Eccoci alla terza tappa di questo viaggio di approfondimento nel mondo del lavoro e sulla partecipazione femminile ad esso. Un modo per provare a colmare un certo silenzio attorno a questi aspetti, oltre le nicchie e gli addetti ai lavori.
Lo ripetiamo da anni che la scarsa occupazione femminile ha dei riflessi enormi sull’efficienza delle infrastrutture del fare impresa, con evidenti perdite in termini di ricchezza.
Avevo scritto qui un’analisi, comprensiva di dati.
Secondo “Il lavoro a Milano”, il rapporto annuale realizzato da Assolombarda, CGIL, CISL e UIL, che raccoglie i dati sul mercato del lavoro e ne traccia l’andamento:
“Negli ultimi 10 anni l’identikit del lavoratore è profondamento cambiato. Dal 2008 al 2018, infatti, sono cresciuti in modo considerevole tra gli occupati le donne (+125mila), i laureati (+320mila) e gli over45 (+700mila). Sono, invece, diminuiti di mezzo milione i giovani.”
Il lavoro cambia, in funzione dell’evoluzione tecnologica e dell’andamento demografico, all’insegna della flessibilità e di una crescita delle occupate, che beneficiano proprio delle tecnologie digitali. Importante il titolo di studio e le competenze 4.0.
Chiaramente, a fronte di questa tutto sommato positiva rappresentazione, non possiamo far finta di aver superato le solite note dolenti italiane: instabilità del lavoro, alta incidenza del part-time (spesso involontario), segregazione in settori a bassa remuneratività, persistenza di carriere “spezzate” con periodi di inattività per potersi occupare di compiti di cura di figli o familiari non autosufficienti.
Abbiamo partecipato, lo scorso 9 maggio, alla presentazione dell’indagine 2018 (biennio 2016-2017) sull’occupazione maschile e femminile in Lombardia, nelle imprese con più di 100 dipendenti, a cura della Consigliera di Parità regionale della Regione Lombardia Carolina Pellegrini, con la collaborazione di PoliS-Lombardia e dell’Istat.
È la prima volta che i dati vengono raccolti dal Ministero del Lavoro, quindi centralmente a livello nazionale (in passato ciascun Ufficio delle Consigliere di Parità si occupava di raccogliere i questionari). Le rilevazioni vengono poi rielaborate a livello territoriale per le relative analisi. Questo tipo di raccolta ha sempre destato una certa ostilità da parte delle imprese, che lo hanno percepito come un ulteriore peso e adempimento burocratico. Inoltre, nonostante i tentativi a livello regionale, a livello nazionale non si è prodotta alcuna revisione del questionario che è stato somministrato per l’ultima rilevazione: eppure nel corso degli anni il mondo del lavoro è cambiato ed è più che necessario adeguare questo strumento a questo mutamento.
Si rilevano alcune criticità:
“Come Ufficio di Regione Lombardia, fino a quando la raccolta dati era diretta, abbiamo sempre cercato di aggiornare il questionario sia con i riferimenti normativi più recenti, ma anche arricchendolo inserendo altre domande per evidenziare dati che ci permettessero una lettura più completa circa l’attuazione delle pari opportunità e delle azioni positive che hanno una ricaduta sulla vita delle donne e degli uomini nell’ambito lavorativo (si pensi alle azioni di welfare aziendale, di modalità organizzative flessibili ed altro che molte aziende stanno implementando da anni soprattutto in Regione Lombardia).
Rimangono inoltre le stesse difficoltà circa la verifica della correttezza e veridicità dei dati inseriti (formazione e retribuzione in primis come si evincerà dell’elaborazione fatta da Polis). Tra le criticità segnaliamo che non è stata trovata ancora una soluzione sull’inquadramento professionale (è impossibile ridurre a quattro categorie i lavoratori e le lavoratrici) e che ancora la raccolta avviene per azienda in base alla sede legale e non in base alle sedi operative e quindi, soprattutto questa seconda criticità, ha certamente un impatto pesante nella valutazione dei dati sull’occupazione.”
