Paola Setti: L’Italia? Un Paese di mammoni, ma non per mamme
Con Gabriella Palmieri da poco alla guida dell’Avvocatura generale dello Stato e Marta Cartabia, neo presidente della Corte Costituzionale, l’Italia ha dimostrato di essere un Paese per donne e “vecchie”.
Ma rimane ancora parecchio indietro per le donne che vogliono diventare madri e, nello stesso tempo, lavorare e fare carriera. Certo, si obietterà, la giurista milanese, da qualche settimana ai vertici della Consulta, ha fatto una lunga gavetta con tre figli, ma una non è tutte. Al contrario, dovendo fare i conti con un Paese di mammoni che, tra breve, di mamme ne avrà sempre meno, molte rinunciano al lavoro (secondo le ultime statistiche sette su dieci), sacrificando non solo lo stipendio, ma anche la possibilità di spendere anni di formazione e sentirsi gratificate.
Ne sa qualcosa Paola Setti (Milano, ’74), giornalista, che, all’argomento ha dedicato un libro, pubblicato di recente da All Around, intitolato: L’Italia non è un Paese per mamme – appunti per una rivoluzione possibile, con la prefazione curata da Paola Tavella.
Pagine scritte dopo esperienze non molto felici. Alcuni anni fa Paola si è dovuta dimettere da un impiego ben retribuito dopo che le sono state rivolte dai suoi capi frasi del tipo: “Quando una donna partorisce torna al lavoro non con una, ma con quattro marce indietro” e “Se lei tornerà dopo il parto come era prima, il posto rimarrà suo”.
Il suo non è il solito saggio, ma un bel libro scritto con e per tante donne nella sua situazione. Che promette di diventare altro.
Paola, con il libro ti sei tolta qualche sassolino?
Subito dopo essermi dimessa dall’azienda in cui avevo lavorato con passione e dedizione per tanti anni, mi sono guardata intorno e mi sono resa conto che non ero sola. Anzi: 30mila donne l’anno lasciano il lavoro perché non sono messe in condizione di conciliare lavoro e famiglia. Ho cercato libri sul tema, ma ho trovato solo saggi, molto informati ma molto tecnici, su argomenti collegati, dalle motivazioni della bassa natalità alla mancata valorizzazione delle donne sui luoghi di lavoro. Mancava un libro corale. Non ho scritto per rivalsa: la rabbia non porta da nessuna parte se è fine a se stessa. Va incanalata, invece. Ho scritto per dare voce alle donne: quelle che lasciano il lavoro perché hanno la colpa di aver fatto figli, quelle che gestiscono lavoro e figli al prezzo di uno sforzo immenso, quelle che figli non ne fanno perché non hanno nonni da schiavizzare né soldi da dare alle tate, quelle che lavorano a ritmi tali che i figli non li vedono crescere. E ho scritto per dare qualche spunto per cambiare tutto, perché la rivoluzione si può fare ed è un dovere per ognuna di noi dare il proprio contributo. Io so fare solo il mio mestiere di giornalista, raccogliere informazioni e scriverle. E allora ho deciso che questo poteva e doveva essere il mio contributo.
E’ un libro scritto per gli imprenditori – quelli che non ammettono flessibilità, pur potendosela permettere- per i papà che forse dovrebbero sentire di più il desiderio di stare con i figli, per il governo che fa poco, o per noi donne, che non dovremmo sentirci in colpa quando scopriamo di aspettare un bambino e forse non siamo sempre pronte a delegare?
E’ un libro scritto per tutte le categorie che citi. Soprattutto, è un invito a tornare alla nostra umanità, cercando assieme, donne e uomini, soluzioni per esercitare, tutti, il proprio diritto alla genitorialità e alla soddisfazione sui posti di lavoro. Le madri devono essere messe in condizione di occuparsi in generale della cura di figli e famiglia, senza rinunciare al proprio posto di lavoro. Ma anche i padri, il cui diritto alla paternità, invece, è attualmente leso, tanto quanto, specularmente, è leso il diritto delle madri a tenersi il posto di lavoro e a fare carriera. E’ una battaglia di diritti che dobbiamo affrontare assieme perché riguarda tutti e riguarda il futuro della nostra società.
Un governo più sensibile a questo problema?
Finora ho visto molte parole, pochi fatti. E alcuni fatti molto sbagliati. Per esempio, consentire alle donne di lavorare fino all’ultimo giorno della gravidanza come ha fatto il precedente governo significa di fatto obbligare tutte a farlo, per non essere le une da meno delle altre. Cosa profondamente sbagliata per la salute della mamma e del bambino, che denota una mentalità tutta e solo impostata su una modalità maschile. Nel Family Act, però, ci sono alcune misure che fanno ben sperare, come la gratuità degli asili nido e l’aumento del congedo obbligatorio per i padri. Sono segnali che almeno un ragionamento sul tema della mancanza di servizi e delle difficoltà di conciliazione è stato fatto. Naturalmente non basta: i padri dovrebbero essere messi in condizione, tanto quanto le madri, di esercitare il proprio diritto alla genitorialità, e al contempo di assumersene la responsabilità. Aumentare il congedo obbligatorio da 5 a 10 giorni non servirà certo a rivoluzionare le cose.
