Ho incontrato Antonella durante la mia recente partecipazione a EDIT Napoli lo scorso ottobre – https://editnapoli.com/ – e sono rimasta folgorata dal suo sorriso smagliante. Antonella Venezia è architetto “come tradizione di famiglia”. Curiosa per natura, si nutre della bellezza che ricerca nelle arti visive, così come dentro la natura e i paesaggi umani che ha attraversato e, appena può, continua a percorrere, per riportare l’emozione che ne scaturisce dentro la sua progettazione sulla piccola e grande scala. Figlia e sorella di architetti, si laurea a Napoli, presso la Federico II nel 1992, entrando in associazione professionale con il padre ed il fratello, costituendo lo studio di architettura VENEZIATRE architetti associati.
Gli anni novanta rappresentano il boom economico dove, grazie al padre, ha potuto lavorare in cantieri residenziali e privati che, comunemente, vengono definiti di lusso. Da sempre, ciò che l’ha attratta è l’attenzione, quasi maniacale, alle forme e ai materiali, tanto da scrivere persino un piccolo libro sul design del gioiello: SEGNO E MATERIALI.
Ha approfondito il suo percorso insegnando per undici anni, come assistente volontaria, al corso di Progettazione Architettonica II del professor Riccardo Dalisi, presso la facoltà di architettura di Napoli. E’ in quel periodo che ha perseguito una tematica che ha poi amplificato e rapportato ad ogni sua progettazione: L’EMOZIONE. Questo il filo conduttore di ogni suo lavoro. L’aspetto – che Antonella ama definire – ludico del suo essere architetto, lo riscopre nell’approccio al design del gioiello, studiando e approfondendone lavorazioni e discipline. Questo l’ha portata ad insegnare Design del gioiello, per dieci anni, presso la seconda facoltà di architettura di Napoli, la Luigi Vanvitelli. Il ventaglio di preparazione e conoscenza, visto che è cresciuta tra tavoli da disegno, tecnigrafi e carta lucida, ha fatto di Antonella una donna architetto, interessata ad ogni piccola sfaccettatura che la composizione impone, realizzando gioielli e oggetti di design, senza mai abbandonare la progettazione architettonica. Fonda il gruppo “desigN 41•14 le coordinate del gioiello” costituito da maestri orafi campani, architetti e designer, portando il gruppo dei sette professionisti attraverso mostre, esposizioni e sfilate, affinché l’alto artigianato orafo contemporaneo venga diffuso e riconosciuto per le sue peculiarità.
Inoltre, sempre nell’ambito del design, è socia ADI – l’associazione designer italiani – e fa parte del Consiglio Regionale Campania. Attraverso l’associazione è sempre vigile ed attenta alle trasformazioni culturali che il design impone, partecipando a convegni e manifestazioni di settore.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura? Nonostante abbia un papà architetto ed un fratello, Luigi, più grande di me di un anno che ha seguito le impronte paterne, non sono mai stata condizionata nelle mie scelte. Apparentemente la decisione di far parte dello studio di famiglia, poteva sembrare quella più immediata e semplice anche se, chiaramente, così non è. Se sei un giovane titolare, senti di dover essere molto più preparato degli altri collaboratori, creando una sorta di competizione interiore con il resto della famiglia. Naturalmente quando mi diplomai al liceo scientifico il mio papà si aspettava la scelta dell’università più logica da parte mia, ma in verità la decisione è nata solo ed esclusivamente dalla mia volontà. Oggi sono felice di avere seguito le impronte familiari.
Cosa significa per te fare architettura oggi? Fondamentale è la capacità di saper interagire con i luoghi in cui andiamo a progettare. Sempre più spesso vedo realizzazioni di colleghi decontestualizzate dalle preesistenze e questa attitudine rappresenta per me un errore irreversibile. Per arrivare a riconoscere la contestualizzazione bisogna studiare, approfondire, osservare, farsi trasportare dalle sensazioni che il luogo stesso ci comunica. È un esercizio vero e proprio che, come la palestra, bisogna praticare quotidianamente, per ottenere risultati soddisfacenti.
