Dopo aver affrontato, nel suo primo romanzo Lo sconosciuto, il tema della violenza sulle donne, Elena Cerutti – medico internista e scrittrice – torna in libreria con un testo altrettanto coraggioso: Il cappello di Mendel (Golem Edizioni, 2019), in cui tratta argomenti forti come la malattia, la morte, le incomprensioni familiari. Per darci però, in ogni caso, un messaggio di consapevolezza e di speranza.
Perché Elena, a dispetto delle origini immerse nelle nebbie piemontesi, è e si definisce una creatura solare. E con il suo libro ci permette di attraversare con leggerezza le vicissitudini della protagonista, donna del nostro tempo con un divorzio alle spalle e un compagno ancora innamorato nonostante l’abbia tradita, due figli in bilico tra l’ansia di indipendenza e la richiesta implicita di cure parentali, una madre troppo giovanile e invadente nel suo accudimento, un lavoro di responsabilità e di prestigio che le impedisce di fermarsi.
Sarà proprio l’improvvisa scoperta di un tumore a costituire il punto di svolta per Giulia, che si troverà a dover mettere punti fermi alla sua vita, in tutti i campi. E a prendere in mano un metaforico album dei ricordi, per sfogliarlo alla ricerca del suo passato, e dunque di se stessa
Le abbiamo chiesto di parlarci del suo libro, che ha già vinto il Premio Letterario FADOI Village dell’Associazione Internisti Italiani nel 2018 e ha ottenuto il terzo posto al Premio Letterario Internazionale Città di Cattolica nel 2019.
Sei nata nel canavese, ma hai scelto di vivere a Torino, città verso la quale dici di provare “un’attrazione fatale e magica” e che fa da sfondo, insieme alle colline piemontesi, alle vicende dei tuoi personaggi. Oggi che la vivi anche da scrittrice, pensi che Torino, patria del Salone Internazionale del Libro e di un infinito numero di scrittori famosi, oltre che della Scuola Holden (che tu stessa hai frequentato), sia il luogo ideale perché un autore possa farsi conoscere?
Io penso che Torino abbia quel giusto mix di antichità e modernità, realtà e superstizione (da sempre è considerata parte del triangolo magico europeo, costituito da Torino-Lione-Praga e sede di possibili attività riguardanti la “magia nera”), che la rendono scenario ideale per romanzi soprattutto noir o urban fantasy. Ma è anche adatta a cast di film, che sempre più sovente vengono girati e ambientati in questa città. Al contrario di altre grandi città, come Milano, è un luogo dove è facile conoscersi e incontrarsi, come se fosse rimasta, nell’intimo, un grande paese. Le Olimpiadi del 2006 le hanno dato un tocco di internazionalità che, ahimè, si sta perdendo in questi ultimi anni. La crisi conseguente ha ingenerato anche il rischio di perdere il ‘nostro’ Salone del Libro (come già in passato avevamo perduto il Salone dell’automobile o Cioccolatò) perché i torinesi sono bravi a far nascere eventi, ma altrettanto a farseli portare via. Per fortuna la testardaggine dei piccoli editori indipendenti ha evitato lo sfacelo. E ora anche le grandi case editrici sono tornate a Torino. Dal 2015 ho avuto modo di presentare i miei romanzi nell’ambito di diverse manifestazioni a Milano, Modena, Genova (Book city, Book Pride, Buk e altre), ma l’emozione provata al Salone di Torino è stata indescrivibile. Per me rimane il più grande traguardo raggiunto. Dunque la risposta non può che essere positiva.
Il tema di fondo de Il cappello di Mendel è l’influenza della storia familiare sulle relazioni e sulla salute delle persone, così come spiegato dalla psicogenealogia, una corrente della psicologia transgenerazionale. E alla fine del romanzo descrivi i rapporti tra i familiari di Giulia, la protagonista, con un genogramma, strumento usato in ambito sistemico-relazionale. Come ti sei avvicinata a queste tematiche?
