Politica della rappresentazione: le donne e l’arte, storia di una gerarchizzazione. L’arte femminista non si contraddistingue per uno stile, ma per il suo contenuto.
di Elena Bray
Le artiste femministe estesero i loro ragionamenti sulla società al mondo dell’arte. In questo capitolo proporremo l’analisi di due critiche, quella al canone e quella alle immagini, sottolineando però che la loro portata fu molto più ampia (infatti le riflessioni sulla differenza di genere andarono a toccare un sacco di altri campi, dalla questione della performance come reale strumento di connessione tra arte e vita, alla riscoperta dei miti della “grande dea” come connessione tra arte, vita e spiritualità etc.).
Le artiste femministe dedicarono parte del loro tempo alla riscoperta delle grandi artiste del passato. Come detto in precedenza, questa operazione aveva una matrice ideologica, infatti se da una parte alle donne era stato reso difficile, se non addirittura impossibile, partecipare alla produzione della grande arte (per le arti minori, come vedremo, il discorso è differente), dall’altra coloro che ci avevano provato erano state oscurate dai libri di storia dell’arte. E allora riportarle alla luce non poteva che essere parte del programma di politicizzazione dell’arte.
Dai racconti di queste esperienze di ricerca emerge la sorpresa rispetto al poco materiale già disponibile: “in questo campo, sulla sua storia e sulla bibliografia, ero tanto ignorante quanto lo erano le mie studentesse: tutto doveva essere costruito sin dall’inizio. Eravamo sia inventrici che esploratrici: inventavamo ipotesi di ricerca ed esploravamo il vasto mare di materiale bibliografico sotterrato”; ma anche “l’eccitazione e l’entusiasmo” caratterizzavano queste lezioni. Tanti sentieri diversi vennero percorsi, tante piccole storie vennero scritte.
Un esempio è quello della Nochlin: fino alla fine dell’800 le poche donne presenti nel mondo dell’arte erano imparentate con pittori famosi. L’unico modo, per le donne, di accedere all’arte era in modo privato (riportiamo il dato che all’Ecole de Beux-Art, probabilmente l’istituto più prestigioso in questo campo, le donne furono ammesse solo a partire dal 1897): Marietta Robusti era figlia di Tintoretto, Lavinia Fontana era figlia di Prospero Fontana, pittore manierista, Angelika Kauffmann figlia di Joseph Kauffmann, ritrattista, e Berthe Morisot, sposata al fratello di Manet. Successivamente, attraverso l’apertura delle Accademie e alla commercializzazione delle opere d’arte (nasceva la classe borghese), le donne poterono ufficialmente accedere al mondo dell’arte. Ufficiosamente, invece, era un mondo ancora precluso. Le artiste che nel ‘900 volevano affermarsi come tali, dovevano possedere una buona dose di anticonformismo. (vedi Rosa Bonheur a cui fu dato l’epiteto di “ragazzaccio” nonostante i suoi vestitini rosa)
Per quanto riguarda le arti minori il discorso fu differente: si trattava qui di rivalutarle in quanto forme d’arte .La differenza di genere si rifletteva sulla gerarchizzazione delle arti, per cui quelle che tradizionalmente venivano deputate alle donne, come la decorazione o l’artigianato domestico, venivano messe al fondo. Politicizzazione dell’arte significava dunque ribaltare tali gerarchie (è interessante notare che nel corso della storia dell’arte sebbene ci siano state tante battaglie per abbattere le gerarchizzazioni, come quelle dei materiali o delle forme della rappresentazione, nessuna abbia toccato questo argomento). Un esempio pratico di questo discorso fu il Pattern and Decoration movement. Nato nel 1975 alla collaborazione di diverse artiste e artisti, sotto l’impulso di Miriam Schapiro, il suo obiettivo era rivalutare i giochi di forme e colori di queste arti tradizionalmente femminili, contro i mononocromi e le forme austere del minimalismo. Un dato molto interessante di questo movimento (e che mostra la capacità di una società sessista di inglobare e trasformare le rivendicazioni femministe) fu che, da parte della critica, il significato delle opere fu totalmente depoliticizzato, tanto che le si arrivò ad accostare alle opere di Frank Stella. Questa analogia disconosce il senso profondo dell’operazione compita dal Pattern and Decoration movement; dice Schapiro: “volevo rivalutare le attività tradizionalmente svolte dalle donne, connettere me stessa con quelle donne che fecero coperte, lavori a maglia etc, con quello che è il lavoro invisibile della donna nella civiltà. Volevo conoscerle, volevo onorarle”.