Essendo oggi cambiati gli scenari delle reali necessità legate ad un appartamento come ad un progetto di urbanistica, vanno riprogettati e pensati spazi comuni e zone a verde, per rendere più confortevole la permanenza domestica, ormai sempre più connotata dal lavoro in smart working. È sempre più necessario concentrarsi sulla progettazione legata alle classi più fragili, ovvero i bambini e gli anziani. Bisogna rivoluzionare il vivere quotidiano, rendendolo più semplice, fruibile, alla portata di tutti. Andrebbero riqualificati tutti gli spazi urbani che versano in stato di degrado, per non renderli solo ricettacolo del nulla. Sono necessarie più librerie concepite non secondo i vecchi schemi, ma come spazi in divenire; luoghi dove incontrarsi, commentare, assistere ed interagire con il resto del mondo, sperimentare macchinari innovativi – come per esempio le stampanti 3D – lavorare a ricerche; insomma, un nuovo modo di concepire lo spazio aggregativo che non può più essere solo una multisala o qualche panchina messa a caso nei parchi.
A chi ti ispiri? Risposta per me facile: a mio padre, dal quale ho imparato tutto della professione; dalla progettazione capillare – in scala al vero – di tutte le ebanisterie, fino alle realizzazioni di controsoffitti avveniristici; tutto insomma, ma non solo come tratto bidimensionale, ma sezionando ed approfondendo ogni piccolo dettaglio.
La mia fonte di ispirazione, ad ogni modo, non si fonda sui progetti di altri colleghi, che vivono e operano in altri contesti. Io vado a vedere mostre d’arte, dal contemporaneo al classico; leggo molto; mi incanto ancora di fronte a scenari e tramonti, ed è da qui che traggo la mia ispirazione, a volte dettata da un colore, un gesto, un timbro di voce.
Architetto o architetta? Premesso che non mi interessa l’inquadramento di genere in nessun ambito, trovo logico la congiunzione di archi-tetto più che archi-tetta.
Come concili l’attività professionale con i tuoi variegati ambiti di interesse? Il mio ambito di interesse più grande, oltre l’architettura, è il design del gioiello che – almeno apparentemente – è la scala più piccola del design ma che, in effetti, per me è la più grande, in quanto si rappresenta in scala al vero. Come ho già detto, ogni mostra a cui intervengo, sia come visitatore che come espositore, ogni rappresentazione a cui assisto o partecipo, insomma ogni ambito di interesse che approfondisco, non fanno altro che arricchire il mio percorso di architetto, quindi conciliarne gli aspetti è assolutamente insito in sé.
Quali ripercussioni ha avuto sul lavoro il tuo essere una donna? E in tal senso, hai riscontrato sostanziali differenze di comportamento all’estero? Il lavoro professionale svolto da una donna ha, purtroppo ancora oggi, degli aspetti discriminatori, ma tutto sommato, tante volte ha rappresentato anche un aspetto vantaggioso. In effetti è una condizione che vivo poco, in quanto essendo oggi in studio professionale con mio fratello, gestiamo insieme tutta la progettazione, approfondendo poi individualmente gli aspetti in cui ciascuno di noi è più incline e quindi governa con maggiore padronanza. All’estero, a Londra in particolar modo, non ho trovato grandi differenze dall’orientamento italiano, e nemmeno in Svizzera o in Francia, dove ho lavorato sempre in ambito privato.
Affermarsi professionalmente e salire ai livelli più alti è più difficile per le donne che si muovono dentro la tua professione? Assolutamente sì, nella mia così come in tutte le professioni, o quasi. Dobbiamo necessariamente dare di più per arrivare ad essere equiparati ai nostri colleghi, poi aggiungiamoci che siamo madri, mogli e gestrici di tutto l’ambito domestico; quindi, risposta ovvia. Ma mentre prima mi battevo di più su quest’aspetto, oggi a 53 anni e con l’esperienza di cantiere accumulata nel tempo, non riscontro alcuna difficoltà di risoluzione di qualsiasi tipo di problematica e pertanto, onestamente, non ci penso proprio più.