Nella mia vita, attraversata da parecchie vicissitudini, ho avuto modo di approcciarmi al mondo della psicologia, tracciando diversi percorsi. Ho perciò incontrato nel mio cammino una psicologa specialista in psicologia transgenerazionale, Leandra Perotta. Una delle allieve più importanti di Anne Ancelin Schutzenberger, la geniale ideatrice di questa interessante teoria psicoanalitica. A ciò aggiungasi la mia curiosità, dote molto femminile, che mi ha indotto a leggere libri scritti dalla Schutzenberger (in particolare La sindrome degli antenati e Una malattia chiamata genitori) e a cominciare a elaborare la mia storia in base a quella della mia famiglia. Il sociogenogramma è un albero genealogico che tiene conto, oltre che dei legami di parentela esistenti, anche del ripetersi di particolari traumi psichici e fisici nelle varie generazioni, come in un passaggio di consegne. Ciò mi ha fatto comprendere come nelle generazioni non si trasmettano solo le caratteristiche fenotipiche (il colore degli occhi, la forma del viso, e così via), ma anche le caratteristiche caratteriali e comportamentali. Non è un caso che la protagonista del romanzo sia, come il nonno, medico e scrittrice. A ciò si aggiunga un’altra coincidenza o, se vogliamo dirla alla Jung, una sincronicità: il mio editore è uno psicoanalista e tra i suoi autori annovera Maura Saita Ravizza che si occupa di psicogenealogia junghiana e scrive saggi sull’argomento pubblicati da Golem. Quando gli ho proposto Il Cappello di Mendel ne è rimasto entusiasta.
La partecipazione emotiva che accompagna le vicende dei tuoi personaggi fa intuire al lettore che si tratti di una storia realmente vissuta. E la conferma arriva alla fine. Ma quanto c’è di verità e quanto di finzione narrativa nel tuo romanzo?
Le vicende storiche sono del tutto reali. In parte risalgono ai miei ricordi di bambina, quando i nonni e la mamma mi raccontavano le vicende dei nostri avi. In parte dipendono da un’accurata ricerca delle fonti, che mi ha impegnata in una lunga e laboriosa indagine. La vicenda attuale è invece di fantasia, anche se i personaggi sono ispirati alla realtà. Tutti i protagonisti sono persone che conosco bene. A loro mi sono ispirata per raccontare le relazioni intercorrenti tra i vari membri della famiglia. Ritengo infatti che per trasmettere emozioni sia importante si raccontino storie vere o verosimili. Per evitare conflitti e confusione ho poi scelto di chiamare i personaggi del passato con i loro veri nomi, mentre a quelli del presente ho riservato nomi di fantasia.
La copertina del libro, una bella foto di Giordano Armellino, ti ritrae allo specchio, mentre accarezzi il cappello che rimanda al titolo, che non appartiene ovviamente a Mendel, ma… a tuo nonno Giacomo? Che, nel racconto, è una presenza forte. Lo è stata nella tua vita, trasmettendoti la sua passione per la scrittura?
Il cappello è una feluca goliardica, di quelle che si usavano durante le feste negli anni universitari. Il colore rosso distingue gli studenti di medicina. La fotografia che Giordano Armellino mi ha voluto donare è stata frutto di una ricerca e di molti tentativi che, alla fine hanno portato al risultato desiderato: un’immagine in grado di esprimere l’essenza del romanzo. Mio nonno Giacomo è stato, indubbiamente, il vero artefice di questo libro, mentore silenzioso e prezioso. Le sue vicende, nonché la passione che ha saputo trasmettermi per la medicina e per la scrittura hanno rappresentato la fonte di ispirazione. Mio nonno era un medico condotto, uno di quelli che lavorava nel territorio canavesano ventiquattrore ore su ventiquattro, senza festività e senza recuperi. Sapeva fare di tutto, persino il dentista e l’ostetrico. All’occorrenza aiutava anche i contadini a far partorire le vacche. Durante la seconda guerra mondiale ha combattuto pur non essendo al fronte, rischiando la vita ogni qualvolta curasse il “nemico”, potendosi trattare di partigiani come di repubblichini. Ma la sua grande passione era la scrittura. Ha scritto novelle, liriche, romanzi, pezzi teatrali, tutte edite SEI. Ricordo Vita di Medico condotto e Vita goliardica (ecco il riferimento alla feluca), i miei preferiti. A lui, dopo la sua morte, sono state dedicate due vie a San Giorgio Canavese e ad Agliè e un premio letterario che si è svolto fino al 2008. Rimane, tuttora, a quarantaquattro anni dalla morte, un personaggio indimenticato nel nostro territorio.
Ne Il cappello di Mendel affronti una tematica molto delicata: la protagonista scopre infatti di avere un tumore. Pensi che il modo in cui descrivi il suo percorso, sia nella malattia che in famiglia, possa essere di stimolo e di aiuto per tre donne in situazioni simili?
