“La cosa che mi pesa di più è mentire. C’è chi lo fa senza problemi, anche con un certo gusto, persino se non ha bisogno. Io, invece, che fin da bambina non ho mai amato dire bugie, ogni giorno sono costretta a inventare storie se voglio mantenere un minimo di relazioni sociali. E questo mi fa molto soffrire: quante volte ho avuto la tentazione di urlare il mio vero nome e raccontare chi sono davvero”.
Così Marianna F. – nome di fantasia – racconta la sua vita nel libro intitolato: Testimone di ingiustizia, pubblicato di recente da San Paolo e scritto con il giornalista Eugenio Arcidiacono (’75 Torino), una delle pochissime persone che è riuscita a conquistare la sua fiducia e conosce la sua identità.
Poco meno di 150 pagine – che ho trovato commoventi – in cui Marianna si descrive come un fantasma, risultato della sua scelta: quella di aver agito controcorrente rispetto a tante donne della sua terra.
La sua storia: siamo in Calabria, all’inizio degli anni ’90, dove i clan comandano con ferocia, non esistono ancora le associazioni antimafia e lo Stato sembra quasi inesistente.
Laureata a Pisa, Marianna lascia un lavoro promettente, molla i suoi sogni e decide con la sua famiglia di testimoniare, facendo arrestare alcuni boss, perché crede nella giustizia.
Ma da allora inizia il suo calvario. La ‘ndrangheta non dimentica e le ammazza due fratelli, Francesco – entrato in circuiti poco raccomandabili- e Luigi, il più piccolo. Per quest’ultimo l’organizzazione malavitosa usa un killer, Vincenzo, che Luigi aveva ospitato per alcuni mesi nella sua casa di Pisa.
Negli anni trascorsi dalla testimonianza, venticinque, senza una adeguata protezione dallo Stato, Marianna vedrà morire – schiacciato dalla sofferenza – suo padre, e ammalarsi sempre più il terzo fratello, schizofrenico, che non ha mai sopportato il distacco dal suo paradiso crotonese, quello “che avrebbe fatto la gioia di un pittore impressionista, dove crescono fiori di camomilla, sambuco, malva, origano, anice stellato, piante di liquirizia e fichi d’india, alberi di agrumi con limoni, clementine e arance sanguigne, dove pendono rami colmi di gelso, carrube, giuggiole e fichi, con le file di pomodoro rossi che sembrano esplodere sotto il sole”.
Oggi Marianna vive con sua madre, anziana e malata, e sua sorella, Chiara, ed è costretta a spostarsi di continuo perché alto è rischio di essere riconosciuta e ammazzata. Vivono con la pensione della mamma e di lavori saltuari.
“In questi anni – scrive Marianna- mi sono più volte iscritta in una palestra. Un po’ perché mi piace tenermi in forma e sfogare con l’esercizio fisico tutta la rabbia che ho dentro. Ma soprattutto perché così ho modo di parlare con qualcuno che non sia mia mamma o mia sorella. Il problema è che c’è un livello di confidenza oltre il quale so di non potermi mai spingere. Una volta, mentre mi stavo cambiando, una ragazza molto simpatica si è avvicinata e mi ha chiesto: Ho sentito che lavori al Ministero dell’Interno. Anch’io. Ma in che sezione? Non ti ho mai sentita nominare. Io ho raccolto di corsa le mie cose e ho farfugliato: Scusami, sono di fretta, ci vediamo la prossima settimana. Ovviamente in quella palestra non ho più messo piede”.
Marianna non può avere amici, non può farsi una famiglia. Negli ultimi venticinque anni ha avuto alcune storie sentimentali che ha dovuto interrompere quando i suoi partner le hanno chiesto di conoscere la sua famiglia e il suo passato. Il suo primo amore, Stefano, l’ha lasciata dopo aver letto sui giornali del fratello Luigi. Ma lei ha compreso e l’ha perdonato”.
Come vive? “Le mie giornate – scrive- trascorrono tutte uguali. Al mattino, faccio colazione, mi vesto, mi trucco, saluto mamma e Chiara e poi esco. Buon lavoro dottoressa Marianna, mi dice la vicina di casa quando mi incrocia sul pianerottolo. Quando sono venuta ad abitare qui, le ho detto che lavoravo per conto del Ministero dell’Interno e da allora lei pensa che sia ancora così. Invece, inizio a camminare per le strade della città. A volte entro in una biblioteca a leggere o in una chiesa a pregare. Ma spesso vago senza una meta precisa. Sono diventata una spettatrice estranea alla mia vita: così mi sento. Come Mattia Pascal, il personaggio di Pirandello, devo ricordarmi di continuo di non accostarmi troppo alla vita altrui, di sfuggire ogni intimità e contentarmi di vivere così, fuor fuori”.
Marianna avrebbe potuto fare come tante donne calabresi, a cui è riservato il tradizionale ruolo che le assegna la società contadina: quella di badare alla casa e all’educazione dei figli, perpetuando l’organizzazione malavitosa – perché sono loro che trasmettono nei bambini fin da piccoli il culto dell’onore e del sangue, della vendetta da portare a compimento quando il loro padre è morto o in galera. E invece, ha deciso di sfidare quella cultura che vede madri spesso invecchiate precocemente, vestite di nero, con il loro carico di odio da tramandare e ragazze usate come merce di scambio per combinare matrimoni tra le famiglie, utili a saldare nuove alleanze o a sigillare un patto di pace dopo una faida. Non solo, l’ha fatto come testimone, non come collaboratrice.
