Ha un logo multicolore come le sue sedie, per rappresentare tutti i colori del mondo. Non quelli della pelle, diversi solo per caso, ma i toni dell’arcobaleno delle culture che si incontrano, si mescolano, si fondono. E si scambiano lingue, ma anche pensieri, cibi, modi di vivere. È la scuola per stranieri Penny Wirton, fondata nel 2008 da Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi, che oggi ha sedi in tutta Italia.
La scrittrice Laura Bosio ne parla in un bel libro appena uscito per Enrico Damiani Editore, Una scuola senza muri, in cui racconta la sua esperienza di insegnante volontaria e direttrice della sede Penny Wirton di Milano. Le abbiamo chiesto di dirci di più.
Il nome della scuola si rifà al titolo di un romanzo di Silvio D’Arzo, Penny Wirton e sua madre: Penny è un ragazzino orfano e sfortunato che trova il suo riscatto attraverso varie peripezie, anche grazie all’aiuto del supplente della sua scuola. Un po’ come accade con i vostri allievi, che, provenendo da realtà molto difficili, attraverso l’insegnamento della lingua italiana ricevono una chance di migliorare la loro vita…
Sì, è così. Alcuni nostri allievi sono analfabeti nella lingua d’origine e con l’alfabetizzazione nella seconda lingua, l’italiano del paese a cui sono approdati, avviano un processo di individuazione personale, di scoperta. Nella nuova lingua ricuciono un po’ alla volta i frammenti della loro vita spezzata. La scuola per loro è un primo passo verso l’integrazione e insieme verso il riconoscimento di sé. La maggior parte sono ragazzi dai sedici ai venticinque anni.
Nel suo libro, lei racconta con enorme partecipazione ed entusiasmo il percorso, non facile, dell’insegnamento dell’italiano agli stranieri; quasi sempre migranti, spesso rifugiati, in ogni caso persone bisognose, prima ancora che di sicurezze materiali, di accoglienza. Lo scambio, lo capiamo leggendo, non è solo a favore degli studenti: anche voi volontari ricevete tanto da loro. In questi anni, quali sono stati i momenti più difficili, ma anche i più belli, quelli che le hanno riempito il cuore?
Alle loro spalle ci sono povertà, guerra, violenza, desolazione. Arrivano letteralmente spaesati e a poco a poco cominciano a mettere fragili radici. Il nostro scopo è insegnare l’italiano, ma cerchiamo di seguirli in questo viaggio, di accompagnarli, per quel che possiamo, verso la vita nuova che li aspetta. Ogni singolo momento con loro è molto delicato e insieme molto bello, di autentico scambio umano e culturale. Tra le tante storie, che ho tutte impresse nel cuore, ha un posto speciale quella di una giovane senegalese, ventiduenne, che era arrivata da noi con un bambino di sei mesi. Noi facciamo poche domande ai nostri allievi, per loro ripensare al passato è spesso molto doloroso. Ma nel rapporto uno a uno, “a tu per tu” tra insegnante e studente, che è alla base del nostro insegnamento, finiscono per crearsi relazioni di fiducia, e i nostri allievi gradatamente si aprono, si raccontano. Il bambino della giovane senegalese, che lei avvolgeva di amore, era figlio di uno stupro avvenuto in un lager libico. Lo aveva chiamato Destiny.
Alcuni allievi frequentano la scuola per anni, altri per alcuni mesi, altri ancora vanno via e se ne perdono le tracce. A tutti vi affezionate, e loro si legano a voi. In qualche caso, tra volontari e studenti sono nate amicizie che durano, rapporti di affetto, di solidarietà, magari di lavoro, al di là dell’incontro scolastico?
Sì, ci sono allievi che hanno trovato nei loro insegnanti degli amici e dei punti di riferimento. Frequentano le loro case, stringono amicizia con i loro figli. Alcuni di tanto in tanto tornano a trovarci a scuola.
C’è qualche studente che ricorda con maggior orgoglio, perché, dopo aver imparato con voi l’Italiano, ha potuto cambiare significativamente in meglio la sua vita? E qualche volontario che, dedicandosi agli altri nell’insegnamento, ha potuto superare alcune sue personali difficoltà?
Un ragazzo del Mali, scappato dalla guerra nel suo paese, in poco più di due anni, con alcune vicissitudini, ha imparato un buon italiano, ha regolarizzato i documenti, poi ha iniziato a lavorare in una lavanderia industriale e grazie al suo impegno ha ottenuto un’assunzione a tempo indeterminato dopo il periodo di prova. Al suo datore di lavoro non è sfuggito di avere a che fare con una persona di qualità.
Come hanno risposto gli allievi della Penny Wirton di Milano alla pubblicazione di Una scuola senza muri? Sono stati felici di essere rappresentati nelle sue pagine, vorrebbero leggere il libro che parla di loro?
Non so se tutti se ne rendono conto, ma certo, sono contenti, alcuni hanno chiesto il libro per leggerlo. Non è una lettura agevole per loro, ma lo tengono con sé, alcuni aprendo le pagine dicono “questo sono io”.
Le attività delle scuole per stranieri Penny Wirton si basano sul volontariato, le sedi sono messe a disposizione gratuitamente, i materiali donati. Come riuscite ad attivare la catena della solidarietà?
Con il passaparola, con il contributo personale degli insegnanti, con donazioni e con serate di raccolta fondi. Nell’ultima, a Cascina Biblioteca, ha collaborato con noi una grande amica della scuola, la bravissima Licia Maglietta.
Immagine dello studente: licenza Pixabay