L’esperienza di Barbara Bartolotti è la storia di una sopravvissuta, una donna che si è aggrappata alla vita con tutte le sue forze. Sopravvissuta a una crudele aggressione dalla violenza inaudita e inaspettata da parte di un collega. Un percorso di rinascita che le ha permesso di intraprendere una vera e propria nuova vita. Le abbiamo chiesto di raccontarcela.
Barbara all’epoca dei fatti aveva 29 anni, un marito, due bambini e da poco aveva scoperto di aspettarne un terzo.
Ci racconti cosa ti è accaduto quel 20 dicembre 2003?
Incontro Giuseppe Perron, mio collega dello studio edile in cui lavoravo come contabile. Credevo dovesse parlarmi di lavoro, visto che tra di noi non c’era mai stato altro. Scesa dalla macchina mi ha colpita con quattro martellate alla testa e poi mi ha accoltellato all’addome, uccidendo anche la vita del mio bambino che portavo in grembo. Poi non contento, mi ha dato fuoco cospargendo il mio corpo di combustibile agricolo.
L’ossessione di un uomo segretamente innamorato di lei, che non accetta che Barbara sia in attesa del suo terzo figlio e che non potrà mai essere “sua”, non potrà avere alcun futuro con lei. Le dice infatti mentre la aggredisce (e poi davanti ai giudici): “Non ti posso avere, meglio ucciderti”. Un’ossessione frutto di una costruzione che nulla ha a che fare con i sentimenti, ma solo con l’idea del possesso, di ghermire l’altra, di assoggettarla, di possederla indipendentemente dalla sua volontà, come un oggetto, un qualcosa di cui potersi appropriare. L’incapacità di accettare che un’altra persona possa non appartenere, non entrare nei propri progetti di futuro. Una elaborazione lucida, premeditata di un femminicidio, da parte di quello che appare “un bravo ragazzo”, di buona famiglia, perché normali sono gli uomini che elaborano questo castello di violenza. Bravo ragazzo per la comunità e per tutti, un sano figlio di una mentalità radicata e secolare, di uomini padroni, che non ammettono che certi “piani” vengano intralciati. Così si schiaccia il diritto di una donna a continuare a vivere, libera dalla violenza, che invece irrompe ferocemente per mano di Giuseppe.
Barbara, si finge morta, finché lui non si allontana, e nonostante le ferite e il dolore, con un pensiero ai suoi figli, trova la forza di rialzarsi, di spegnere le fiamme e di chiedere aiuto a due ragazzi che in quel momento passavano in auto. Supererà il coma e trascorrerà sei mesi di cure intensive al centro grandi ustioni di Palermo. Poi finalmente, la sua rinascita.
La tua esperienza di sopravvissuta alla violenza come testimonianza e impegno in prima persona, giorno dopo giorno. In quanti modi riesci a portare avanti tutto questo? So che sei anche impegnata con un’associazione…
Sì, ho un’associazione che si chiama Libera di vivere e porto avanti una missione: sensibilizzare tutti e soprattutto i giovani al rispetto e all’amore per la vita.
Quali ostacoli hai rilevato e aspetti positivi rispetto a questo impegno. Un bilancio a distanza di qualche anno.
Qui a Palermo poca solidarietà. Ho problemi per avere una sede per il mio centro di ascolto e gli incontri devo farli da altre parti. La mia città non mi ha aiutata neanche per un lavoro. Eh sì, sono stata licenziata dopo sei mesi di malattia continua, perché a capo dell’impresa c’era lo zio del mio aggressore. Ora lui lavora in banca all’Unicredit, lui è stato premiato…
Condividi le motivazioni di questo impegno con i tuoi figli?
Sì, con i miei figli maggiorenni, con la piccola no.
Oggi come vedi Barbara, rispetto al passato? Hai scoperto qualcosa di te che non conoscevi?
La mia forza e la mia fede sono notevolmente cresciute e sempre l’amore per la vita aumenta. Lotterò sempre affinché le leggi cambino.
Cosa è per te la giustizia. Come sono cambiate le tue aspettative e le tue idee dopo l’esito del processo a carico di colui che ha tentato di ucciderti?
Il mio aggressore non ha avuto condanne qui su questa terra, ma al cospetto di Dio sarà punito.
Il suo aguzzino, incensurato, si è avvalso del patteggiamento e rito abbreviato, viene considerato dai giudici colpevole solo di lesioni gravissime e non di tentato omicidio. Avrebbe dovuto scontare 25 anni di carcere, ma alla fine se la cava con appena 4 anni di domiciliari, che però, grazie all’indulto, non sconta nemmeno. Non ha mai chiesto scusa.
Ciò che appare ancora una volta difficile da accettare è come la giustizia di fatto non si compia, l’autore ha potuto godere di tutta una serie di benefici. Che risarcimento viene riconosciuto alla vittima e che messaggio si lancia a livello di società?
Prima dell’aggressione e del tentativo di ucciderti, cosa pensavi a proposito della violenza maschile?
Credo che la violenza e la mancanza di rispetto sia sempre esistita, ma oggi emerge maggiormente grazie a tv e social.
