Rappresentazione della politica: che cosa significa essere donne? Il punto di partenza delle artiste femministe è il loro essere donne.
di Elena Bray
Che cosa vuol dire essere donna? E’ difficile rispondere a questa domanda: le narrazioni, che nella storia sono state narrazioni maschili, non permettono di sondare adeguatamente questa definizione. Le donne, come i folli, sono state fatte risiedere nelle periferie della città, e ci si è dimenticati di includerle nella mappa di questa. Ecco che così raccontarsi, a partire dalla propria esperienza quotidiana, diventa un atto di sovvertimento del sistema. Queste artiste si incontrano, si parlano, si scambiano il proprio vissuto e iniziano a tracciare una storia della donna. La connessione tra personale e politico diventa manifesta.
La domanda che a questo punto sorge spontanea è: questa condizione è irreversibile? No, è possibile creare un politico differente che modifichi la condizione di violenza quotidiana sulla donna. Per farlo le . Rappresentazione della politica: che cosa significa essere donne?
Simone de Beauvoir nel 1949 scrisse “Secondo sesso”. In questo testo l’autrice afferma che il rapporto che intercorre tra il sesso maschile e quello femminile non è quello che intercorre tra due poli opposti. L’uomo maschio rappresenta sia il polo negativo che quello positivo (tant’è che diciamo “uomo” per indicare la razza umana). Invece la donna rappresenta solo il polo negativo, per cui ogni qualvolta ci riferiamo ad una donna, il suo essere donna dev’essere marcato (e quindi se ci riferiamo agli esseri umani in quanto donne, diremo donne). Ecco l’universalismo, che è universalismo maschile, trovato nell’introduzione. La lettura di “Secondo sesso”, come ricorda la Wilding, fu una costante nei cicli del “Feminist art program” (FAP) e nei diversi circoli femministi degli anni ’70. Le artiste femministe iniziavano a prendere così coscienza che la storia degli uomini era in realtà la storia del genere maschile.
E qual è la storia delle donne? Non si trova nei libri di storia e neppure nei giornali: capiscono di doverla scrivere loro. Iniziano ad affrontarla dal quotidiano, dalle proprie esperienze vissute. Nascono i seminari di auto-coscienza.
“Il FAP compì un radicale allontanamento dalla tradizionale istruzione artistica, e questo in molti sensi. Soprattutto era basato sull’analisi dei contenuti di ciò che oggi chiameremo la costruzione sociale del genere femminile, come esso emergeva dai seminari di autocoscienza. L’autocoscienza ci aiutò a scoprire gli elementi comuni delle nostre esperienze in quanto donne, e ad analizzare come le nostre esperienze fossero condizionate dalla costruzione del genere. La procedura consisteva nell’andare “in giro” per la stanza ad ascoltare ogni donna parlare della propria personale esperienza riguardo degli argomenti come il lavoro, i soldi, la sessualità, i genitori, le dinamiche di potere, il vestire, l’immagine del corpo o la violenza. Sentendo ogni donna parlare appariva chiaramente che le esperienze non erano puramente “personali”; scoprimmo una comune oppressione basata sul genere”.
Non bisogna sottovalutare la portata dei seminari di auto-coscienza. Furono alla base dell’arte femminista non solo al FAP, ma in tutte le esperienze di quegli anni. La loro funzione era molteplice: non solo servivano a mostrare la stretta connessione di personale e politico, ma era anche uno strumento di solidarietà. Le donne, condividendo le proprie esperienze, si sentivano finalmente ascoltate e comprese, e trovavano nelle loro colleghe delle compagne (“women as a group”).
