Un giallo con qualcosa di più: questo è il romanzo fresco di stampa L’ombra di Perseo di Daniela Mencarelli Hofmann, edito dalla casa editrice Le Mezzelane.
Il genere non è facilmente addomesticabile, ma l’autrice ci riesce in modo naturale, adottando uno stile tipico della cinematografia contemporanea e una tecnica che spinge il lettore a seguirne lo svolgimento, per un finale che giunge inaspettato. Tra le pagine ci sono tracce dell’epilogo ma sono intelligentemente mescolate a numerosi “depistaggi”. Daniela Mencarelli Hofmann sceglie coraggiosamente un tema complesso e delicato, la violenza maschile contro le donne, lavorando molto bene sul maschile. Più voci narranti, più punti di vista, si alternano, si intrecciano e tracciano ciascuno la chiave di una storia. Un marito (Marco) e sua moglie (Laura) vengono ritrovati in fin di vita dalla loro figlia minore (Julia). La narrazione ci porta avanti e indietro nel tempo, tra ricordi vivissimi del passato e un oggi in cui tutto si è frantumato e fa male; attraverso le pagine si ricostruisce un tessuto relazionale, oltre la coppia, composto da amici, parenti, colleghi di lavoro e le vicende di un siriano richiedente asilo.
Non spoilererò la trama e come si svolge il romanzo, preferisco soffermarmi sugli obiettivi e lasciar parlare il libro.
Ciò che è interessante è l’opportunità che questo libro offre per approfondire il tema della violenza, nell’infanzia, nella coppia, in famiglia. Si scava negli affetti, nei rapporti genitori-figli, nella mente maschile e in quella femminile, nella formazione della maschilità, scendendo nei meandri di una mascolinità tossica, per ricostruire un tessuto, qualcosa che possa aiutarci a comprendere cosa accade realmente, quali sono le radici di una violenza che emerge e tutto distrugge. Al centro una maschilità che si regge a stento, che si gretola di fronte ai cambiamenti e che nel sentirsi potente e onnipotente investe tutto.
Una lotta tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere, per appartenenza di genere: l’uomo forte che se non può esercitare il suo ruolo si sente inferiore, inadeguato, si aggrappa alla violenza come strumento per ristabilire il suo controllo e rivendicare la sua superiorità. Una competizione da vincere assolutamente.
La difficoltà di essere uomo e di parlarne apertamente. La difficoltà a gestire il rapporto con l’altra in modo sereno e paritario. Una constatazione a cui giunge Marco: “Ho poche certezze, ma questa è una di quelle. So di che parlo: le donne sono più forti, è nella loro natura, mentre noi, io?”
L’incapacità di affrontare le difficoltà e il non avere un solido baricentro, ma appoggiarsi sempre a qualcos’altro, che diventa anche un paravento, una scusa, un modo per non affrontare le cose. E se non va, allora è meglio distruggere tutto e tutti.
La disconnessione tra ciò che si sente e la sua definizione, la possibilità di nominarlo e dargli esistenza. La sordità ai sentimenti, di guardarli in faccia, di analizzarli al momento opportuno.
Uomini che non sono in grado di gestire le emozioni e non riescono a comprenderle. In più c’è l’abitudine a cercare alibi, a deresponsabilizzarsi ad ogni costo. E non è sufficiente richiamare episodi dell’infanzia per spiegare certe azioni. Nel testo ci sono tutti i principali stereotipi che spesso accompagnano le vittime e tutti gli escamotage per “sollevare” il femminicida da una piena responsabilità e scelta dell’atto. C’è una narrazione che cerca di far emergere efficacemente cosa accade nel flusso di coscienza e mentale di un uomo violento.
Le donne per anni cercano di ricucire strappi, ferite. Ma alla fine appare tutto chiaro e da questo disvelamento si può intraprendere un cammino differente, di liberazione.
La decisione di Laura di essere libera da tutti è dirompente: “Per una volta nella vita voglio rimanere sola con me stessa. (…) la vita mi faceva paura. Ora sono stanca di avere paura, voglio vivere.” – “voglio dimostrare a me stessa che posso farcela da sola, che non ho bisogno di un uomo..” La stessa decisione a cui arriva sua figlia maggiore Zoe, imprigionata in un matrimonio intriso di violenza psicologica e profondo annichilimento.
