Ho scritto il libro Le Medici nei mesi del lockdown, tra marzo e giugno di quest’anno. In quei giorni così dilatati e insieme ristretti, ho ripreso una ricerca che avevo svolto tra il 2016 e il 2017 insieme ad un gruppo di ragazze universitarie. Nel 2016, quando Caterina Della Torre, direttrice editoriale della testata on line Dol’s, mi propose di scrivere per la sua rivista le biografie delle donne del casato Medici, io ne sapevo ben poco. Nello stesso periodo la Rai mandava in onda la prima serie de I Medici. Pur avendo visto solo i trailer, l’operazione televisiva mi convinceva poco. Le donne erano presenti, ma le vicende storiche si incentravano sulle azioni e sui pensieri maschili, le figure restavano figure di sfondo e di contorno: l’ennesima riedizione del famoso detto «Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna». Non sembrava, né a Caterina della Torre né a me, il punto di osservazione corretto. Cercando i primi testi per documentarmi, continuavo a scontrarmi sempre con la stessa cosa. Si parlava soprattutto degli uomini di casa Medici e solo di qualche donna. Quando i volumi sembravano incentrati solo le biografie femminili, scorrendoli mi accorgevo che spesso, con rapide giravolte, tornavano i mariti, i padri, i fratelli. L’interpretazione delle vicende biografiche, inoltre, ricalcava quella delle fonti storiografiche tradizionali, sempre poco attente e indulgenti con le vicende femminili.
Se le radici del libro sono in quegli articoli, da allora però sono cambiati i toni e le voci narranti. Questa volta, ad affiancarmi in una parte del lavoro, tre giovani donne, Livia Cruciani, Lucrezia Ramacci e Alessandra Rossi. Le fonti del lavoro di ricerca sono state soprattutto i testi scritti per convegni accademici, per riviste storiche, per incontri internazionali, tutti caratterizzati da una marcata connotazione di genere, ma poco conosciuti e divulgati. Il volume Le Medici ha questa ambizione: riunire il materiale biografico e le analisi storiche condotte secondo prospettive di genere e proporle come percorso di rilettura storica. Come si legge nell’introduzione al libro, l’obiettivo è stato quello di colmare «un divario che non è solo di notizie, ma di struttura», visto che «la Storia e le storie delle donne sono ancora in una fase di studio quasi pionieristica: assenti nei libri scolastici, pochissimo rappresentate nella toponomastica, del tutto ignote al grande pubblico (e anche a parecchi “esperti”)». Bisogna riflettere sul fatto che per leggere la Storia attraverso linee genealogiche femminili è necessario un rovesciamento dei punti di osservazione tradizionali. Una linea di discendenza patriarcale è una linea continua e omogenea, almeno fino a quando c’è discendenza. La linea genealogica femminile è, invece, inevitabilmente più varia e multiforme, «pluridinastica», con tempi e spazi più variabili rispetto a quelli maschili.
Chi sono state le donne del casato Medici?
La storia della dinastia medicea si fa cominciare con la figura di Piccarda Bueri, chiamata in famiglia Nannina, la cui dote di 1500 fiorini servì al marito Giovanni di Bicci de’ Medici come trampolino di lancio per entrare come socio nel sistema di cambio messo in piedi dal cugino Vieri. Sono le fondamenta della ricchezza e del conseguente potere della famiglia Medici. Dopo di lei Contessina de’ Bardi, moglie di Cosimo il Vecchio. Entrambe parsimoniose, non ostentavano il lusso, conoscevano ed esercitavano, come tutte le donne, l’arte del filare, governavano la casa, impartivano gli ordini ai fattori, lasciavano le disposizioni per i lavori da svolgere e non si sottraevano alla gestione del Banco contribuendo all’accumulo di ingenti fortune.
Con il passare dei secoli, man mano che il ruolo della famiglia Medici cresceva nelle vicende economiche e storico-politiche italiane ed europee, cambiò il ruolo femminile. Si fece più politico e internazionale, le figlie e le sorelle Medici diventarono strategiche nell’ascesa al potere, come lo furono le donne che entrarono con le nozze a far parte del casato. È stato scritto che le donne del casato toscano seppero svolgere “un gioco di squadra” all’interno delle vicende familiari. Credo sia vero, pur non dimenticando che in questo gioco di squadra gli strumenti in dotazione e i ruoli sono stati profondamente diversi rispetto a quelli degli uomini.
In che consisteva e come si sviluppava questo “gioco di squadra” delle donne Medici?
