Strumenti di lotta. Gli anni ’70 videro nascere una fitta rete di spazi di promozione di artiste donne e femministe: giornali, gallerie, associazioni e comunità.
di Elena Bray
Le artiste femministe avevano capito il loro punto di partenza , avevano individuato i campi di battaglia, ora non restava loro che trovare gli strumenti di lotta. Gli anni ’70 videro nascere una fitta rete di spazi di promozione di artiste donne e femministe: giornali, gallerie, associazioni e comunità.
Come scrisse Joan Braderman su Heresis: “se noi donne non iniziamo a raccontare di noi stesse, chi lo farà?” Nel 1972 fu fondato il primo giornale femminista, il “Feminist Art Journal”. I suoi obiettivi dichiarati erano essere la voce delle artiste nel mondo, migliorare lo status delle stesse e criticare le discriminazioni sessiste. Fu una esperienza interessante, e di reale impegno per quegli anni, ma pagò le ristrettezze di vedute (per esempio la sua critica sfrenata alla “cunt art” della Chicago) con la propria chiusura. Figlia spirituale di questa rivista fu il “Womenart”. Riuscì ad avere un livello molto alto in campo artistico sia per quanto riguarda la teoria critica che la pratica (famose le sue battaglie per “eliminare il sessismo dal MoMA”). Vi furono anche il “Women artist news”, “Chrysalis” (molto attivo in campo teorico) ed “Heresis” (il più longevo, dal 1977 al 1992).
Anche le gallerie furono un importante punto di appoggio, e molte di queste nacquero proprio dal rifiuto di molti spazi espositivi di includere le donne. Citiamo l’”Artist in Residence Gallery” a New York, il cui vero periodo di attività fu tra il 1972 e il 1978 e che successivamente assunse solo un ruolo di mediatore commerciale, e il “Womenspace” a Los Angeles.
Si era consapevoli del rischio di ghettizzazione di questi spazi (creare uno spazio per sole donne non legittimava gli altri musei dall’esimersi dal sostenere questa causa?), infatti non mancarono associazioni che portavano avanti questa battaglia sull’altro fronte. L’ “Ad Hoc Women’s Art Group” fu costituito proprio per garantire un minimo di presenze femminili al Whitney Annual (cosa che effettivamente ebbe successo in quanto in due anni di attività le presenze di artiste donne salì dal 5% al 22%); così come il “Los Angeles council of women artists”, che nacque dallo sconcerto della sola retrospettiva di un’artista donna contro le cinquantatré dedicate agli uomini al “Los Angeles country museum of art”; e il “Women in Art” che promosse “Women Choose Women”, una mostra con centinaia di artiste donne selezionate (è interessante aggiungere che tra i sei più grandi spazi artistici di New York cui fu fatta la proposta, solo uno, dopo diverse contrattazioni, accettò).
Tra tutte queste esperienze riportiamo anche quelle che contemplarono spazi ibridi. Il “Woman’s Building”, costruito nel 1973, era un luogo dedicato a tutte le attività che potevano interessare le donne: vi era un feminist studio workshop, dove si portavano avanti i gruppi di autocoscienza, un centre for feminist art historical studies, che riguardava invece le operazioni di riscrittura del canone di cui abbiamo discusso sopra, un associated women’s press, che si occupava di diffondere contenuti femministi etc. Ma, in un certo senso, anche “Womenhouse” fu una esperienza ibrida. Nacque dalle ricerche delle artiste femministe al “California Institut of Art” in Valencia (California) nel 1971 (la mostra ebbe luogo dal 30 gennaio al 28 febbraio, 1972), e fu il risultato di uno sforzo collettivo notevole, che riuscì a sintetizzare tutte le tematiche calde del femminismo di quegli anni. Andiamo, dunque, a vedere questo luogo da vicino.
“Womenhouse”
Leggiamo, entrando in questo spazio, la presentazione del progetto (scritta da Jucy Chicago e Miriam Schapiro che furono le guide spirituali delle artiste nel processo di formazione dello stesso):
“L’obiettivo era aiutare le donne a ricostruire la propria personalità, aiutarle ad essere più costanti nel perseguimento del proprio desiderio dell’essere artiste e aiutarle a sperimentarsi insieme facendo arte. Womenhouse sembrava offrire lo spazio perfetto per questo processo di educazione. […] Le difficoltà maggiori sorsero nello spingere le donne oltre i loro limiti individuali, sia in quanto donne che in quanto artiste. Per completare il progetto esse dovevano lavorare in un modo al quale non erano assolutamente abituate. Dovettero fare lavori molto pesanti, usare strumenti che solitamente non erano attribuiti agli artisti, e lavorare su una scala molto grande.”
Già da questo discorso iniziale possiamo desumere molti dei temi trattati: il processo artistico come reale processo educativo, l’impegno richiesto alle artiste che non erano abituate a essere prese sul serio, la donna come punto di partenza della riflessione artistica, la collettività nel processo di produzione dell’opera e l’utilizzo di diversi saperi (artigianali, tecnici, pratici) nella disposizione del luogo (ricordiamo infatti che venne scelto un edificio che, dopo la mostra, sarebbe stato demolito. Dunque, quando le artiste lo scelsero, era già in completo stato di abbandono. Dovettero, per fare la mostra, ristrutturarlo a partire da zero).
Quali opere troviamo a Womenhouse?