Alla luce della tua esperienza, quali sono le priorità per prevenire e contrastare la violenza contro le donne, su cosa si deve intervenire e quali sono gli strumenti che funzionano e quelli che andrebbero migliorati?
Sicuramente chi accoglie le denunce deve essere bravo a non respingere la vittima ed attivare i servizi preposti a tutela e protezione. Mai tornare indietro e chiedere aiuto a tutti.
Lavorare per cambiare la cultura del dominio e del possesso, per cui se non “gli puoi appartenere” un uomo sceglie di cancellarti e di toglierti la vita: quanta strada c’è ancora da fare, che percezioni hai sulle nuove generazioni?
Molta strada…lavorare sull’educazione di uomini e donne, tutti dobbiamo migliorare.
Occuparsi di violenza contro le donne, perché ci riguarda tutti e tutte. Quanto è importante essere consapevoli del fenomeno, delle sue radici? Quanto è importante non viverlo come qualcosa di distante da sé?
Può essere anche tanto vicino, basta essere pronte al cambiamento, basta non fermarsi mai, avere fede, forza, coraggio e scappare per vivere.
Cosa è per te la libertà? Cosa significa essere libera per una donna, in Italia, oggi?
Essere libere vuol dire fare ciò che desideri della tua vita, essere libere di vestirsi, di parlare, di lavorare e di uscire senza minacce e preavvisi minacciosi.
Ricostruire e ricominciare, di quali interventi di sostegno hanno bisogno le donne sopravvissute? Penso per esempio alle difficoltà di trovare un lavoro…
Noi sopravvissute a un femminicidio non siamo tutelate da nessuno. Abbiamo anche noi diritto al lavoro e di dimenticare con la nostra dignità, non essere emarginate.
Il tuo coraggio, la tua forza, il desiderio di vivere questa seconda vita per te e i tuoi figli. Tanti elementi ti hanno sostenuta in questo cammino di rinascita, quale messaggio vuoi trasmettere alle donne che hanno vissuto e/o stanno vivendo situazioni di violenza, di abusi da parte di un uomo?
Mai fermarsi, mai abbattersi. Camminare sempre a testa alta, vivere la vita, anche se beffarda, nei suoi colori e nelle sue profumazioni.
Vi invito ad ascoltare la sua testimonianza rilasciata a Sopravvissute, lo scorso 7 aprile.
Le cicatrici sul corpo e quelle dell’anima non si possono dimenticare né cancellare, restano per tutta la vita. Noi possiamo però aiutare Barbara a riprendere a lavorare. Ci date una mano?
Vorrei concludere tornando sugli autori delle violenze contro le donne, perché è bene ribadire alcuni aspetti.
Vi riporto un estratto dal libro del magistrato Fabio Roia, Crimini contro le donne: Politiche, leggi, buone pratiche, 2017 Franco Angeli, pag. 161:
“Secondo vecchi ma non superati stereotipo si tende ancora oggi a pensare che chi maltratti o stupri una donna sia un soggetto affetto da una patologia psichiatrica, una persona disturbata e quini in maniera gergale, da curare. Al contrario, l’esperienza giudiziaria dimostra che l’agente violento non risulta affetto da alcuna patologia sul piano psicologico-psichiatrico, ai sensi dell’art. 85 c.p., e che la sua condotta maltrattante si sviluppa su un binario di piena consapevolezza, dovendosi così ricercare la causa scatenante della condotta violenta in una matrice subculturale che autorizza la liberazione degli impulsi aggressivi nei confronti di una donna in quanto espressione di un genere ritenuto secondario.”
Immaginiamo pertanto, che in assenza di sanzioni penali adeguate al reato e nessun trattamento “su un piano di sensibilizzazione relativa al disvalore del comportamento commesso, comportamento che tendono a negare o minimizzare”, il rischio di recidiva sia assai elevato e che all’opinione pubblica si passino messaggi che derubricano la gravità della violenza agita. Il nostro sistema non può permettersi di continuare a essere debole e fiacco, poco incisivo, con differenze anche notevoli tra tribunali, in merito a sentenze in materia. Le leggi ci sono, vanno applicate adeguatamente da magistrati specializzati e preparati in materia. Occorre poi seminare, credendoci veramente, nella costruzione di una società paritaria, a partire dall’ambito scolastico, investendo nell’educazione a relazioni rispettose e egualitarie tra uomini e donne, senza paura di interrogarsi e di affrontare i tarli culturali patriarcali che ancora affliggono i rapporti tra i generi. Dobbiamo scavare dentro di noi per estirpare le radici culturali che sostengono e alimentano la violenza, quelle forme di sottovalutazione e di negazione della gravità di certi comportamenti e mentalità. Dobbiamo avviare un enorme lavoro che sia in grado di minare le basi della discriminazione e della violenza contro le donne. La traccia da seguire già l’abbiamo, basta attuare passo passo le quattro P della Convenzione di Istanbul: prevenzione, protezione e sostegno alle vittime, perseguimento dei colpevoli, politiche integrate.
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lui non era innamorato