Era determinante soprattutto il matrimonio, visto come un percorso di crescita e affermazione politica per l’intera famiglia. In un primo momento le alleanze matrimoniali furono costruite negli ambienti fiorentini; poi, e sempre con più ampie prospettive, si aprirono allo scacchiere politico italiano ed europeo. È stata Lucrezia Tornabuoni, donna di grande cultura e altrettanta lungimiranza, a comprendere per prima come fosse necessario, per raggiungere il vero potere, andare oltre i confini delle mura di Firenze. È stata lei a volere nuove alleanze matrimoniali e a guardare a Roma, la città del papato. Il grande potere era lì. Con lei cominciò l’ascesa politica, perché Lucrezia ebbe una mente politica.
Le figlie e le sorelle Medici sono state tutte pedine nella politica matrimoniale del casato. Non toccò loro il destino della monacazione forzata; erano più utili per rafforzare il potere dinastico, che giunse ai momenti più fulgidi con le nozze di Caterina e Maria de’ Medici con i rampolli della corte di Francia. Ciò che appare ai nostri occhi come un destino infelice e imposto, è stato sentito da molte di loro come un compito importante. Sposarsi per mettere al mondo la prole, necessaria al proseguimento della stirpe, è stato per loro un impegno importante, fondamentale anche se gravoso, spesso rischioso. Sono molte le donne morte per febbre puerperale, come accadde a Maddalena de la Tour d’Auvergne, madre di Caterina de’ Medici, o sfiancate dalle innumerevoli gravidanze.
Queste donne sentivano la responsabilità della procreazione, un percorso esistenziale al quale erano destinate ed educate fin da piccole, che interiorizzavano nel profondo dell’animo. E nel caso in cui i figli non arrivavano, il loro ruolo si faceva difficile e incerto, come difficile e incerto era il ruolo delle nubili e delle vedove, trascinate inevitabilmente dalla loro condizione ai margini della famiglia, in una sorta di limbo che lentamente le fece scomparire dalla storia.
Tutte consenzienti? Oppure ci furono dei casi di ribellione?
Il matrimonio come destino era accettato come un necessario “servizio” per la famiglia, non per se stesse. Qualcuna però cercò di ribellarsi. Per esempio Margherita d’Asburgo, la figlia dell’imperatore Carlo V, rimasta presto vedova per la morte del marito Alessandro de’ Medici, fu costretta a sposare in seconde nozze Ottavio Farnese, nipote di papa Paolo III. Margherita non ne voleva sapere, si oppose in tutti i modi alle nuove nozze. Poi dovette cedere e cambiò strategia. Non rispose “sì” alla formula di rito delle nozze, scelse di restare a vivere nel palazzo ereditato dal primo marito rifiutando ogni rapporto fisico col marito e lasciando Ottavio fuori dal talamo nuziale, accusandolo di lavarsi poco e di vivere in modo non degno del suo rango. Sperava che, non consumando il matrimonio, il legame sarebbe stato annullato. Voci del tempo riferiscono anche di una improvvisa malattia dello sposo, in realtà colpito al viso, secondo le testimonianze di un rappresentante della corte medicea, da una gran manata sferrata da Margherita probabilmente per sottrarsi alle avances del marito. Quel rampollo romano, più giovane di lei, non le piaceva proprio. Alla fine, però, la ragion di Stato ebbe la meglio.
Un’altra Margherita diede filo da torcere al casato. Margherita Luisa d’Orleans fu costretta a sposare il granduca Cosimo III e, tranne un breve periodo iniziale, l’unione matrimoniale fu un sacrificio sovrumano per lei, che fece di tutto per fuggire da Firenze e dalla corte medicea. Chiese al marito la separazione visto che la situazione fra loro creava a entrambi molta infelicità. Una richiesta che ora giudicheremmo lucida e sensata, ma che allora invece fu respinta. Il tono delle missive di Margherita Luisa al marito granduca si trasformò allora in invettive molto minacciose: «Non ci è ora alla giornata che io non vi desideri la morte e che io non volessi che voi fussi impiccato. […] vi giuro per quella cosa che odio di più, che è voi, che io farò i patti col Diavolo per farvi arrabbiare e per sottrarmi alle vostre pazzie. Basta, tutte le stravaganze che potrò fare per dispiacervi le farò, e questo non me lo potete impedire. La vostra devozione non vi servirà a niente, e potete fare quello che volete perché siete un fiore di ruta, Dio non vi vuole e il Diavolo vi rifiuta».
Cosa comportava il matrimonio?
