Quest’anno, in questo tempo diverso, faticoso, di discese e risalite, di necessarie aperture al nuovo, di baratri insondabili, di perdite e distanze, di vuoti da riempire in modo nuovo, in cui la scuola si è reinventata, il sugo della storia era ancor più necessario. Ancor più da tutti noi atteso. Forse provvisorio, necessariamente aperto.
di Pina Arena
“Ho imparato che tutto è importante, niente è banale o scontato: il contatto fisico o il sorriso della nonna che non vedo da tre mesi, alzarsi presto e respirare l’aria fresca del mattino, guardare il cielo mentre vai a scuola, camminare lungo il viale e salutare i vicini, una pacca sulla spalla, scoprire che siamo delicati e fragili come le foglie. Prima, correndo, nella normalità, non ci avevo mai pensato”. Sono le parole di Giuseppe, studente quindicenne.
Da anni, a giugno, chiedo alle mie alunne ed alunni, adolescenti che frequentano il liceo scientifico a Catania, di scrivere su quello che l’anno di scuola ha lasciato, insegnato, portato via o donato loro.
Sarà una riga, saranno tante righe, un ricordo o un racconto. In libertà. Sarà il loro sugo della storia. Non è un compito, non verrà valutato. Ognuno dona all’altro i suoi pensieri, le proprie riflessioni, le proprie parole.
Quest’anno, in questo tempo diverso, faticoso, di discese e risalite, di necessarie aperture al nuovo, di baratri insondabili, di perdite e distanze, di vuoti da riempire in modo nuovo, in cui la scuola si è reinventata, il sugo della storia era ancor più necessario. Ancor più da tutti noi atteso. Forse provvisorio, necessariamente aperto.
Sono arrivate così, immediate, le loro parole, come se attendessero solo di venir fuori: libere, poetiche, timide o più audaci, gridate o sussurrate. Previste, ma anche impreviste.Al centro, lo sappiamo bene, la relazione fisica interrotta con le amiche e gli amici. Scrive Leonardo: “Non sogno cose grandiose, vorrei soprattutto ritrovare i miei compagni, anche senza far nulla di grandioso, mi basta parlare un po’ con loro e stare insieme fisicamente, visto che mi mancano molto…” . “Il ricordo più bello del tempo della normalità –scrive Elena-: sono quelle gomitate e risate con le compagne di scuola!”.
Il desiderio di vicinanza va oltre: “Chi me lo avrebbe detto che avrei voluto abbracciare forte forte non solo i compagni di scuola, tutti, forte, ma anche i miei professori, sino a piangere. Mi mancano tutti” scrive Laura. “Mi manca la routine che odiavo la fatica che odiavo: alzarmi presto la mattina, prendere l’autobus alle 7, sopportare anche gli spintoni sull’autobus affollato. Però poi arrivavo a scuola…che bello” dice Antonio.
L’emergenza ha aperto anche nuove prospettive, ha ridisegnato il loro tempo. Scrive Giovanni: “Ho scoperto la noia: per me prima era il contrario di vivere. Ora so che la noia fa pensare e scoprire. Il tempo senza corse. La noia che mi fa scoprire me stessa…perché non mi conoscevo” .
Raccontano una diversa libertà e la scoperta della condivisione: “La libertà -scrive Elias- non è per me fare la prima cosa che ti passa per la testa . È possibilità di scegliere e scoprire, di stabilire relazioni con gli altri. È quello che è successo ora. Di riempire il tempo di cose nuove, di tante altre cose, di incontri con tante persone nuove , ho cantato “bella ciao “ alla finestra con i miei vicini e con i miei genitori. Io neanche li conoscevo i vicini che abitano qui da prima che io nascessi. Doveva arrivare la quarantena per sentirmi libero di cantare alla finestra con degli sconosciuti. Ci siamo salutati con tanto affetto. Ma chi lo doveva dire!“.
Volano dalla leggerezza del quotidiano alla scoperta della vulnerabilità. Scoprono il dolore della morte, che sia la perdita di una persona cara o di un essere umano sconosciuto: “Non sarà più possibile immaginare -scrive Matteo che ha 14 anni – la sera, quando chiudo gli occhi, che domani sentirò la voce del nonno, com’era prima, e mi darà coraggio. Se n’è andato e non ho potuto esserci. Non ho potuto salutarlo. Ed io ancora vorrei sentirmi dire da lui ”E dai, sorridi” . Scrive Elisa, appena diciottenne: “Un’immagine che ho ancora negli occhi: i carri militari di Bergamo che portano via le persone morte. Ho pianto anch’io per loro, per noi. Non avevo mai pensato la morte provando compassione per tutti noi.”.
Raccontano la scoperta di sé e la nuova dimensione della compassione: “Ho sperimentato che anch’io sono fragile e che provo paura e tristezza -scrive Filippo- ho imparato che tutte queste sensazioni sono normali, e questo mi rende più umano, mi fa stare collegato alla realtà. Ho imparato a provare compassione nei miei confronti, ma anche nei confronti degli altri” .
Raccontano l’inconfessabile: “Sa cosa ho fatto: ho chiuso gli occhi ed ho immaginato di accarezzare il volto di mia nonna. Così, lo accarezzavo. Con gli occhi chiusi!.”
Scoprono di essere parte della natura, come i pesci di Venezia. Racconta Agatino: “Ho negli occhi le acque di Venezia tornate limpide ed il pesciolino che sembra felice, finalmente nell’acqua trasparente. Ecco questa è la nostra casa. Quel pesciolino sono io , è il mio compagno che vedo sullo schermo delle lezioni ogni giorno, anche lei , prof. Ognuno di noi è quel pesciolino. Per liberare il pesciolino dalle alghe ce ne siamo stati in casa tutti, non abbiamo inquinato, o forse solo inquinato di meno. Come andrà quando ritorneremo fuori dalle case? Spero bene per quel pesciolino. Per noi tutti” .
Richiamano se stessi e noi adulti al dovere della memoria. Scrive Angelo: “Non dobbiamo dimenticare: questo ho capito. Dimenticare quello che abbiamo vissuto. Dimenticare la gratitudine, la solidarietà, la paura. Non dobbiamo dimenticare chi ha fatto sacrifici per tutti: che i medici ci hanno curato, che i prof ci hanno dedicato ore ore ore, che i genitori pensavano solo a noi. Ho negli occhi il medico con il segno della mascherina sul viso. L’aveva tenuta tante ore. Come si fa a dimenticare? ”
Ci proiettano verso il futuro, suggerendo nuove coordinate. Due le parole parole-chiave di Vittorio e Francesca: gratitudine, condivisione.
“Siamo fragili . Non lo sapevamo . Non volevamo saperlo. Lavorare sempre. Correre sempre. Ora ci siamo fermarti. Ci siamo guardati allo specchio. Ora abbiamo scoperto la morte: quella degli altri, e quindi la nostra. Perché il virus viaggia senza limiti. Ci salverà solo la compassione, l’umana vicinanza, la condivisione”.
“Non sento più nessuno ringraziare medici e infermieri. Perché? Abbiamo dimenticato tutto. No, non è questa la via!”.