Sto pensando di finirla qui ((I’m Thinking of Ending Things) su Netflix. Di Charlie Kaufman
Quando ho letto il titolo su netflix ho pensato che il film non valesse la pena di essere visionato. Non avevo voglia di storielle d’amore finite, poi invece mi sono fatta trascinare dal trailer e mi sono immersa nel film. E alla sua fine ho ringraziato di averlo visto. Non ne fanno molte di tali produzioni specie su netflix. Ti lascia pensare.
Approcciandosi alle prime scene di Sto pensando di finirla qui, il fulcro del tormento della protagonista appare come una sorta di cherofobia, che le impedisce improvvisamente di vivere con spensierata serenità l’intesa col suo nuovo fidanzato. L’impossibilità di vivere bene il presente è alla base della storia del film, l’opera più ambiziosa e complessa di Charlie Kaufman.
Si parte dalla magia dei primi tempi dell’innamoramento, quando sembra di conoscersi da una vita ma in realtà sono passate solo poche settimane dal primo incontro Una ragazza nel fiore degli anni descrive il suo uomo attraverso tutte le caratteristiche amabili che lo definiscono e che la fanno sentire grata per averlo incontrato. Ma un pensiero la ossessiona:“Sto pensando di finirla qui” e ciò comincia a definirne involontariamente le percezioni. Un istinto all’apparenza incomprensibile, alla vigilia dell’incontro con i genitori del suo Jake, non motivabile con una effettiva presa di coscienza di una realtà indesiderabile, insistente: questa storia non ha futuro.
Un’ossessione che attanaglia oggigiorno molti giovani che all’inizio di una storia pensano già che prima o poi finirà, senza dare spazio all’ipotesi che possa continuare.
Ma ciononostante la protagonista non ha la forza di la forza di dire basta, ed ecco che la che la protagonista si trova invischiata in un vortice di angosciante estraneità, in cui l’unico desiderio diviene tornare a casa e riprendere contatto con una dimensione propria e rassicurante, lontana da Jake.
Il film è viaggio onirico negli abissi della mente umana, alla costante ricerca di un futuro migliore del presente e per questo vittima della sua stessa nozione di speranza. Un film che si muove su piani differenti ma tutti interconnessi da una fondamentale assunzione di base: tutto ciò che vediamo e viviamo è influenzato dalla nostra percezione.
La stessa trasposizione del regista dell’omonimo romanzo di Iain Reid è influenzata dalla poetica di Kaufman, i cui temi centrali ruotano attorno alla memoria, alla solitudine dell’essere umano, alla sua difficoltà di accettare qualunque forma di fine e all’inesorabilità della della condizione umana.
Il regista, appare intenzionato a far immergere il pubblico nelle elucubrazioni mentali di un uomo che cerca se stesso attraverso l’immagine idealizzata di una donna ideale. Una donna che non è altro che la sua stessa proiezione, come si scopre man mano che si affronta la visione.
La pellicola dà indizi continui circa la natura onirica e proiettiva degli eventi narrati: primo su tutti, l’impossibilità di individuare un nome univoco per la ragazza di Jake (Lucy? Louisa? Amy??), accompagnata dalle telefonate senza risposta che arrivano sul cellulare della giovane donna, che sembrano sulllo schermo del cellulare provenire da se stessa, o meglio, dal nome che in quel momento le viene attribuito dal fidanzato. Più avanti nel film, rispondendo a una di queste insistenti chiamate, si udirà solo una voce maschile, che le chiede aiuto perché angosciata da qualcosa di terribile che sembra in procinto di accadere, una voce a posteriori che sembra essere quella di Jake da anziano. Come apparità poi nel film stesso.
Ma non volendo spoilerare troppo questo bel film, vi lascio alla sua visione che solleverà molti dubbi nella vostra anima. Buona visione e buone riflessioni.