Per le giovani aristocratiche che andavano spose ai Medici o per le figlie e sorelle Medici che sposavano aristocratici non fiorentini, il matrimonio significava spostamento, allontanamento e drastico cambiamento. Al momento delle nozze non mutava solo la loro condizione, si rivoluzionava tutta la loro esistenza. Poco più che bambine, abbandonavano la famiglia, gli affetti, cambiavano città, in alcuni casi nazione, perdendo in poco tempo i punti fermi nella loro breve vita. Venivano catapultate in una cerchia familiare sconosciuta e non sempre disposta ad accoglierle con calore; se straniere cambiavano usi, costumi, lingua, con un disagio che non è difficile immaginare. Eppure questa separazione dal proprio mondo poteva costituire l’occasione per raggiungere il potere. Se come figlie non potevano sperare di essere coinvolte nella successione e trasmissione dello scettro, come mogli e madri (nel caso di vedovanza) potevano raggiungere il governo e la diretta gestione del potere. È il caso, per citarle ancora una volta, delle due regine di Francia, Caterina e Maria de’ Medici. Ma è anche il caso di Cristina di Lorena e di Maria Maddalena d’Austria a Firenze e di Claudia de’ Medici in Tirolo, tutte reggenti dello Stato per conto dei figli ancora piccoli. Nonostante la reggenza fosse un istituto fondamentale per la continuità della dinastia e del potere, è stato interpretato negativamente dalle fonti storiografiche. È diventato sinonimo di malgoverno, di amministrazione debole e capricciosa, talvolta fatale per lo Stato, come si è tramandato per i periodi di reggenza di Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria; nefasto e criminale come è stato scritto per i governi di Caterina e Maria de’ Medici. Il loro governo, percepito come necessario ma transitorio, legittimato solo per necessità, è quasi un’usurpazione, legale ma pur sempre usurpazione di ruoli che non spettavano alle donne.
La Reggenza è stata l’unica forma di potere consentita alle donne?
Le donne del casato Medici, come altre figure femminili delle grandi famiglie aristocratiche, seppero esercitare forme di potere. Sono state, però, forme di potere differenti rispetto a quelle maschili, più in ombra, meno scontate, a lungo considerate marginali dalla storiografia tradizionale e quindi del tutto ignorate o poco studiate e indagate. Mi ha molto colpito, per esempio, il caso di quella che è stata definita una“cordata plurigenerazionale”: Cristina di Lorena, la nonna, Maria Maddalena d’Austria, la madre, Margherita de’ Medici Farnese, la figlia, Vittoria della Rovere, la nipote, sono state esempi femminili di solida autonomia economica, politica e culturale. Protessero artiste, letterate, musiciste, cantanti dando vita a modelli di mecenatismo matrilineare (matronage) in cui furono coinvolte altre nobili, una rete di relazioni che assicurò ad artiste, umaniste, cantanti, compositrici, esecutrici il giusto riconoscimento e il sostegno in altre corti italiane ed europee. Attraverso la stessa rete di relazioni portarono avanti importanti forme di maternage, interventi di filantropia sociale, attraverso le quali seppero esercitare il potere personale e legittimare il proprio ruolo dinastico.
Un altro aspetto che ha accumunato queste donne aristocratiche?
La fierezza dinastica è un altro aspetto di queste figure femminili, sia le Medici per nascita che le aristocratiche giunte nella famiglia col matrimonio.
Clarice de’ Medici Strozzi, per esempio, sentì in pieno la forza del suo cognome e agì in modo così determinato nel risollevare l’onore perduto della sua stirpe, da far dire a suo zio papa Leone X Medici «Ben per la casa nostra se la Clarice era Lorenzo e Lorenzo la Clarice». Evidentemente il fratello Lorenzo era fatto di un’altra pasta rispetto a sua sorella Clarice.
Maria de’ Medici affidò a Rubens la celebrazione della sua vita e del suo potere: la serie pittorica Le Glorie e le lotte di Maria de’ Medici accoglieva nel suo Palais du Luxembourg tutte le persone ospiti che, recandosi a colloquio con la regina, ripercorrevano le sue vicende biografiche. La stessa cosa ha fatto anche Maria Maddalena d’Austria negli affreschi della villa di Poggio Imperiale, dove ha voluto celebrare il suo casato d’origine, gli Asburgo, e legittimare il suo ruolo politico sulla Toscana.
Infine Anna Maria Luisa de’ Medici, l’ultima Medici, la cui fierezza dinastica non ha eguali. Non riuscendo a ottenere il diritto a succedere al padre Cosimo III, perché la successione avveniva solo per linea maschile, fiera del nome della sua casata, vincolò col suo Patto di famiglia il patrimonio artistico mediceo alla città di Firenze e alla Toscana, rendendo eterna la memoria dinastica nel momento stesso in cui la stirpe cessava di esistere.
Articolo di Barbara Belotti
Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.