LIVIA CANNELLA– sapiente maestra della luce
Molti molti anni fa abitavo in una casa completamente bianca – una vera e propria white cube – e fu tutto quel biancore a suggerirmi una grande festa …. una festona in cui con un amico artista preparammo una serie di diapositive fatte esclusivamente di colore, che furono proiettate sulle pareti dentro gli spazi bui, ove gli ospiti venivano letteralmente vestiti di luce colorata quando venivano intercettati dalle proiezioni in movimento. Conversare con Livia – sapiente maestra della luce – mi ha riportato dentro quella magica atmosfera del mio passato e ha innescato una profonda riflessione sul fascino che la luce proiettata in tutte le sue manifestazioni ha esercitato e ancora esercita su di me.
Conobbi Livia a Roma in occasione della mia mostra presso Party L’Arte da ricevere, negli spazi di una comune cara amica e collega e dal 2014 ad oggi, nonostante la distanza geografica che ci separa abbiamo continuato a seguire reciprocamente i progressi delle nostre attività professionali con l’auspicio di poter collaborare. E chissà che oggi non sia venuto il momento giusto…..
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Diciamo che la mia scelta è stata accolta come avvio alla ricongiunzione con la mia inclinazione creativa che nel tempo avevo finito per accantonare. Si, perché in principio la scelta di studiare Architettura fu collegata alla vastità dei possibili orizzonti che poteva consentirmi di esplorare, più che propriamente per occuparmi di spazio costruito, di materie edilizie e urbanistiche o di design. Le attitudini si sono realmente affinate attraverso gli studi e ancor più lungo il percorso di pratica della professione.
Architetto o architetta?
Confesso di non sentirmi così fermamente ancorata alla “forma” della declinazione di genere, pur consapevole che le convenzioni tendano a manifestarsi quasi esclusivamente al maschile. Ma se questo consentisse di infiltrare nelle mentalità la ricchezza e le opportunità della differenza di genere, e dal lessico provenisse sostanza e traduzione nella pratica, ben venga l’adoperarsi per questa affermazione nel sentire comune (…“le parole sono importanti” per dirla alla Nanni Moretti…). L’importante è il perseguimento di una armonica combinazione delle visioni di genere che possano esprimersi e riconoscersi nelle contiguità, come nelle diversità. E questo lo intendo per ogni fattore di genere.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
Per me fare architettura oggi – come forse sempre – è accettare ed indossare la responsabilità di essere dei recettori del sentire comune e tradurlo in forma, visione e paesaggio, per dare sostanza alla vita di relazione, al sentimento di cittadinanza. Fare architettura è intuire i comportamenti ed immaginarne le evoluzioni, per modellare risposte adeguate a domande corrette e pertinenti, che forse è l’aspetto più delicato. Fare architettura è impegno civico, in qualsiasi forma lo si agisca ed eserciti, perché in qualche modo vestiamo il compito di mettere su i mattoncini della memoria individuale e collettiva, che costruirà il paesaggio della percezione futura del mondo.
Com’è maturata la tua scelta di dedicarti alla luce e alla sua direi “declinazione pittorica”?
Da un innesco iniziale folgorante, come molte altre cose che hanno indirizzato – quasi sempre istantaneamente – la mia vita: una didascalia improvvisata a mano libera da mia sorella – inconsapevole “musa” del mio “deragliamento” – su un frammento di acetato intelaiato per essere proiettato come diapositiva con un “Carousel” (mitico diaproiettore che i più anziani del settore ricorderanno con venerazione…). L’improvvisa consapevolezza di quello che avrebbe potuto passare, come lessico visivo, dentro la luce ha totalmente stordito, disorientato e infine ri-orientato la mia dirittura. Da lì il mondo della luce si è schiuso finalmente alla coscienza; ho capito che parte della mia sensibilità verso lo spazio – via via maturata anche attraverso l’attività urbanistica a lungo esercitata – risiede proprio nelle condizioni di luce che lo modellano, plasmandone la percezione. E che lo spazio stesso, entro questa prospettiva “rappresentativa” e “scenografica”, può diventare scenario di complesse visioni – che ho personalmente declinato in forma di “apparizioni” notturne – capaci di innescare ulteriori sensibilità e un ampliamento della consapevolezza dello spazio che abitiamo quotidianamente, accorgendoci della sua magnificenza e delle sue potenzialità. In tutto questo, l’iconografia – spesso ispirata al patrimonio artistico in una personale lettura e contestualizzazione spaziale – ha costituito buona parte del lessico e dell’identità del mio lavoro.
Cos’è per te la Bellezza?