Ti sei mai sentita discriminata nel corso della tua carriera? Assolutamente sì, come credo tutte le mie colleghe ma non è mai stato per me motivo di polemica o disagio.
Qual è stato il progetto che ti è rimasto nel cuore? Difficile per me rispondere. Ci sono i primi progetti ai quali ho lavorato con mio padre, che hanno rappresentato la formazione, quella vera, quella che sai di cominciare alle otto di mattina ma non sai a che ora finirai la sera. Progetti nel corso dei quali vedevi (perché allora non c’erano i cellulari) che gli amici si incontravano al solito posto di ritrovo e tu a fissare l’orologio perché era troppo tardi per raggiungerli. Comunque di lavori interessanti e appaganti ne ho fatti tanti; quelli che sento più vicini, forse perché napoletana e quindi abituata al sole, al mare, all’aria pulita, sono quelli di terrazzi che si aprono su scenari panoramici da lasciare senza fiato. Oltre ai progetti sviluppati sull’isola di Capri, la mia isola del cuore.
Che cos’è per te la Bellezza? Oscar Niemeyer afferma che fare architettura è fare bellezza, non intesa come valore solo per chi la crea, ma soprattutto per chi la vive. Ecco, questo suo pensiero coincide con il mio. La bellezza – concetto chiaramente astratto – deve suscitare emozione in chi la crea ed in chi la fruisce, altrimenti è un mero esercizio progettuale. La bellezza è il rimanere incantati di fronte ad un particolare che attira il nostro interesse. Etica ed estetica, al tempo dei greci, erano sullo stesso piano, capisaldi di tutta la filosofia. Il problema non è solo quello di ricercarla, ma di perseguirla, divulgarla, insegnarla, sollecitando ogni fonte di ispirazione emozionale. Ed è a tal proposito che per questo aspetto mi reputo una privilegiata, per essere stata tanti anni vicino al Maestro Riccardo Dalisi che ha fatto dell’emozione la sua filosofia di vita. Io, accanto a lui, ne ho assorbita ed assaporata – se si può dire di elemento astratto – davvero tanta.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro e nel quotidiano, con la tecnologia? Sono affascinata da ogni forma metodologicamente evolutiva del lavoro. Ne resto affascinata ma, essendo della classe 1967, non sono cresciuta con essa; mi sono dovuta adeguare ma, onestamente, ogni forma di progettazione, sia architettonica che di design, la eseguo ancora a mano libera, facendo completare attraverso il mezzo meccanico ai miei giovani collaboratori. Il rapporto intimo che ho con le matite, gli acquerelli, i pennarelli e la carta cerco di non perderlo, utilizzando la tastiera o il mouse di un computer solo quando strettamente necessario.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente? Seguo tutto personalmente. Non solo perché responsabile di eventuali errori ma proprio perché non mi piace tralasciare nulla di ciò che ho pensato. Ad ogni modo lascio a chi lavora con me lo spazio di proporre modifiche: mi piace il lavoro di equipe in cui ci si scambiano idee, pareri, osservazioni. Mi sono formata nello studio di famiglia dove ci riunivamo per discutere sulle scelte, la programmazione, gli obiettivi e anche oggi, mio fratello ed io, ci regoliamo allo stesso modo con i nostri collaboratori.