La consigliera di parità regionale Carolina Pellegrini ha auspicato che i dati raccolti vengano non solo letti, ma adoperati per conoscere da vicino la situazione occupazionale e per mettere in campo politiche che possano colmare gli attuali divari nel mondo del lavoro.
Federico Rapelli di PoliS-Lombardia si è proprio soffermato su quelle che sono le criticità del sistema, dal gender gap, differenze retributive alla presenza di donne ai vertici aziendali con tutte le difficoltà del caso, gli adempimenti dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite dalle quali siamo lontani.
Dario Ercolani di Istat ha illustrato nel dettaglio campione e risultati del rapporto, che ha coinvolto 2.953 imprese, al 31/12/17, il 90% delle imprese sopra i 100 dipendenti, lo 0,4% delle imprese lombarde registrate nel 2016 (l’1,1% delle imprese con dipendenti). Si auspica che si ampli la platea di aziende coinvolte, scendendo al di sotto dei 100 dipendenti, in modo tale da fornire una mappatura più rappresentativa. Ovviamente, occorre semplificare procedure e questionari.
Preponderante il settore dei servizi. Il 51% dei dipendenti è inquadrato come impiegato. Si rileva: una minore partecipazione femminile al lavoro nelle imprese esaminate (elevata rispetto al dato nazionale, ma bassa se comparata ai livelli europei), una bassa presenza nei livelli apicali (per contratto e per qualifica professionale) e il consueto svantaggio salariale (18,2%) che aumenta se cresce la qualifica professionale. A tal proposito vi ricordo una proposta di legge regionale a prima firma Paola Bocci, qui un approfondimento.
Gli uomini sono sempre in misura maggiore per quanto riguarda le promozioni, alle donne in totale spettano il 39,8% del totale (73.500 circa, nel 2017). Il part-time ovviamente è ad alta incidenza femminile, sia nei contratti a termine che a tempo indeterminato, con una rilevante segregazione in ambiti meno remunerati. Nella trasformazione di tipologia contrattuale, le donne hanno tassi più elevati degli uomini per passaggio da full a part-time e minori per passaggi da determinato a indeterminato, oltretutto difficilmente passano da part a full-time.
La formazione delle donne è inferiore a quella degli uomini nei livelli operai/impiegati, mentre cresce tra i quadri e i dirigenti.
È evidente che sussistono profondi gap di genere e che si dovrebbe indagare maggiormente incrociando i dati di varie rilevazioni fatte da più enti, su aspetti quali età, istruzione, anzianità professionale.
A seguire questa prima parte illustrativa del rapporto, si è cercato di approfondire uno degli aspetti di cui si occupa la figura della Consigliera di parità: come cambia il rapporto di lavoro dopo la maternità, quali discriminazioni vengono messe in atto. È sicuramente una delle cause più rilevanti di ricorso alla consigliera, è un fenomeno conosciuto da anni, eppure né i numeri delle dimissioni volontarie, né i casi che ogni anno vengono segnalati, sono stati sufficienti negli anni per sollecitare interventi efficaci di prevenzione e di sostegno alla conciliazione.
Il tema dell’occupazione femminile è cruciale nella scelta di fare un figlio e l’impatto sulla natalità è innegabile. Lo stesso vale per quanto riguarda la precarietà, che spinge sempre più in là nel tempo la decisione di diventare genitori. Il grafico che ci ha illustrato Letizia Mencarini, demografa della Bocconi, ci mostra esattamente quanto la scarsa occupazione del Sud sia arrivata a incidere anche sul numero di figli. Il pay gap di genere poi ha un effetto dirimente su chi deve restare a casa per prendersi cura dei figli.
Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, esordisce evidenziando come la politica dovrebbe mettere al centro le scelte delle persone, facendo in modo che si possano armonizzare e non venire messe in contrapposizione tra loro, creando un aut aut tra scelte, e riducendo il loro grado di benessere.
Si dovrebbe lavorare per ridurre le disuguaglianze e di conseguenza ingenerare meno rinunce e meno scelte al ribasso. A tal riguardo occorre permettere alle donne di lavorare, di essere e sentirsi valorizzate, scegliere di fare figli, potendo conciliare entrambe le cose, senza penalizzazioni. Per fare ciò si devono mettere in campo misure non solo per le famiglie di oggi, ma per quelle che arriveranno in futuro.