Come si fa a non capire che il tema centrale è la denatalità, non la lagna di qualche femminista?
Oggi la natalità è ferma a 1,3 figli per donna, a fronte di un desiderio di 2. Il fatto è che le donne in gravidanza e in maternità sono considerate un problema e non una risorsa. E dire che, come ho intitolato un capitolo del libro, valiamo un botto di Pil. Secondo la ricercatrice Giovanna Badalassi per ogni cento posti di lavoro dati alle donne se ne creano quindici aggiuntivi nel settore dei servizi. Le lavoratrici italiane producono il 41,6% del Pil, per un valore di 614,2 miliardi di euro. Secondo stime
della Banca d’Italia, se si raggiungesse il 60% del tasso di occupazione femminile, oggi fermo al 49,5% contro il 67,6% degli uomini, il Pil aumenterebbe di 7 punti percentuali. Quanto al femminismo, dovremmo intenderlo come fa la scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie che, nel suo libro “Dovremmo essere tutti femministi” definisce femminista “un uomo o una donna che dice sì, esiste un problema con il genere così come è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio”.
Dici che si dovrebbe fare come in molti Paesi, in cui il pomeriggio alle 4 si dovrebbe uscire dal lavoro. Ma non pensi che ci siano lavori, come quello del giornalista, in cui sia, se non impossibile, piuttosto difficile farlo?
Non dico che sia facile, dico che è possibile. Esistono tante soluzioni: turnazioni, part time verticale, telelavoro. Altre se ne possono inventare. Incentiviamo le aziende ad attivare il co working e lo smart working e a eliminare il pay gap, ridisegniamo le città e le abitazioni a misura di donna. Le mamme ne sanno più degli urbanisti.
Quale dovrebbe essere il primo intervento?
Le cose da fare sono così tante che basterebbe iniziare da una. Le rette dei nidi vanno riviste, perché una famiglia normale non si può permettere di sostenere cifre che vanno dai 400 ai 600 euro alle quali spesso va aggiunto lo stipendio di una tata. Nel libro ho voluto dedicare un capitolo ai nonni, vera colonna portante del welfare italiano. Chi non ha genitori e suoceri da schiavizzare, addirittura spesso un figlio non può permettersi di farlo, perché ormai fare un figlio è un lusso.
Forse prima di tutto servirebbe una mentalità nuova, capire che i genitori sono due e che alla famiglia e alla casa non devono badare solo le donne.
In un quarto delle coppie italiane l’uomo non svolge alcun compito domestico e oltre il 40 per cento dei padri non dedica alcun tempo alla cura dei propri figli. Intervistati sulla parità di genere, al 90 per cento dicono di sostenerla, ma quando poi scendi nel dettaglio e chiedi loro se sia giusto passare un aspirapolvere ogni tanto, il 70 per cento dice no. In famiglia, gli uomini delegano alle donne persino la cura dei propri genitori. In generale servono azioni positive che forzino e guidino l’atteggiamento culturale della società in un’altra direzione. C’è nel libro un’intervista che mi ha arricchito molto, al giuslavorista genovese Filippo Biolé. Lui, che pure da avvocato crede nel Diritto, suggerisce di provare senza leggi. Sottolinea che è molto triste il Paese in cui c’è bisogno di prevedere per legge quello che dovrebbe essere ovvio, come la tutela della donna e della maternità. E invita a guardare lontano, spiegando ai datori di lavoro e alla società tutta che sostenere le madri lavoratrici magari non dà un vantaggio nell’immediato, ma lo dà sul lungo periodo. Un Paese che non protegge la procreazione, che ha bisogno di mettere l’ovvio nero su bianco, che ha perso la propria anima sociale, sta facendo il percorso della rana. Se la metti nell’acqua bollente scappa fuori, ma se la metti nell’acqua fredda e la scaldi a poco a poco finisce bollita senza accorgersene. E’ così, in fondo, che nemmeno troppi anni fa anche l’Italia mise gli ebrei sui camion. Sembrava impossibile, ma giorno dopo giorno ci si è arrivati. Una società che monetizza tutto, anche la maternità, è una società malata, a rischio di nuove aberrazioni.
Ora com’è la tua vita? Ti dedichi completamente alla tua famiglia?
Dopo essermi dimessa sono stata sei anni con i miei due bambini che ora hanno sei anni e quattro. La vita mi ha premiata per la scelta difficile, anzi, lacerante, di lasciare il mio vecchio posto di lavoro senza accettare compromessi. Adesso infatti ho trovato un nuovo posto di lavoro, che mi dà molta soddisfazione. Non era scontato, perché in Italia il mercato del lavoro è fermo e per una donna è spesso impossibile rientrarci, soprattutto a 45 anni. Infatti 30 su 100 lasciano il lavoro per motivi familiari e solo 4 su 10 riprendono l’attività. Mi ritrovo, anche adesso, nella condizione di dover conciliare un lavoro che ha ritmi impegnativi con la mia famiglia. Però mio marito in questi anni ha capito che essere genitori significa condividere tutto, la cura dei figli e persino i lavori di casa, e quindi è tutto più facile.
Che progetti hai? Voglio trasformare questo libro in un manifesto, per diffonderlo il più possibile. E sto lavorando a un nuovo libro.