A questo punto, come mostra il testo della Wilding, il passaggio tra esperienza quotidiana e oppressione sistemica di genere risultava spontaneamente necessario (non per nulla uno dei motti più famosi fu “il personale è politico”). Quello che emerse dalle discussioni fu che tutte le donne avevano ricevuto violenze fisiche (all’interno della dimensione domestica, sul lavoro, o in situazione di debilitazione): la società machista legittimava, operandola e nascondendola, la sopraffazione fisica. Queste azioni violente erano perpetrate perlopiù in luoghi poco visibili (in casa, in ufficio, nei vicoli bui delle strade), e questo aspetto mostrava ancora più chiaramente la ferocia del sistema: lo si poteva fare, ma non lo si doveva far vedere, cosicché risultasse un caso di giustizia privata e non pubblica. La portata della critica femminista si mostra così in tutta la sua dirompenza – dire che il personale è politico significa qui dire che quello che succede a casa tua (casa in senso simbolico), la violenza che ti perpetra tuo marito, tuo padre, il tuo capo, tuo fratello, non succede solo a casa tua, ma in tutte le case, e questo perché la società legittima e nasconde questo modo di relazione dell’uomo con la donna. Ma dalle discussioni emersero anche tantissime altre cose, come le aspettative della società; il ruolo della donna doveva essere legato a quello di supporto di un uomo, a casa come casalinga e sul lavoro come assistente. O come il modo di vivere la propria sessualità; il fatto che la donna fosse dipinta come passiva e l’uomo come attivo perpetrava l’idea che, da una parte, l’uomo dovesse prendere la donna attraverso la violenza sessuale e, dall’altra, che la donna non avesse reali bisogni fisici (“Non avevamo mai parlato dei “nostri” bisogni fisici prima e non eravamo neanche sicure di averne!”). O come il dover apparire efficienti, se si voleva essere all’altezza di un compito (“Ero distrutta, e credevo che fosse perché non ero abbastanza brava per destreggiarmi tra lavoro in università, lavori domestici e il lavoro di madre”).
Dai racconti personali si passava ad una prospettiva di tipo sociale, e dall’analisi della società contemporanea si passava ad una critica di tipo storico. La critica femminista alla storia aveva una doppia funzione: da una parte raccontava la storia di una oppressione, ma dall’altra permetteva di conoscere e celebrare chi si era opposto a tale oppressione. Per dirla con le parole di un grande autore: “Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa con il nome di patrimonio culturale. […] Non è mai un documento della cultura senza essere insieme il documento di una barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro”. Ecco allora che le nostre femministe devono unirsi e “spazzolare la storia contropelo”.
Da quanto trattato sino a qui vediamo che il cuore delle riflessioni dell’arte femminista è la donna. O meglio: le donne. La dimensione di collettività attraverso cui vengono affrontate, analizzate e riformulate le tematiche merita ancora qualche parola. Nei seminari di autocoscienza, nei workshop e nelle diverse esperienze artistiche non erano ammesse a partecipare solo le artiste, ma tutte le donne. Le donne non solo erano il nucleo teorico fondamentale, ma anche pratico, per cui era importante che ognuna partecipasse per aggiungere la propria prospettiva, la propria storia. Era iniziata l’epoca di liberazione della donna fatta dalle donne, e che in questa rivoluzione fosse necessario essere unite era cosa chiara a tutte. La solidarietà di genere era così da un lato l’arma da usare contro il nemico esterno (riappropriazione delle narrazioni, della storia …), ma dall’altro anche ciò che permetteva la coesione interna del gruppo. Questo aspetto fu talmente centrale che modificò il modo stesso di fare arte delle artiste femministe. Innanzitutto fecero battaglia allo stereotipo del genio creatore, che dall’800 in poi si era imposto: l’opera d’arte non era più il prodotto dell’azione di un artista, ma di molte artiste. Queste, senza rivalità, collaboravano orizzontalmente nella sua produzione. Poi, come dicevamo, coinvolsero nei loro progetti anche le non artiste.
Esperienza artistica dell’essere-insieme: insieme nel fare arte, sperimentarsi insieme facendo arte.