La Lombardia ha anticipato il declino della fecondità a livello nazionale, ma anche in linea con paesi come la Svezia. Nel 1995 è stato registrato il punto più basso, 1 figlio per donna; nel 2010 c’è stato un recupero (anche grazie all’immigrazione): 1,57 figli per donna. Oggi la Lombardia è allineata al resto delle regioni per riduzione del tasso di fecondità.
Ma mentre la Svezia ha intercettato le cause per tempo ed è intervenuta per sostenere l’occupazione femminile e i servizi di conciliazione, ottenendo un buon risultato, da noi ciò non è avvenuto. La crisi ha congelato qualsiasi intervento ad hoc ed oggi il clima di incertezza non aiuta di certo. Di fronte a una scelta che investe e responsabilizza a vita, si sospende la scelta: un rinvio che rischia di diventare definitivo. Finché tale scelta è veramente libera, non si desidera avere figli è pienamente legittima, ciò che qui si discute è quando è indotta da un contesto ostile, per cui è inconciliabile tenere insieme figli, lavoro, costi abitativi ecc.
Qui si tratta di “sbloccare” i progetti di vita delle persone, qualsiasi essi siano. Esempi, strumenti che ci arrivano dall’estero o da territori virtuosi li abbiamo, occorre sperimentarli, aggiustarli e adattarli alle specificità locali. Rosina parla di “far diventare di successo, vincente la scelta di fare figli, mettendo in campo un processo che di autoalimenti, misure da monitorare e da correggere man mano.” Ritorna il sistema dei servizi di cui parlavo qui.
Francia e Germania hanno stanziato le risorse necessarie per far funzionare il sistema di sostegno alle famiglie e per raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati (in termini di copertura dei servizi per l’infanzia e strumenti di conciliazione). Non si cambiano le cose stanziando un obolo e sperando che sia sufficiente, occorre analizzare la situazione contingente e allocare le risorse adeguate che permettano di ottenere determinati risultati.
Qui un approfondimento sulla Germania.
La situazione italiana vede la crescita di famiglie monogenitoriali, con ulteriori difficoltà di conciliazione. La riduzione del numero di donne in età riproduttiva (derivante dalla scarsa natalità dei decenni precedenti) produce una ulteriore flessione della natalità.
Seguire gli investimenti fatti in altri Paesi significa ridurre la disuguaglianza e aumentare il grado di benessere della cittadinanza tutta. Rosina avverte che se non si interverrà ci sarà una ulteriore flessione del numero di figli per donna, invecchiamento della popolazione, squilibri demografici (attivi/inattivi), minor occupazione femminile e valorizzazione del capitale umano femminile, minore crescita economica, meno reddito a disposizione delle famiglie, maggiore rischio o incidenza di povertà (economica che si riverbererà su quella culturale, con evidente ciclo negativo sulle future generazioni).
Pensare a questo tipo di decisioni sempre come dei “costi” anziché considerarli come investimenti per il futuro, non permette di interrompere un ciclo negativo che riduce la fiducia sempre più. Senza certezze, politiche e misure stabili, servizi di qualità su cui contare, è evidente che si riduce la speranza che il futuro possa essere migliore del presente.
L’ingresso nella vita adulta è sempre più complesso e le politiche varate non aiutano a costruire un clima di fiducia, né una minima prospettiva dalla quale partire.
La consigliera di parità regionale supplente, Paola Mencarelli, evidenzia come la mancanza di azioni correttive nel presente avrà pesanti ricadute sul sistema di welfare e pensionistico su tutti noi.
Certamente pesano anche retaggi culturali difficili che vedono la donna farsi ancora carico della maggior parte del lavoro di cura, con carriere lavorative “a singhiozzo” e tempi di lavoro ridotti per poter conciliare.
Tanti i nodi e gli spunti di riflessione e di azione concreta, ma occorre che trovino ascolto.
“L’auspicio è anche che le Istituzioni si servano maggiormente dei dati e dei Rapporti per aggiornare e implementare le misure a sostegno dell’occupazione femminile” conclude Carolina Pellegrini.
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