Cosa consigli a chi vuole intraprendere una carriera come la tua? Forse la risposta sta nel fatto che mio fratello ed io abbiamo entrambi una sola figlia femmina, ed entrambe hanno scelto di procedere negli studi universitari in ambito completamente diverso dal nostro; quindi, non avendo altri “eredi” di studio, il problema lo abbiamo un po’ accantonato. Non voglio essere demoralizzante, assolutamente, ma credo che oggi come oggi i giovani architetti devono approfondire tutti gli scenari, studiare confrontandosi con chi ha gettato le basi della progettazione architettonica. Bisogna fare esperienze all’estero, non perché soffro di esterofilia, ma perché reputo indispensabile il confronto con mentalità e scenari diversi dal nostro. Una cosa senz’altro posso dirla, da architetto ed ex docente universitario: non perseguire assolutamente gli indirizzi triennali, per chi vuole esercitare la professione di architetto, ma svolgere i percorsi magistrali per poi specializzarsi in settori di interesse, oltre a compiere una formazione presso studi professionali che non releghino i giovani architetti a svolgere solo pratiche burocratiche. Oggi, tra veloci tutorati e lauree brevi molti ragazzi si sentono i “nuovi Renzo Piano” dello scenario internazionale ma non è così, tocca armarsi di umiltà, pazienza e tanta voglia di assorbire tutto lo scibile di questo mondo complesso, ma affascinante.
Pensi che nell’Italia di oggi ci siano ancora dei pregiudizi nei confronti di una donna architetta? Non è solo un problema italiano. Credo che nella maggior parte del mondo sia così. Tanti passi sono stati fatti ma tanti di più se ne dovrebbero fare. Solo alcune professioni si salvano da discriminazioni di genere tipo quelle di ricerca in ambiti scientifici. Per il resto, pazienza: abbandoniamo i tacchi, impariamo ad essere femminili anche con gli anfibi da cantiere e andiamo a lavorare serenamente, ma sempre e solo se si è realmente preparate a farlo.
Quali sono le caratteristiche o le qualità che prediligi nella selezione dei tuoi collaboratori\trici? L’aspetto che prediligo è che ci sentiamo davvero una squadra, dove, pur nel rispetto dei ruoli, siamo liberi di poterci esprimere nel confrontarci, nell’essere propositivi. Onestamente come gruppo funzioniamo e questa è l’arma vincente per lavorare serenamente.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi alla facoltà di architettura? Perché no? Il consiglio è un altro: studia, partecipa a convegni, mostre, aggiornamenti, leggi libri di settore, approfondisci la storia dell’architettura, sii curiosa; progetta innanzitutto le tue radici prima di far crescere l’albero … altrimenti il vento ti spazzerà via in un momento.
C’è una donna architetta o designer a cui ti ispiri? E una artista? Sicuramente un’attenzione particolare ricade sulle donne del Bauhaus, diventate nel tempo icone del design e dell’architettura, a dispetto di quanto lo stesso Walter Gropius asseriva: che nonostante la scuola non facesse discriminazione di genere per l’iscrizione, vedeva più idonei per le donne settori bidimensionali come la tessitura e la ceramica, preferendo per gli uomini gli indirizzi tridimensionali come la scultura e l’architettura. Tra queste, mi piace ricordare Marianne Brandt, la prima a essere stata ammessa al corso di lavorazione dei metalli, i cui modelli sono adoperati ancora oggi da Alessi. Tra le artiste, mi affascina da sempre la pittrice inglese Bridget Louise Riley (Londra 1931), una delle principali esponenti del movimento artistico dell’Op.art, corrente che si basa sul tentativo di impressionare l’occhio umano. Resto ipnotizzata davanti alle sue opere, sia quelle colorate che quelle in bianco e nero, sento che rispecchia il mio modo di pensare, con tratti geometrici, colorati e non: rapire lo sguardo facendo emozionare l’osservatore.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata? Gli oggetti di design ai quali sono particolarmente affezionata e che, in un certo qual modo, hanno condizionato tutta la mia ricerca personale, sono i gioielli realizzati in esclusiva da Cleto Munari, disegnati dai più grandi architetti e designer internazionali, da Ettore Sottsass jr, a Riccardo Dalisi, a Sandro Mendini e tanti altri. La cosa che mi attrae nei loro gioielli, non è solo la magistrale realizzazione ma il concetto che portano con sé e che rappresenta il mio modo di progettare la piccola scala: l’attenzione che viene riposta nel gioiello è la stessa di quella impiegata per la progettazione di opere architettoniche di ben più ampia scala. Per l’architettura sono affascinata dalla Sezione Aurea, a mio avviso l’equilibrio progettuale che rappresenta la maggior proporzione fisica. Non amo particolarmente, seppur mi affascinino, tutte le realizzazioni fatte di linee sinuose, a volte dal tratto morbido, apparentemente fuori schemi geometrici. Io sono più razionalista, mi piace gestire tutto il percorso progettuale, attraverso la geometria razionale che, se si conoscono le proporzioni, fa scaturire le opere che più amo, da Wright a Le Corbusier, a Ponti…sempre e solo geometria.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai…. Un buon caffè, la pipa, centinaia di carte e la foto di mia figlia.