Per completare la discussione circa il concetto di donna, e del suo significato nell’arte femminista, c’è un’ultima questione che dev’essere affrontata. La donna è costrutto sociale o naturale? La prima teoria (che chiameremo teoria costruttivista) afferma che l’identità di genere è qualcosa di determinato e costruito “artificialmente” dalla società. Questo significa che se le donne hanno delle aspettative, un modo di vedersi, un ruolo nella società, ciò è costituito dalla società stessa e non è intrinseco alla loro natura. “Donne non si nasce, ma si diventa”. Da questo presupposto si deduce che se le condizioni che pone la società fossero diverse, anche le donne (e gli uomini) sarebbero diverse. La teoria essenzialista afferma che l’identità di genere ha un fondamento biologico ineluttabile, per cui le donne avranno sempredelle cara
tteristiche in comune perché posseggono una struttura fisica comune. La prima teoria è fondata sulla divisione tra genere e sesso, la seconda sulla loro convergenza. Le artiste femministe degli anni ’70 vennero accusate di essenzialismo, e questo aspetto ha sicuramente inficiato la loro ricezione (le femministe stesse oggi guardano con un po’ di imbarazzo le vagine della Chicago, che sembrano affermare la supremazia dell’organo riproduttore femminile). La tesi di questo scritto è che questa dicotomia tra essenzialismo e costruttivismo non permetta una corretta comprensione del fenomeno. Sicuramente negli anni ’70 alcune delle femministe sostenevano tesi essenzialiste (come altre quelle costruttiviste), ma ciò che potrebbe essere interessante vedere è, al contrario, quanto specificatamente nell’arte femminista degli anni 70 siano labili i loro confini. Questo, innanzitutto, per motivi strutturali: la storia dell’arte femminista in questi anni soltanto agli inizi ed è in un territorio sperimentale. Le artiste femministe non hanno intenzione di chiudere il loro pensiero attraverso le categorizzazioni, ma di sondarlo. I concetti hanno un valore euristico e la loro assolutizzazione posteriore è un’operazione estrinseca al movimento stesso. Per citare un esempio concreto, la Nochlin scrisse nel 1971 “Perché non ci sono state grandi artiste?”. La tesi portata dall’autrice in questo testo è di natura costruttivista e ruota intorno all’idea che la forte differenza di genere nella storia dell’arte abbia escluso le donne, tanto da rendere effettivamente minore il valore delle loro opere.
La storia del nudo è, al riguardo, emblematica: alle artiste, fino alla fine dell’800, fu vietato partecipare alle lezioni di copia di nudo dal vivo (sia di nudi femminili che maschili), perché considerato indecente. Come potevano sperare queste artiste di competere con i loro colleghi maschi se già parte dell’istruzione di base e della sua pratica futura veniva inficiata? Queste affermazioni risultarono uno schiaffo in faccia per il movimento femminista (era in un certo senso l’ammissione di una inferiorità di genere, benché attribuibile ad un costrutto sociale modificabile), che si mise all’opera per riscoprire le grandi artiste del passato. Volevano dimostrare che alcune donne, sebbene ostacolate dal sistema, erano riuscite ad esercitare il lavoro di artiste egregiamente, e che solo l’oscurantismo degli uomini aveva impedito loro di emergere (c’era chi affermava questo in nome di un’essenza femminile oppressa dalla società e chi invece lo affermava in nome di un più moderato costruttivismo). Tante furono le ricerche che si aprirono e gli ottimi risultati ottenuti che la Nochlin stessa qualche anno dopo affermò di “aver rivisto la sua posizione”. Ciò che si vuole mostrare con questo piccolo esempio è la capacità delle artiste femministe di scambiare e cambiare le proprie riflessioni, avendo ben chiaro il carattere sperimentale della loro ricerca.
L’altro motivo per cui bisogna stare attenti a non fidarsi troppo di queste compartimentazioni è che bisogna anche imparare a contestualizzare il senso delle loro operazioni. L’esaltazione della femminilità dev’essere anche letta nella prospettiva di riappropriazione dell’immaginario. Riappropriazione da una parte contro il nemico esterno, ovvero intesa come una “de-colonizzazione del corpo femminile”, e dall’altra una riappropriazione che favorisca la coesione interna. Di quest’ultima ne è un esempio la “cunt art”. Non deve essere pensata come “un set di immagini predeterminate, basate sulle nozioni essenzialiste dell’organo riproduttore femminile”, quanto invece un modo per esplorare e rivendicare la propria sessualità. In modo molto intelligente alcune artiste femministe hanno proposto una nuova categoria – quella di “essenzialismo politico”. “Il significato della categoria di donna per il primo femminismo non fu di natura biologica (ciò che poteva sembrare ad una lettura superficiale), ma politica. Il potere femminista consisteva nel potere delle donne come gruppo”. L’importante dunque non è come la donna sia donna, ma che si viva un’oppressione sociale in quanto donne e che la si possa combattere sotto il nome, ormai redento, di donne. L’arte femminista non teme di unire donne di scuole di pensiero diverso. Le contrapposizioni tra teorie non danno origine a conflitti ma ad intersezioni. Questa è la forza di dire “women as a group”.
Elena Bray – laureata in Filosofia alla triennale all’università di T0rino, prosegue la magistrale a Torino. Molto interessata alle teorie femministe che inserisce spesso nei piani di carriera universitaria. Quella qui sopra riportata è la tesina da lei compilata per un esame del biennio. Ama molto arrampicarsi e viaggiare.