Si è scelto di parlare del passaggio dalla rappresentazione della politica alla politica della rappresentazione attraverso l’esempio della riscrittura del canone. Passiamo ora, invece, a quello dell’immagine del corpo della donna, Come si è detto nel primo capitolo, le donne scoprirono di avere un corpo negli anni ‘70. Un corpo con dei bisogni e degli appetiti, un corpo che necessiti di cure e prevenzioni (indice di questi cambiamenti fu la commercializzazione della pillola come contraccettivo). Fino alla fine dell’800 per una donna era impossibile guardare un corpo nudo (il proprio, quello di un’altra donna, quello degli uomini), e queste regole di “decenza pubblica” erano tanto pervasive da non permettere la sospensione di esse neanche nel campo artistico (per esempio nell’Accademia di Londra le donne poterono accedere ai corsi di nudo dolo dal 1893). Sospensione che invece avveniva per i colleghi uomini (quasi che si temesse che le donne, troppo emotive, non sapessero scindere l’aspetto pubblico da quello privato). Emblematico il quadro di Zoffany che ritrae i membri della Royal Academy intenti a ritrarre due modelli nudi: sono tutti riuniti meno che Angelika Kauffmann, la cui presenza è rappresentata da un suo ritratto appeso alla parete per “ovvie ragioni di decenza”. E’ in questo quadro che bisogna leggere il “cunt positive attitude” delle artiste femministe. Essa è una rivendicazione del proprio corpo, della propria sessualità, della propria possibilità di rappresentarsi.
Ma vi è anche un’altra critica sottesa a questo movimento. Il corpo della donna è stato per lungo tempo rappresentato dagli uomini, ed è stato mistificato dalle loro immagini. Esso appare solo nella sua versione estetizzata: bello, elegante, sensuale, disponibile. Sylvia Sleigh esprime in modo molto intelligente questa visione in “the turkish bathroom”. Letta erroneamente come una ridicolizzazione dell’opera di Ingres, essa vuole invece de-estetizzare i corpi nudi: mostrare che possono essere belli anche nella loro verità (verità dell’imperfezione). Un’altra strada è percorsa da Judy Chicago. L’estetizzazione viene da questa autrice sovvertita non attraverso l’assorbimento di ciò che è brutto, ma attraverso la de-estetizzazione dell’arte stessa. L’arte deve rappresentare, indipendentemente da ciò che viene considerato bello o brutto. Gesto per certi versi analogo ai ready-made di Duchamp, che dichiarano l’indifferenza dell’arte rispetto a ciò che è bello o brutto. Così le sue opere, soprattutto agli inizi degli anni ’70, includono assorbenti, mestruazioni, donne nell’atto di togliersi il tampone per il ciclo dalla vagina (spettacolare la crudeltà realistica di “Red flag”, 1971). Diciamo “gesto per certi versi analogo” perché se da una parte si dichiara l’indifferenza dell’arte rispetto all’estetica, dall’altra si afferma la sua vicinanza alla politica (cosa invece molto lontana dalle opere di Duchamp). Così, la rappresentazione, diventa un modo per combattere la violenza sistemica quotidiana, come emergeva dai seminari di autocoscienza (questo discorso lo si vedrà ancora meglio con le opere di “Womenhouse”). E il cerchio si chiude.
Notiamo soltanto, come ultima cosa, che tutti i modi di concepire le immagini, presentati in questo paragrafo, rappresentano una politicizzazione dell’arte, sebbene nell’ultimo caso questo carattere sia più manifesto. L’arte femminista non si contraddistingue per uno stile, ma per il suo contenuto. Le artiste femministe sviluppano soluzione stilisticamente molto differenti tra loro, che hanno però, come centro del discorso, questa presa di coscienza che abbiamo definito, per sintetizzare questi molteplici aspetti con un unico termine, politicizzazione dell’arte.
Elena Bray – laureata in Filosofia alla triennale all’università di T0rino, prosegue la magistrale a Torino. Molto interessata alle teorie femministe che inserisce spesso nei piani di carriera universitaria. Quella qui sopra riportata è la tesina da lei compilata per un esame del biennio. Ama molto arrampicarsi e viaggiare.