“Non c’è una definizione matematica della bellezza, però la vedi quando la incontri”: ecco, aderirei integralmente all’affermazione di uno scienziato del Cern nel film “Il Senso della Bellezza”. La bellezza è un territorio che una volta introiettato non si può abbandonare, che genera e rinnova circolarmente l’imperativo di perseguirla nella pratica quotidiana affinché arrivi e tocchi qualsiasi aspetto della vita di tutti. La bellezza è un connotato della civiltà e un attributo – direi naturale – dell’etica. E’ il carburante necessario all’espressione di sé e delle cose, perché questa possa farsi modello riproducibile e manifesto di un costante progetto dell’”armonia” (per dirla stavolta alla Daverio…)
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
Come ho recentemente avuto modo di affermare riguardo al versante dell’arte, che similmente all’architettura mi riguarda, forse è nell’approccio complesso ai fenomeni e di conseguenza alla progettazione che posso collocare una sensibilità di tipo femminile, assestata nel prefigurare, misurare e agire responsabilmente in considerazione degli effetti conseguenti, includendo le incertezze, le fragilità, la “fluidità” della materia disciplinare che chiama continuamente a riallineare il registro delle prassi e delle consuetudini, senza ancorarsi a certe “virili” rigidità.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne?
Purtroppo questa non è un’opinione, ma un dato di fatto, che dannatamente tende – talvolta – a provocare un innesco competitivo spesso improduttivo e fuorviante. In mancanza di una visione paritaria ed equanime, il campo operativo si carica di disequilibri che producono il consumo di enormi quantità di energia per “conquistare” posizione, prima di poter agire espressivamente nel proprio abito professionale.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
Forse… ma più per la mia impronta caratteriale che per la mia appartenenza di genere, credo amaramente…
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Che ne vorrei registrare un maggior “smarcamento” dall’immaginario consumato di tale professione, ancora purtroppo convenzionalmente legato agli aspetti canonici della disciplina, in cui si fa fatica a riconoscere la moltitudine di declinazioni assunte attraverso i cambiamenti sociali e la progressione delle innovazioni connesse. Credo che spetterebbe alle donne, nella loro potenzialità generatrice, il compito di ampliare la visuale della collettività e – più faticosamente – della nostra categoria, non infrequentemente ritorta entro confini di sicurezza, non più poi così sicuri.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro e nel quotidiano, con la tecnologia?
In parte un rapporto naturale, visto che sono alla base della mia attività e della relativa progettazione, che conduco in relazione alla massima comprensione delle potenzialità di utilizzo; in parte controverso, per via di una progressione talmente veloce da non consentire una adeguata metabolizzazione semantica e un indirizzamento operativo libero dai rischi di un utilizzo insostenibile. Proprio per questo mi adopero molto nel conoscerne e comprenderne l’evoluzione e le peculiarità, attingendo prioritariamente alle mentalità delle nuove generazioni, non senza – confesso – l’eco di una insidiosa resistenza, ma anche con la consapevolezza di quanto preziosa possa essere la reciprocità di un fertile confronto.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Il mio lavoro è tipicamente “disorganizzato”, nel senso che – non corrispondendo a processi e filiere operative di consolidata consuetudine – richiede l’impegno e la propensione verso un’infinità di aspetti operativi e l’adeguamento costante a prassi e procedure in continua mutazione, non certo sostenuti dalla mia attitudine al “self made” e ad una cocciuta necessità di controllo, algida sintesi del potpourri di dubbi ed insicurezze che – direi fortunatamente – permeano la mia “navigazione” quotidiana.
Non ho il dono di saper naturalmente delegare, condizione che sto comunque impegnandomi ad imparare, e che ritengo ormai improcrastinabile, sia per una rivoluzione sistemica delle prassi del lavoro, sia come forma di apertura fiduciosa ad aspetti imponderabili e auspicabilmente arricchenti per la mia visione, sia per collocazione anagrafica, che comincia a situare la sopravvivenza in posizione prioritaria…
A quale tra le tue pubblicazioni sei più legata?
Sono soddisfatta di una recente pubblicazione su Artribune (“Da Roma a Roma. Il racconto della progettista Livia Cannella”), che mi colloca in un confine “non definito” tra arte e progettazione territoriale, condizione che mi corrisponde a perfezione, pur costituendo allo stesso tempo un posizionamento difficile da gestire nei confronti di molti contesti di riferimento, spesso non inclini a riconoscere nell’ibridazione un valore aggiunto, per me invece consueto. Ma anche elaborare pensieri e scritti per “Archeomatica” (“Antiche Presenze: Il Progetto della Valorizzazione nella Sostenibilità delle Tecnologie”, o per l’attività editoriale del Maxxi (“Città di Scena: l’Arte si fa Paesaggio”, sulla tematica “Città e Musei: forme e dinamiche di senso e relazione” per la pubblicazione “Città come Cultura: Processi di Sviluppo” a cura di Elena Pelosi, di recentissima uscita), o arricchendo la testimonianza al femminile di “Donne Artiste in Italia/FEMM[E]-ARTE [EVENTUALMENTE] FEMMINILE. Due ricerche a confronto e un dibattito comune”, a cura di Veronica Montanino e Anna Maria Panzera) mi ha restituito la convinzione delle mie idee e la costanza con cui le perseguo nel tempo.
E a quale dei tuoi progetti?