La mia professione, ma anche alcune vicende personali che mi hanno visto alle prese con la grande malattia del secolo, mi hanno indotta a riflettere su alcuni elementi psicologici (l’iniziale non accettazione e la conseguente disperazione, seguite dall’accettazione e dalla speranza) che accomunano i malati di cancro. E che ho voluto riprodurre, cercando di comprenderli e descriverli, senza giudizio. Mi auguro di essere riuscita a trasmettere la speranza, la voglia di non arrendersi mai. Perché la forza vitale deve prevalere sempre, come una pianta che, maldestramente potata, continui a emettere germogli. Un altro messaggio che vorrei passare è che il tempo è relativo. Spesso noi evitiamo di soffermarci sul presente, rimandiamo. La malattia può essere lo strumento che ci consente di fermarci e riflettere sulle nostre relazioni. Di aiutarci a capire quali sono i meccanismi che non funzionano, tentando di aggiustarli quando e per quanto ci sia possibile.
Come Giulia, sei medico in un grande ospedale torinese. Ma a differenza di lei, che con la scrittura ha un rapporto conflittuale, hai composto racconti e romanzi sin dalla gioventù. E oggi fai parte dell’Associazione Medici Scrittori Italiani, l’AMSI, di cui curi il sito web. Ci vuoi parlare delle vostre attività?
Anche l’entrare a far parte dell’AMSI è stato un passaggio obbligato, essendo mio nonno Giacomo uno dei primi membri dell’associazione, nata negli anni cinquanta da un’idea del chirurgo Dogliotti (anch’egli torinese). L’AMSI, di cui fanno parte un centinaio di medici scrittori italiani che abbiano pubblicato almeno un libro, e di cui uno dei soci emeriti è Andrea Vitali, si occupa di promuovere la cultura in tutta Italia e anche all’estero, soprattutto in Francia con la cui associazione siamo gemellati. Attualmente la presidente è Patrizia Valpiani, medico odontoiatra, anche lei torinese (seppur di adozione), con la quale condivido la casa editrice. Nell’ambito dell’associazione si organizzano manifestazioni culturali, congressi, si scrivono antologie di gruppo ma, soprattutto, si cerca di trasmettere la passione per la scrittura che, come è noto, ha un’importante valenza curativa. Seguiteci sul sito web, di cui mi occupo personalmente, per conoscere le nostre attività o per iscrivervi come amici e simpatizzanti.
Fin da ragazzina hai vinto premi letterari, ma la celebrità è arrivata con Lo sconosciuto, il tuo romanzo sulla violenza domestica finalista al Premio Mario Soldati 2012 e concorrente al talent per scrittori Masterpiece, nel quale sei stata selezionata tra 5000 concorrenti. A distanza di alcuni anni, rifaresti l’esperienza televisiva? Quanto pensi che conti, per una scrittrice, la visibilità immediata che può dare la tv? E quella dei social?
L’esperienza televisiva è stata più un divertimento che altro. Il format di Masterpiece, simile a quello di Masterchef, è stato disastroso, tant’è che la trasmissione non ha avuto seguito e i vincitori sono rimasti illustri sconosciuti. Mi farebbe invece piacere partecipare a una trasmissione televisiva in un contesto diverso, nel quale si parli di libri e di cultura e non ad assurde gare. Il mio sogno sarebbe essere intervistata da Fabio Fazio a Che tempo che fa, ma, al momento, è irraggiungibile. I format culturali in cui si parla seriamente di libri sono passerelle importanti, in grado di far raggiungere visibilità e far vendere su larga scala.
Cosa desidera oggi, per la sua vita e per la sua carriera letteraria, Elena Cerutti, medico scrittrice?
Sono in procinto di scrivere un terzo romanzo. Ho già tutti gli elementi, la struttura, i personaggi. Ora devo trovare il tempo, elemento indispensabile e raro, dato il mio lavoro e la famiglia cui badare. Mi auguro altresì che sia Lo Sconosciuto che Il Cappello di Mendel continuino il loro percorso in ascesa e, magari, di vincere, dopo il Premio città di Cattolica e Città di Pontremoli, altri premi letterari anche più prestigiosi.
Elena Cerutti, Il cappello di Mendel, “Mondo” n° 41, Golem Edizioni, 2019, pp. 256, €16.50