Vennero allestiti tre “bagni”: Robin Schiff con “Nightmare bathroom”. Qui troviamo una donna, fatta di sabbia, in una vasca da bagno. “Ho scelto la sabbia perché prende facilmente forma, ma allo stesso tempo questa forma è vulnerabile” dice l’autrice. L’idea è che la donna di sabbia, che le visitatrici e i visitatori non possono fare a meno di toccare nel corso della mostra, pian piano scompaia. Lo spazio intimo, il bagno, diventa così luogo di violenza; e il tocco, che dovrebbe essere l’atto di riconoscimento di un corpo, il motivo della sua distruzione. Abbiamo poi Camille Grey con “Lipstick bathroom”: un bagno rosso, totalmente ricoperto di rossetti. “Le luci si accendono, la stanza prende fuoco, i suoi capelli sono rossi, le sue gote sono rosse, le sue labbra sono rosse. […] Lei ha un nome, lei è una donna, e per un momento, lei è tutto, eppure è così assurdo questo spettacolo”. La donna dev’essere sempre bella, non importa a quale prezzo. Ma cos’è bella? E’ uno spettacolo che deve allestire per piacere agli uomini. I rossetti, come critica all’estetizzazione della donna, saranno un leivmotiv nell’arte femminista. Da ultimo Judy Chicago con “Menstruation bathroom”. Un semplice bagno, con in mezzo un cestino ricolmo di assorbenti usati. Ecco la parte del corpo della donna di cui non si può parlare, ciò che dev’essere nascosto (del resto è “solo” qualcosa che appartiene alle donne).
Entrando in una stanza troviamo “Linen closet” di Sandy Orgel: una donna manichino intrappolata dagli scaffali di un armadio; e sulle scale “Bridal Staircase” di Kathy Huberland: una donna manichino, vestita da sposa, che guarda in direzione delle scale; queste portano al ripostiglio, in cui vi è solo un mobile con una ripetizione di piatti: colazione, pranzo, cena, colazione … Si è scelto di trattare queste due opere insieme perché, unici manichini di tutta la mostra, rappresentano due aspetti della stessa persona. La sposa, che dà le spalle alla camera da letto, è legata allo spazio da un ruolo e non da un affetto intimo; come la donna bloccata nell’armadio, bloccata dalle aspettative della società che non le lasciano immaginare un altro possibile.
“The dining room”: forse questa stanza è la più forte rappresentazione del lavoro collettivo. Beth Bachenheimer, Sherry Brody, Karen LeCoq, Robin Mitchell, Miriam Schapiro e Faith Wilding lavorarono sinergicamente assieme per costruire un ambiente lascivo, sensuale, governato da giochi di luci, colori e pitture murali. Ogni colore, ogni forma rimandava ad una dimensione fantastica. Un po’ come tornare ad essere bambine, e poter costruire la propria casa delle bambole (nella stessa direzione di senso troviamo “Nursery” di Shawnee Wollenman. Lo spettatore, attorniato da giocattoli di dimensioni giganti, torna ad assumere la prospettiva del bambino. Del resto l’arte non è che “un gioco serio”).
La cucina fu realizzata da Robin Weltsch e Vicki Hodgetts (“Eggs to breasts”) dopo diverse sessioni di autocoscienza sulla cucina. Le artiste si chiesero quali immagini associavano a questo luogo. Alcune lo trovavano un luogo confortevole, perché è dove si soddisfano i propri appetiti, altre un luogo pericoloso, perché è dove accadono più incidenti domestici. Si decise di riportare entrambi questi aspetti con delle uova fritte (che potevano però anche sembrare dei seni), che ricoprivano il soffitto e le pareti della stanza. Esse rappresentavano da una parte il nutrimento (dal latte del seno materno alle uova della colazione), dall’altro il risultato di un’azione pericolosa (l’esplosione, sicuramente non priva di danni, di uova fritte nella stanza).
Le due ultime opere di cui vogliamo parlare sono “Crocheted enviroment” di Faith Wilding e “Dollhouse” di Miriam Schapiro e Sherry Brody. La prima consiste in una tenda, fatta di fili legati tra loro, che occupa tutta la stanza. E’ un richiamo all’ “antica tradizione femminile di costruzione di uno spazio sicuro”, sia per onorare l’artigianato domestico che per celebrare lo spazio di protezione dell’utero materno. La seconda opera è anch’essa il richiamo di una tradizione, quella della “quilt art”. Si voleva rendere omaggio a tutte quelle “donne invisibili” del passato che avevano prodotto un’arte che non era stata neanche riconosciuta come tale.
Tanto “Dollhouse” quanto “Womenhouse” sono degli spazi privati che diventano pubblici. Ecco così una grande (e piccola) metafora del motto femminista “il personale è politico”.
Bibliografia
Norma Broude, Mary D. Garrard, The power of the feminist art. The American movement of the 1970s, history and impact, New York: Harry N. Abrams, 1996 (traduzione dell’autrice)
Linda Nochlin, Perché non ci sono state grandi artiste?, Roma: Castelvecchi, 2014
Womenhouse: http://www.womanhouse.net/statement
Si è scelto di mettere in bibliografia solo i testi strettamente utili (dunque non compaiono i testi di cui si sono usate citazioni retoriche).
Questo testo ha usato come fonte principale il primo libro citato in bibliografia. Esso è composto da moltissimi articoli, ognuno scritto da una diversa artista femminista. Per questo, per la ricchezza di voci e la quantità di temi trattati, è stato scelto come fondamento.
Elena Bray – laureata in Filosofia alla triennale all’università di T0rino, prosegue la magistrale a Torino. Molto interessata alle teorie femministe che inserisce spesso nei piani di carriera universitaria. Quella qui sopra riportata è la tesina da lei compilata per un esame del biennio. Ama molto arrampicarsi e viaggiare.
.