Qui il compito è veramente arduo, perché finirei per far torto a qualche angolo della mia anima. Roma comunque la fa da padrona…Non posso non citare l’installazione realizzata per la prima Notte Bianca a Fontana di Trevi nel 2003, o quella per il concerto di Ennio Morricone a Santa Maria Sopra Minerva – in cui la facciata della chiesa trasudò le immagini delle opere che vi sono contenute, o la coloritura (tra le prime realizzate alle nostre latitudini) dell’intera facciata della sede centrale del Palazzo delle Poste.
Ma probabilmente l’impronta stilistica a cui mi sento più affine è quella emersa nel paesaggio dei Fori Imperiali, tra i Mercati Traianei, il Foro Romano e il Colosseo, in cui attraverso varie installazioni ho disseminato armonicamente volti e figure della romanità, come perenni onirici abitanti di questo incomparabile scenario. Probabilmente è questo il tratto stilistico e semantico che più mi rappresenta e in cui più mi riconosco, e che continuo a percorrere considerandone pressoché inesauribile il portato espressivo e rappresentativo.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura o design?
Lo consiglierei come orientamento di mentalità, come base formativa per l’ampliamento dell’immaginazione e della visione, ma accanto all’ammonimento di una costante responsabilità operativa, con cui sarebbe necessario misurarsi preventivamente, in quanto fattore irrinunciabile e insostituibile per divenire professioniste adeguate alle sempre più complicate e complesse condizioni disciplinari e contestuali. Vi è bisogno di un altissimo senso dell’etica e di una profonda consapevolezza, ed è indispensabile recuperare quanto più velocemente possibile il valore imprescindibile delle competenze, delle capacità e delle corrette sussidiarietà funzionali e culturali. E avanti tutta anche davanti alle difficoltà di genere, a tutela della dignità e delle specificità, con il sorriso in rotta costante e con una fiduciosa apertura verso il futuro.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
La “Moka” (guai a estinguerne l’ineguagliabile disegno) e in generale le architetture di terra, sintesi di funzionalità e armonia; se parliamo di contemporaneità, porto ancora addosso la fortissima suggestione del Jüdisches Museum Berlin di Daniel Libeskind a Berlino. Amo le architetture a forte carica simbolica.
Come riesci a conciliare la tua attività di ricerca con l’impegno professionale dentro gli istituti di formazione di varia natura, universitari e non?
Non ho un impegno consolidato all’interno di una struttura accademica, ma frequentemente vengo coinvolta da entità che si occupano di formazione – che vanno dalle Università ai più prestigiosi istituti di formazione creativa – per portare la testimonianza del mio percorso/processo progettuale e della mia produzione culturale. Nel contempo partecipo con assiduità l’attualissimo dibattito sulla “valorizzazione culturale”, che frequentemente consente ambiti di confronto pubblico utile a tracciare le basi di un lessico comune, ancora non delineato. Essendo poco incline alle stabilità, l’alternanza degli impegni su vari fronti di indirizzo nutre moltissimo la crescita e l’evoluzione delle complessità necessarie ad una costante buona pratica.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
I tarallini pugliesi, accidenti… oltre a qualche immagine che mi ispiri, fissa su uno dei due monitor con cui lavoro al pc.
Una buona regola che ti sei data?
…un problema è una risorsa… universalmente valida
…da “metalmeccanico” per gli allestimenti, “casual–essenziale–comodo” per il resto del tempo, con accenti di dettaglio a seconda delle circostanze… ho risposto?…
Città o campagna?
Margine urbano: città alle spalle, verde e paesaggio all’orizzonte…
Qual è il tuo rifugio?
Le piccole isole, tra le quali ho preferito Stromboli/Ginostra per molto tempo. O la pratica del respiro profondo – con sfondo di cielo crepuscolare – quando non posso raggiungere altri luoghi. Comunque l’empatia con l’habitat circostante è centrale nella mia geografia emotiva, e ogni luogo che mi trafigga l’anima diviene in qualche modo rifugio.
Ultimo viaggio fatto?
All’estero Cornovaglia e Galles, ma non riesco a dimenticare l’Iran visitato qualche anno fa, né il Kurdistan iraqueno con i luoghi sacri della popolazione yazida. Ma se per viaggio intendiamo l’esperienza della mente, anche la passeggiata di ieri nell’incomparabile spazio archeologico dell’Appia Antica è stato un viaggio straordinario…
Il tuo difetto maggiore?
Mammamia, quale scegliere?… L’irruenza difensiva combinata con un eccesso di perfezionismo (tuttavia in attenuazione)
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
Una difficoltosa ma perseguita resilienza, e certi guizzi visionari incontrollabili…
Un tuo rimpianto?
…che è anche, però, la mia spinta motivazionale: non aver ancora realizzato il “progetto più bello del mondo”, che stanzia nel mio cassetto da tempo…
Work in progress….?
Molti bandi pubblici (attuale “controversa” forma di collocamento delle progettualità) per attività di valorizzazione negli spazi culturali, nuove ed attese seduzioni nella direzione dello spazio teatrale, oltre alla costante attualizzazione del “progetto più bello del mondo”, che prima o poi metterò in atto per la mia città, nel suo paesaggio archeologico centrale. Giuro…