Domitilla Colombo si è diplomata presso la Scuola del Teatro Arsenale di Milano ed è stata allieva di Enrico D’Alessandro. Segnalata come attrice emergente nell’ambito del Premio Fersen 2007, vanta numerose partecipazioni a spettacoli teatrali e diversi interessi nel campo della recitazione. Ha al suo attivo un’esperienza pluriennale nell’insegnamento della dizione.
Domitilla raccontaci cosa vuol dire per te l’arte di recitare?
Non so se possa definirla “arte”, nel mio caso; è una parola che mi evoca modelli irraggiungibili. Posso, sicuramente, definirla responsabilità: nei confronti del pubblico, perché penso che, nella nostra quotidianità, rappresentazione e fruizione teatrale (ma vale anche per altre forme artistiche) costituiscano un atto civile, già solo per il momentaneo isolamento rituale “via dalla pazza folla” che implicano; atto in cui il rispetto tra scena e platea dovrebbe essere assolutamente reciproco. Responsabilità nei confronti del testo, per visualizzarlo e interpretarlo con grinta e consapevolezza, cercando di evitare i luoghi comuni e facendolo “passare”, ma senza snaturarlo; nei confronti di chi mi concede fiducia e sostegno, nel lavoro e negli affetti; verso me stessa, perché cerco sempre di dare il più possibile, ma con poche certezze e moltissimo confronto. Ecco, ammesso che abbia dell’arte dentro di me, è funzionale a tali responsabilità. Però, se la situazione lo permette, mi piace inserire qualche tocco ironico e giocoso, come mi hanno insegnato meravigliosi mentori.
Ti muovi tra differenti generi, passi da Shakespeare alle performance in dialetto milanese: quali differenze ci sono dal punto di vista del tuo coinvolgimento artistico?
A livello di impegno, di quel “dare” cui accennavo, non faccio distinzioni, sempre per questioni di responsabilità. Non mi spaventano esperienze emotivamente forti, quelle in cui la gaddiana cognizione del dolore e la “pars destruens” hanno un ruolo determinante; anzi, lavorarci ha sciolto un po’ qualche blocco espressivo. Però, se ne capitano due o tre successivamente, come accadde lo scorso anno, arrivano segnali fisici e psicologici ad annunciare il bisogno di un po’ di sana leggerezza! Dal punto di vista linguistico, sono stata educata ad appassionarmi alle parole, già in famiglia; ne considero sia il lato etimologico che quello strutturale e materico, approfondito dall’insegnamento della dizione, da letture poetiche e da alcuni lavori in grammelot. Devo ai miei familiari un approccio naturale e, nel contempo, scientifico al dialetto, una vera e propria lingua, preziosa dal punto di vista grammaticale e letterario. Mi riferisco a qualsiasi dialetto: insieme, formano un caleidoscopico patrimonio, che la filologia estera ci invidia; non sopporto che vengano biascicati, scimmiottati o, peggio ancora, strumentalizzati. Senza contare il valore non solo artistico, ma anche sociale di alcune opere: rimanendo nell’ambito del milanese e parlando di violenza alle donne, “La Ninetta del Verzee” di Carlo Porta, ormai bicentenaria, e “La mamma di gatt” di Giovanni Barrella, risalente agli anni ’30 del secolo scorso, costituiscono esempi di sconvolgente durezza e intensità.
Hai trovato, sono nelle tragedie e nei testi teatrali, una figura femminile che senti più vicino a te?
Una cui ripenso spesso è Elena, in “Zio Vanja” di Cechov. Una scelta sentimentale compiuta alquanto a tavolino la relega in un limbo di noia dolorosa e insoddisfazione, ma la possibilità di una svolta più naturale, in tutti i sensi, implicherebbe sacrifici che ella non intende più affrontare. Ad animarla nel profondo è uno struggente desiderio di totale libertà, da “spirito delle acque” (cit.), ma le manca, pensando a Battisti, il coraggio di vivere….
Quale personaggio femminile può rappresentare un modello per l’emancipazione femminile?
Ho avuto modo di lavorare su questo argomento lo scorso anno, con alcune amiche della Biblioteca Femminista: un esempio per eccellenza resta Nora, la protagonista di “Casa di bambola”. Può sembrare ormai scontata, ma non credo proprio lo sia, considerando quanto vengano socialmente condannate (ed è il minimo, purtroppo) le donne che compiono il suo stesso gesto, non solo presso gli uomini, ma anche nell’opinione pubblica femminile. Ci si preoccupa, ed è sacrosanto, per la violenza esplicita; nondimeno, i danni prodotti da una silenziosa e logorante frustrazione, per amor di “normalità”, non andrebbero, a mio avviso, sottovalutati.
Quale personaggio maschile è più di tutti invece un modello anti-maschilista?
Ci ho pensato parecchio. Tra i personaggi che conosco, avrò sempre nel cuore lo straordinario, struggente, adorabile Prior di “Angels in America”: spettacolo attualmente in scena a Milano, che tutti dovrebbero vedere. E’ un consiglio totalmente disinteressato, da cui non riesco proprio ad esimermi.
Secondo la tua esperienza il recitare può diventare una “cura” e in che senso?
Utilizzando il termine “cura” con la dovuta cautela, direi proprio di sì, per esperienza personale. In un momento in cui avevo qualche problema nell’accordare il mio mondo interiore, un po’ fra le nuvole, con la realtà esterna dei rapporti con i compagni, l’opportunità di avvicinarmi al teatro è stata provvidenziale: da un lato ho imparato a rendere più costruttiva la mia immaginazione, dall’altro i miei coetanei mi hanno vista in una dimensione diversa. Oggi, se mi capita di provare “emozioni tossiche”, come le chiama qualcuno, cerco di elaborarle il più possibile con me stessa, per convertirle, all’occorrenza, nella recitazione.
Su quali nuovi progetti stai lavorando?
Appena posso, mi piace buttarmi con entusiasmo in ciò che mi viene proposto! Ho partecipato a un paio di “corti”, molto diversi tra loro, entrambi in postproduzione; durante Bookcity, collaborerò con la Libreria delle Donne; per il 25 novembre, sarò ad Origgio (VA), zona di origine della mia famiglia, con un evento denso ed emozionante, legato alla tragedia greca. Il prossimo anno prevede già bellissime occasioni sparse per Milano e dintorni, anche in collaborazione con Danilo Caravà, critico, drammaturgo e mio straordinario fidanzato. E tengo a citare la mia appartenenza a Gli IncantAttori, nuova e polivalente associazione artistico-culturale!
C’è una domanda alla quale vorresti rispondere che non ti hanno mai fatto?
Piccolo enigma: è una domanda posta da Sonja a Elena, durante un colloquio notturno, nel secondo atto di “Zio Vanja”. Elena risponde “no”, io dico : “tutto sommato, sì.” Grazie!a: è una domanda posta da Sonja a Elena, durante un colloquio notturno, nel secondo atto di “Zio Vanja”. Elena risponde “no”, io dico : “tutto sommato, sì.” Grazie!