Il progetto europeo MoMoWo. Women’s Creativity since the Modern Movement [di cui è capofila il Politecnico di Torino e co-finanziato dal Programma Europa Creativa dell’Unione Europea] ed in particolare la comune amica Caterina Franchini, sono stati gli artefici della nostra conoscenza, in occasione della presentazione dei dieci reportage selezionati da una giuria internazionale – tra cui appunto il lavoro di Francesca – nell’ambito del concorso indetto da MoMoWo in cui si chiedeva di interpretare l’abitazione di una architetta o designer attraverso la fotografia, mettendo in luce come la creatività progettuale si rifletta nella sua vita quotidiana. Ma prima ancora ero stata inserita nel volume dedicato alle donne architette, progetto di grande valore a cui Francesca dedica da qualche anno le proprie energie con il team RebelArchitette. La radicalità di Francesca e del gruppo mi rimanda ai miei anni universitari quando mi ero distaccata con un nutrito gruppo di donne dal controseminario che radunava i compagni – parola di questi tempi oramai desueta – per portare avanti una progetto di ricerca e di studio al femminile, intendendo con questa espressione un modus operandi che prevedesse il riconoscimento della radicalità di genere e il rispetto per una progettazione paritaria a livello sociale e ancor più politico. Ecco, ascoltare Francesca e seguirne l’attività di diffusione costante e direi quotidiana, mi rallegra perché significa che nulla è stato inutile ma ha lasciato tracce, strascichi ed eredità per le generazioni successive alla mia. E poi sono letteralmente innamorata del suo progetto Cutoutmix – di cui spiegherà Francesca nel corso dell’intervista – che spesso utilizziamo in studio per arricchire i visual dei nostri progetti.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Direi proprio di sì. Ho avuto la fortuna di vivere in un ambiente familiare particolarmente creativo, ho trascorso gli anni della mia giovinezza in una casa progettata da un grande architetto ingegnere Armen Manoukian che ha fortemente influenzato il mio desiderio di diventare progettista. Un padre appassionato medico e fotografo, una madre straordinaria che mi ha trasmesso una grande passione per la bellezza, l’arte e i viaggi.
1969 casa Perani – Arch Ing Manoukian
Architetto o architetta?
Architetta. Dal 2001 al 2017 mi è sempre sembrato assolutamente normale definirmi architetto. Solo da poco quindi riconosco che non definendomi architetta rinnegavo non solo la presenza delle professioniste nella progettazione ma soprattutto impedivo alle nuove generazioni di potersi riconoscere in noi. Trovo ora impensabile non definirmi in modo corretto, un cambiamento che fortunatamente sempre più colleghe vogliono accelerare e diffondere per favorire una parità di genere nella professione che parta anche dal linguaggio. Come è possibile pretendere la parità se non ci appropriamo di un termine che ne definisce la nostra presenza? Architetta.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
In questo momento particolare della mia vita fare architettura significa soprattutto prendere le difese di una professione che, con le sue contraddizioni, ho sempre amato e odiato allo stesso tempo. Significa cercare di favorirne una sopravvivenza in tempi di incredibile cambiamento e allo stesso tempo sottolineare come l’importantissimo lavoro di tante professioniste possa dare già indicazione sia di un approccio che di ambiti di potenziale crescita. Fare ARCHITETTURA quindi per me supera il desiderio di concentrarmi esclusivamente sul mio lavoro progettuale ma affronta in modo collettivo il desiderio di avere una professione più inclusiva, diversificata. L’ambiente progettuale, normalmente feroce e competitivo, sta evolvendo, per me, verso formule collaborative prima impensabili.
Da sinistra Francesca Perani Domenica Bona Caterina Pilar Palumbo Marta Brambilla Elena Fabrizi Ilenia Perlotti Cinzia Bigoni (tra i membri del team RebelARchitette)
Da chi trai ispirazione?
Molte sono le figure che ammiro e seguo; nel mondo della progettazione Jennifer Bonner per il suo spirito pop, Anna Heringer per la sua sperimentazione con materiali naturali, Izaskun Chinchilla per la sua interpretazione sostenibile del progetto; dal mondo del design figure imprenditoriali come Tina Roth Eisenberg o l’esplosiva designer Sara Ricciardi, per poi passare a figure attive nei confronti di cambiamenti sociali come le architette Mariola Peretti o Caroline James.
Com’è maturata la tua scelta di dedicarti all’avventura di RebelArchitette? E in particolare come nasce il tuo interesse per la valorizzazione della professione al femminile?
È stata determinante la mia esperienza, tra il 2010 e il 2013, da Vicepresidente all’Ordine degli architetti di Bergamo e da referente di un gruppo particolarmente attivo a cui, in una formula sempre collaborativa di una ventina di colleghe, avevamo dato il nome ARCHIDONNE. Non volendoci definire in modo maschile avevamo coniato un termine che anche in quel caso favorisse, già nella sua stessa descrizione, la visibilità delle professioniste sul territorio, ne indagasse le problematiche e ne sviluppasse le possibili soluzioni. Tra le iniziative che ricordo con più piacere il reportage video Archidonne / sopravvivere al sistema, l’introduzione della quota NEOGENITORI, e il progetto Architetti/Architette nelle classi portato avanti tutt’oggi da Cristina Brembilla. Questo è stato l’inizio di un approfondimento specifico nei confronti dell’invisibilità delle donne nell’architettura che, complice il profondo dibattito scaturito dall’approvazione del Timbro Architetta a Bergamo, ha portato alla formazione del team RebelArchitette.