Una buona regola che ti sei data? Non lavorare mai il sabato e la domenica, non tanto per riposare, ma per dedicarmi a tutto ciò che può essere di compendio al mio lavoro: viaggi, mostre, rappresentazioni, incontri con artisti e colleghi.
Il tuo working dress? Di fondo mi piace il nero, ma sempre e comunque accompagnato con qualcosa di vistosamente eccentrico come i calzettoni o le scarpe, oppure accessori come orecchini e brooch abbastanza vistosi.
Città o campagna? Città tutta la vita. E’ difficile per un architetto pensare alla campagna come abitazione stabile. Va bene per ritrovare sé stessi, tra odori, colori, buon cibo e vino, ma sempre nella consapevolezza di rientrare in città, specialmente la mia Napoli che, seppur estremamente caotica, rappresenta per me il vero ombelico del mondo, per la sua vita pulsante, la cultura, i colori, le atmosfere, la libertà di sentirsi poco costretti dentro comportamenti conformistici da cui rifuggo, perchè troppo spesso nascondono falsità ed ipocrisie.
Qual è il tuo rifugio? Il mio rifugio è quello di chiudermi in camera con mia figlia Carolina e organizzarci i nostri viaggi. Insieme siamo andate ed andiamo ovunque, quando viaggiamo nutriamo gli stessi interessi e le stesse passioni. Amiamo compenetrarci nelle abitudini locali, il cibo, i musei. Adoriamo perderci nelle stradine per poi ritrovarci in punti che offrono scorci particolari. Si, il mio rifugio, è progettare le partenze mia figlia ed io da sole.
Ultimo viaggio fatto? Siamo ritornate per la milionesima volta, mia figlia ed io, a Londra, perché volevamo vedere la mostra di Tim Walker al V&A Museum.
Il tuo difetto maggiore? Dato che sono dotata di moltissima pazienza, porgo sempre il fianco, sono poco reattiva anche quando occorrerebbe una presa di posizione più determinata, però, quando proprio non ce la faccio più, è difficile che dia la possibilità di un’ulteriore proroga, cioè quando ho chiuso … ho chiuso.
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere? La capacità di mediare. Non sono mai stata una persona propensa allo scontro, assolutamente. Quella si saper mediare, ascoltare, comprendere, credo sia quasi un dono. Troppo spesso vedo persone che si approcciano agli altri in maniera aggressiva, poco corretta, superficiale e tutto questo non mi piace, è molto lontano dal mio modo di essere.
Un tuo rimpianto? Se proprio devo trovane uno, quello di non aver vissuto all’estero per lunghi periodi, quello mi è mancato. C’è da dire, inoltre, che l’abitudine a far studiare o lavorare i figli fuori i propri confini, non appartiene a quelli della mia generazione, ma a quella di mia figlia.
Work in progress…. Oltre la produzione orafa che prosegue in maniera sempre più soddisfacente, sto lavorando in molti cantieri di edilizia privata, restando in attesa che si possano riaprire le manifestazioni e ritornare a portare il mio gruppo orafo a sfilare in altre parti del mondo.