dialoghi con Leucò, pubblicata nel 1947, sia nella versione di Gesualdo Bufalino ne Il ritorno di Euridice, racconto tratto da L’uomo invaso, opera del 1986, non più l’espressione di un fatale errore di Orfeo, o di una follia improvvisa, o una dimenticanza, come la tradizione virgiliana e ovidiana avevano sempre lasciato intendere; neppure un gesto legato al timore di perdere l’amata, insieme all’ansia di poterla rivedere. Perdere Euridice significa rinnovare la fonte d’ispirazione poetica e ritrovare la forza imperitura dello struggimento, quanto mai necessario alla creatività artistica. Orfeo rinuncia coscientemente a Euridice poiché, solo da morta, ella può ancora alimentare il canto del poeta-musico. Il gesto del voltarsi indietro diviene un atto eroico, in nome dell’arte pura e di un amore tanto più struggente, la Musica. Ciò che Orfeo paga con la perdita dell’amata, guadagna con la possibilità d’incantare l’universo intero con il canto legato all’assenza. Anzi, sostituisce l’amata con un oggetto più alto. Come si fa a competere con una rivale così, che ti stritola l’anima e pure ti solleva il cuore.
“Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani il Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva”.
Nel racconto di Bufalino, Euridice è una donna tradita e comprende l’amara verità mentre attende la barca di Caronte che deve riportarla indietro. Non riesce a capire le ragioni della scelta, non può, travalicano la sua persona.
“Addio!” Aveva dovuto gridargli dietro, “Addio!”, sentendosi la verga d’oro di Ermete picchiare piano sopra la spalla. E così risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanare verso la fessura del giorno, svanire in un pulviscolo biondo…Ma non sì da non sorprenderlo, in quell’istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale… L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava il “Che farò senza Euridice?”, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori, alla ribalta… (…) Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta”.
La prospettiva d’osservazione varia anche nel racconto di Italo Calvino L’altra Euridice, definita dall’autore una “cosmicomica trasformata”. La riscrittura del mito orfico procede attraverso una serie di accattivanti invenzioni e mostra una capacità di trasfigurare i motivi originali con nuovi significati. La componente sonora e musicale appare fin da subito rilevante e suasoria. Plutone narra in prima persona la vicenda di Orfeo e sovverte il racconto originario, perchè Euridice abita da sempre con il dio negli inferi. Mentre attraversa un vulcano spento, la donna giunge a una “sostanza trasparente e vibrante, l’aria azzurra” e avverte vibrazioni sonore sconosciute. Le segue, come una sonnambula, superando l’orlo del cratere. E qui, con un colpo di teatro, Euridice è ghermita dal braccio di Orfeo che l’afferra e la rapisce, portandola sulla Terra. S’invertono i ruoli, Plutone è il nuovo Orfeo e si dispera, di fatto è un tradimento bello e buono verso la musica. Egli crede che Euridice sia attratta dal canto di Orfeo che è il segno di “un mondo parziale e diviso”. Per salvare l’amata dalla musica, che è vita per lei e pertanto pericolosa, il dio degli Inferi risale alla luce insieme alla lava di un vulcano. D’un tratto, in superficie, ascolta un canto e un arpeggio, in cui la voce di Euridice si alterna a quella di Orfeo. Può l’amore cantare l’amore e trovare una consonanza armonica? Persino la lava si ferma dinnanzi alla musica e al rumore della vita terrestre, con quell’incantamento che il mondo di natura sa provare dinnanzi alla musica, prerogativa classica del solo Orfeo. I due amanti si perdono in lontananza, Plutone si ritira e torna “ad abitare il silenzio”, ma la vita contemporanea assorda con suoni estranei quel canto. Euridice e Orfeo sono catapultati nella fonosfera terrestre, dove tutto è assordato dalla “valanga del rumore” e dalla “fitta pasta di suoni” della vita convulsa. Il caos del mondo contemporaneo più non avverte la “musica silenziosa degli elementi”. E’ una denuncia spietata, forse non siamo più capaci di ascoltare e non ce ne rendiamo nemmeno conto.
“Trafitto dalle spine del reticolato di vibrazioni strepitanti, io feci ancora un movimento avanti verso il punto dove per un istante avevo visto Euridice, ma lei era sparita, sparito il suo rapitore: il canto da cui e di cui vivevano era sommerso dall’irruzione della valanga del rumore, non riuscivo più a distinguere lei né il suo canto. Mi ritirai muovendomi a ritroso nella colata di lava, risalii le pendici del vulcano, tornai ad abitare il silenzio, a seppellirmi.
Ora, voi che vivete fuori, ditemi, se per caso vi accade di cogliere nella fitta pasta di suoni che vi circonda il canto di Euridice, il canto che la tiene prigioniera ed è a sua volta prigioniero del non-canto che massacra tutti i canti, se riuscite a riconoscere la voce di Euridice in cui risuona ancora l’eco lontana della musica silenziosa degli elementi, ditemelo, datemi notizie di lei, voi extraterrestri, voi provvisoriamente vincitori, perché io possa riprendere i miei piani per riportare Euridice al centro della vita terrestre, per ristabilire il regno degli dei del dentro, degli dei che abitano lo spessore denso delle cose, ora che gli dei del fuori, gli dei degli alti Olimpi e dell’aria rarefatta vi hanno dato tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta”.