Sperimentazione, azzardo, in una composta armonia.
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
È ancora da scoprire, ora che finalmente così tante donne, storiche o attuali, vengono allo scoperto con la loro importante progettualità. Sono molto curiosa anche io di capire se in realtà si possa trovare un approccio femminile o maschile nei confronti dell’architettura, ma allo stesso tempo vorrei evitare si ricadesse in stereotipi legati al genere, ora che anche il genere è finalmente riconosciuto in modo più fluido e meno schematico. Noi, attraverso il libro Architette=WomenArchitects abbiamo trovato nuovi valori nella progettazione portati avanti dalle donne, ma non possiamo dire che siano esclusivi.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne?
Certamente sì, inutile negare che la mancanza di modelli di ruolo non abbia profondamente indebolito la percezione di un lavoro molto complesso e quindi anche la nostra determinazione nel rimanerne all’interno delle sue logiche. Le statistiche di tutto il mondo parlano in modo chiarissimo: differenza salariale e difficoltà di conciliazione famiglia lavoro sono alla base di questa difficoltà. Non è un problema locale né di settore e questo è il momento di dirlo e di proporre soluzioni per le giovanissime che si affacciano ancora troppo inconsapevoli al mondo dell’architettura.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
In università dovendo relazionarmi quasi sempre con docenti e assistenti uomini, da progettista in più occasioni e modalità. In generale trovo che la nostra capacità di essere ascoltate sia possibile solo qualora sia innegabile un livello di preparazione altissimo, mentre non è riservato lo stesso trattamento ai colleghi uomini.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle architette?
La situazione attuale in Italia è difficilissima per colleghi e colleghe. E’ indubbio che sino a che non verranno attuate politiche assistenziali alle famiglie e non sarà favorita una gestione più flessibile del lavoro, il peso della conciliazione tempi famiglia-lavoro – che ancora quasi esclusivamente ricade sulle donne – non potremo vedere reali avanzamenti in merito alla disparità di opportunità nel mondo professionale. Al tempo stesso vedo però con grande ottimismo aprirsi nuove modalità di approccio all’architettura proposte proprio da giovani emergenti che, anziché perseguire ricerche professionali individuali, si alleano in team e si occupano di tematiche nuove attraverso linguaggi social intriganti. Elemento chiave è l’evidente volontà di condivisione di esperienze, di difficoltà, ma anche di materiali, finiture, tecnologie. Un terreno nuovo, in pieno fermento.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro e nel quotidiano, con la tecnologia?
Direi quanto basta, sono schermodipendente, innamorata da sempre del potere positivo di fruizione e distribuzione di contenuti online. Non mi dispiacerebbe sfruttare le nuove tecnologie anche in ambito edile con utilizzo di macchine 3D.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Ho sempre avuto grande fortuna nel trovare persone estremamente appassionate e curiose con cui collaborare nel mio studio, per questo mentre schizzi concettuali e fotografie conclusive al progetto sono per me indelegabili, gran parte del processo di elaborazione del design è in mano a chi collabora con me.
A quale dei tuoi progetti sei più legata?
Avendo da sempre affrontato in modo quasi parallelo sia il mondo della grafica che quello dell’architettura, sceglierei per il primo ambito il progetto cutoutmix, una piattaforma che propone in open source silhouettes nei rendering di architettura allontanandosi da figure stereotipate, proponendosi di superare barriere legate al gender, colore della pelle, orientamento sessuale, diversa abilità. Un progetto architettonico a cui sono molto legata è stata la ristrutturazione di un roccolo lombardo che ho seguito con l’architetta Sandra Marchesi. Location e clienti splendidi; le soluzioni adottate in quell’occasione riassumono gran parte dell’approccio che riservo ai miei progetti. Colore e tanta sperimentazione.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura o design?
È una banalità ma credo che ognuna debba seguire le proprie passioni condita da una sana esperienza lavorativa e/o di studio all’estero.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata.
Timor, il calendario perpetuo di Enzo Mari, lo posseggo dalla mia infanzia. Il Barbican Centre, brutalismo e segnaletica in un magico connubio, ricordo vivido della mia vita londinese.
Come riesci a conciliare la tua attività professionale con l’insegnamento?
Ho la fortuna di insegnare materie che mi tengono costantemente in aggiornamento sui temi a me più cari, progettazione di interni e rappresentazione del progetto architettonico. L’energia e lo scambio che posso ricevere da giovani progettiste/i diventa energia pura che poi trasferisco nel mio studio.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Il casino.
Una buona regola che ti sei data?
Fare meditazione il più spesso possibile
Il tuo working dress?
Comodo e generalmente blu
Città o campagna?
Montagna
Qual è il tuo rifugio?
I miei affetti e i miei amici
Ultimo viaggio fatto?
Nord Ovest della Spagna e Porto
Il tuo difetto maggiore?
La procrastinazione
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
Il caschetto biondo
Un tuo rimpianto?
Ancora non ce l’ho
Work in progress….?
Architettura: un intervento di recupero in Val Seriana per una coppia iraniano-bergamasca. Grafica: Nuove silhouettes in open source con la piattaforma cutoutmix. RebelArchitettura: un nuovo libro #architetteitaliane e tanta rete 😉