La differenza? “Se i collaboratori, spiegano i due autori, hanno una funzione statica e si limitano a raccontare quello che di cui sono a conoscenza – e la loro funzione si esaurisce con la testimonianza nei processi, i testimoni, figure introdotte nell’ordinamento a partire dal 2001 – hanno una funzione dinamica, soprattutto se rimangono nei paesi d’origine, perché ricordano che una via alternativa a quella della sudditanza alla mafia è possibile”.
“Fino a diciannove anni fa – racconta Marianna – non c’era alcuna differenza tra noi e i collaboratori di giustizia, gente che si era macchiata di crimini anche gravissimi e che, spesso per ragioni di pura convenienza, per ottenere, cioè, sconti di pena e altre agevolazioni, aveva deciso di raccontare quanto sapeva: I pentiti, insomma. Questa assimilazione era evidente nel modulo che ci fecero firmare per poter entrare nel programma di protezione: in esso era contenuto anche il nostro impegno a non commettere più reati, come se in passato li avessimo commessi, come se fossimo criminali pentiti delle proprie azioni. Quel giorno ci ritirarono i documenti. Ce l’avevano detto fin dall’inizio, quindi ce l’aspettavamo. Era per la nostra sicurezza. Quello che non ci avevano detto è che li avrebbero sostituiti con generalità false, che di fatto non servivano a nulla. Non riuscivo a crederci e così un giorno andai all’anagrafe per richiedere un certificato di residenza: volevo vedere se quel nome di fantasia avesse un corrispettivo nella realtà. L’impiegato inserì i miei dati della carta d’identità nel computer e mi dette il suo responso: Ma lei nel nostro archivio non esiste! Poi mi guardò con un misto di paura e disprezzo. Probabilmente immaginò che fossi una latitante, o comunque, una poco di buono che voleva tentare una truffa”
“In questi ultimi anni – scrivono Marianna e Eugenio- molte cose sono cambiate per i testimoni di giustizia. La Commissione antimafia che si insediò all’indomani delle elezioni del 2013 stilò l’anno successivo l’ennesima relazione in cui parlò di un sistema inesorabilmente invecchiato. Dopo un lungo iter, nel gennaio del 2018 è stata finalmente approvata una nuova legge che recepisce anni di nostre battaglie. Prevede misure sacrosante, ma non per tutti i testimoni, solo per chi, dal momento dell’approvazione, rientra in un programma di protezione”.
Marianna, tosta, ha continuato a lottare per ottenere un nuovo nome e l’assunzione in un posto pubblico. Tante le promesse ricevute dalla politica in questo quarto di secolo. Ma tutte vane.
E se le cose sono migliorate per breve tempo quando alla Commissione centrale per la gestione dei testimoni è arrivato Marco Minniti, che “firmò una delibera che consentiva a Chiara e a mia madre di restare nell’alloggio”, quindi di non essere sfrattate, la vita di Marianna continua ad essere un inferno. Complice anche il carattere dei calabresi, che non sanno aiutarsi tra di loro.
In Sicilia, per esempio, il presidente dell’Associazione dei Testimoni di giustizia, Ignazio Cutrò, imprenditore siciliano, ha denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori. La sua azienda non è più riuscita a risollevarsi, ma almeno ora lui lavora nel centro dell’impiego di Bivona, il suo paese. “Noi calabresi questa capacità di fare rete, di unirci per il bene di tutti, purtroppo non la possediamo. Prevale in noi l’ottuso orgoglio di potercela fare contando solo sulle nostre forze. I politici della nostra regione, d’altra parte, non hanno mai mostrato il minimo interesse nei nostri confronti. Così ci ritroviamo quasi tutti sradicati dalla nostra terra, con le nostre storie tutte simili che nessuno vuole ascoltare”.
Qualche giorno fa Marianna ha scritto di nuovo alla Commissione centrale per un lavoro, ma niente. Rifiuti spiegabili, secondo Eugenio, “con l’ottusità della burocrazia. Lei a rigore di legge non avrebbe diritto ad essere aiutata a trovare un nuovo lavoro perché l’ultima legge sui testimoni di giustizia è del 2018 e per lei non vale perché ha collaborato con la giustizia molti anni prima. Ma un conto è la legge e un conto dovrebbe essere l’umanità, credo, in virtù della quale, anche se è passato tanto tempo, lo Stato non dovrebbe dimenticare chi ha sacrificato la propria vita per la legalità. Sulla storia del cambio di identità, non so dare una risposta: mi sembra davvero totalmente incomprensibile”.
“Non ho raggiunto alcuna serenità – mi fa sapere Marianna, tramite Eugenio – anzi. E della scorsa settimana l’ultima delibera firmata dalla Commissione centrale, che ha rigettato per l’ennesima volta la mia richiesta di ottenere un posto di lavoro e un nuovo nome, le due condizioni che mi permettono di integrarmi nella società. Eppure i 5stelle in passato si erano schierati con tutti i testimoni di giustizia. Molti politici hanno agito allo stesso modo. Per farsi propaganda usavano le nostre storie di testimoni, pubblicandole sui giornali e accanto mettevano i loro nomi, proponendosi come salvatori e promettendo che, arrivati al Governo, avrebbero agito a nostro favore. Tutte chiacchiere. Delusioni anche da alcuni esponenti del Pd. Lo Stato non ha scontato alcuno degli errori che ha commesso, continuo la mia vita solitaria, fuori dalla società. L’unica colpa è di aver dato fiducia alle istituzioni. E aver agito controcorrente rispetto alle tantissime donne calabresi”.
La prefazione del libro è curata da Enzo Ciconte, docente di Storia delle mafie italiane di Pavia. Consulente della Commissione Parlamentare Antimafia dal ’97 al 2010, autore del libro, pubblicato di recente da Rubbettino: Alle origini della nuova ‘ndrangheta. Il 1980″
da: https://www.magazine.tipitosti.it