Riflessioni sulla nuova docu-serie targata Amazon Prime Video, che racconta non solo degli efferati crimini compiuti dal serial killer Ted Bundy ma anche di un femminismo che ha aiutato le donne a reagire alla violenza
Trish Wood dirige questa nuova serie dedicata non a Ted Bundy, ma alla donne che hanno lottato contro la violenza di genere in quegli anni e che sono state vittime di diverse forme di discriminazione e abusi.
Questo documentario, composto da cinque episodi, è stato rilasciato il 31 Gennaio 2020 dalla piattaforma Amazon Prime Video.
Perché parlarne?
Innanzitutto, questa serie non è una serie su Ted Bundy. Non si focalizza puntualmente sugli episodi più significativi della sua infanzia, e non esplora la psiche dell’uomo come spesso accade in documentari del genere. L’obiettivo di questa serie è raccontare un’epoca dal punto di vista delle donne che l’hanno vissuta, tessendo una trama che ha avuto purtroppo Ted Bundy sullo sfondo, lì a confermare quanto duramente si dovesse lottare per liberare le donne dal senso di impotenza e di inferiorità che le aveva condizionate per gran parte della loro storia.
Sì, gli anni ’70 hanno riportato le donne per le strade, a marciare contro guerre ingiuste e discriminazioni di ogni tipo. Ma, in modo particolare, quegli anni hanno ricordato alle donne che le uniche persone a poter esercitare il controllo sul loro corpo fossero le donne stesse, e nessun altro.
Nel 1973 arrivò la sentenza storica Roe v. Wade, e sempre nel 1973 si disputò quella che passò alla storia come “battaglia dei sessi”, celebre partita di tennis fra Bobby Riggs e Billie Jean King.
Nel 1974, invece, Ted Bundy iniziò (sebbene si ipotizza che possa aver iniziato già negli anni ’60) a compiere i suoi machiavellici delitti, che lo portarono alla condanna a morte il 24 Gennaio 1989. Si pensa che possa aver compiuto più di 30 femminicidi (da definire così perché mossi da una volontà chiara di annientamento e subordinazione delle donne in quanto donne), sebbene si sia arrivati al ritrovamento e all’identificazione solo di una parte delle vittime.
Alle donne, in quegli anni, veniva detto di non reagire di fronte alla violenza, perché una reazione avrebbe potuto portare danni ancor peggiori, ma per fortuna molte di loro trovarono la forza di reagire rivendicando libertà attraverso manifestazioni, gruppi di auto aiuto e corsi di arti marziali e difesa personale.
Un altro motivo per guardare questa serie è perché a parlare c’è Elizabeth Kendall (oltre a sua figlia), fidanzata di Ted Bundy già da circa quattro anni prima che iniziasse a rapire, assassinare e stuprare (spesso proprio in quest’ordine) giovani donne, e che iniziò a sospettare che dietro quei delitti ci fosse Bundy solo verso le fine del 1974.
La sua testimonianza è per noi donne un monito e fonte di insegnamento. Per molti anni, Liz Kendall ha faticato ad accettare che l’uomo che aveva avuto accanto per tanti anni e che amava profondamente fosse un mostro. Ha combattuto contro l’abuso di alcool e contro la dipendenza affettiva. Ha dovuto ricostruire se stessa e la propria vita da zero, lavorando su una bassa autostima e lo scarso amore di sé che talvolta chiamava in causa durante la lunga intervista.
La sua testimonianza ci spiega come mai molte donne facciano fatica a porre fine ad una relazione palesemente tossica: sono spinte dalla speranza che l’uomo possa cambiare e che sia migliore di quello che mostra, che possa essere curato.
Dunque, invito tutte a guardare questa docu-serie, dall’indiscutibile valore educativo, che ci spinge a riflettere sulle grandi conquiste femminili e femministe ottenute fino ad oggi e che ci insegna che reagire non è solo auspicabile, ma talvolta necessario.