La sopravvivenza delle donne alla violenza e le forme di resilienza che sono capaci di mettere in atto. Tante sono le sfumature e i punti che vengono scandagliati in questo libro, che ha il pregio di tenere insieme tutti gli aspetti psicologici, esperienziali connessi alla violenza, alle sue varie forme, tracciando una linea che riesce a mostrarne la connessione. Non è facile parlare di radici culturali della violenza, non è scontato che si riesca a trasmettere in cosa consistono concretamente. L’autrice ci riesce e dissemina il suo lavoro di tanti sassolini utili a risalire ad esse.
La scelta del titolo del libro non è casuale, l’autrice ne esplicita il senso, affidandolo alle parole racchiuse nel diario Laura:
“(Medusa) se c’è un simbolo della guerra di genere, questo è rappresentato dal suo mito. È così semplice e così triste allo stesso tempo. Lei, come la grande madre, è la natura da combattere, è l’inconscio da controllare. È stata trasformata in un mostro, nel Male con la lettera maiuscola. La sua è una storia scritta dai vincitori, come sempre accade, invece io vorrei provare a scrivere quella dei vinti”.
“La natura è duale. Rappresenta sia il bene sia il male; è la Grande Madre, l’origine di tutto, il mistero che alberga dentro di noi.” (…) “Lentamente l’abbiamo sottomessa e abbandonata, poiché abbiamo contrapposto il corpo allo spirito, l’istinto alla ragione. I sensi ci sono apparsi come pulsioni da combattere, da reprimere, da controllare, il corpo è diventato sinonimo di male e lo abbiamo contrapposto alla razionalità, allo spirito, all’ideale, al bene, così il serpente, che a volte assume l’aspetto di un drago, è diventato l’emblema dell’elemento ostile della natura, la morte.
La mitologia descrive la sconfitta e il superamento della cultura e della società matrilineari da parte del patriarcato: il motivo ricorrente è quello della divinità maschile che si sostituisce a quella femminile con la violenza, rappresentato dal giovane eroe che uccide un demone dai connotati femminili.
Nella Grecia antica il mito ha diverse rappresentazioni: Eracle e Idra, Cerbero e Neméa, e, infine, Perseo e Medusa.
Medusa personifica l’elemento distruttivo della Grande Madre e la divinità maschile si proclama generatrice universale e salvatrice, perché afferma di salvare il mondo dal caos, sinonimo di femminile.”
(…)
“La Bibbia c’insegna che all’origine del male ci sono il serpente e la donna che, come nei miti greci e babilonesi, è servita a sostenere l’orgoglio maschile, a sviluppare un sentimento di vergogna per tutto ciò che è femminile: è Pandora, responsabile dei mali del mondo. Troppo vicina al mondo animale. È questa la percezione maschilista, la strega da bruciare sul rogo. Siamo state spaccate a metà, la santa e la madre, la puttana e la strega.”
Laura non ama il soprannome “Medusa”: “a me non piace, perché non mi piace cosa le è stato fatto. Lei non è il mostro, ma una proiezione di ciò che abbiamo dentro. Il drago è la nostra ombra. Sarebbe meglio per tutti prenderne coscienza. Non è la natura a essere colpevole, ma il nostro spirito di onnipotenza, ovvero un’illusione, perché, comunque vada, presto o tardi saremo tutti morti.”
(…)
“Sarebbe ora di dirlo: Perseo non è un eroe, è un assassino, e dovrebbe almeno chiederle perdono.”
Insomma, è ora di raccontare cosa si nasconde dietro ai miti e alla costruzione di una cultura che di fatto ha legittimato e tramandato nei secoli modelli di una maschilità violenta e decisa solo a dominare e a sottomettere le donne. Attraverso l’esaltazione di certe figure, e la costruzione di miti (normalizzazione e ingresso nella cultura), si sono sostenute prassi e comportamenti violenti. Ci siamo dentro da secoli, vi siamo immersi, uomini e donne. Facciamo entrare la luce.
Per chi andrà al Salone Internazionale del libro di Torino, si terrà una presentazione de L’ombra di Perseo il 10.05.19 alle 19.30 – sala Romania.
2 commenti
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non tutto nel mito è da buttare, vediamo cosa si può manteere e cosa no