Quando al primo schiaffo capisci tutto…
Racconto breve di Marisa Ayroldi
Grazie, dissi… facendo scorrere la mano sulla guancia tumefatta e l’occhio gonfio che stavano cambiando colore; sono molto belli questi fiori, del mio colore preferito.
Mi girai per cercare il portafiori, in realtà non volevo mostrare il disgusto che provavo e dovevo resistere alla forte tentazione di lanciare quel mazzo di fiori nella pattumiera.
Poi lo guardai. Lui era rimasto lì, nel vano della porta, quasi che la distanza gli consentisse di godersi meglio il momento; come se si aspettasse che lei gli corresse incontro riconoscente.
Quando capì che non ci sarebbe stato niente altro oltre i ringraziamenti, un po’ offeso si trasferì nel saloncino dove regnava sovrana, davanti al divano, la sua “bambina”. Una TV 65 pollici dotata di tutti i possibili abbonamenti per seguire lo sport, più esattamente tutte le trasmissioni annesse e connesse al calcio.
Quando era cominciato tutto questo? Non sapevo dirlo, forse perché non avevo saputo riconoscere, all’inizio, i segnali della deriva che stava prendendo il nostro rapporto.
Avevo avuto una giornata pesante, in ufficio. Lavoravo come responsabile della segreteria di una importante azienda commerciale. Come sempre accade in prossimità della fine dell’anno improvvisamente anche le pratiche che per tutto l’anno e fino ad una settimana prima galleggiavano sulle scrivanie, volutamente ignorate, dovevano essere definite e chiuse.
Ciononostante preparai la cena e apparecchiai la tavola con cura, come sempre. Almeno questo, il gusto per le cose belle e la cura per i dettagli non era riuscito a distruggerli, non ancora.
Mentre cenavamo lui raccontava divertito un aneddoto avvenuto nello Studio associato di avvocati dove era riuscito ad inserirsi da quattro anni. Sembrava di buonumore e pensai che forse era il momento giusto per parlare della cena di Natale.
Nel mio ufficio tutti gli anni, a ridosso delle feste natalizie, le donne – che erano in prevalenza – organizzano una “cena di Natale” tutta al femminile per scambiarsi gli auguri e i regali.
Avevo sempre partecipato a queste cene anzi le aspettavo con gioia perché erano l’unica occasione in cui potevo ancora rivivere l’atmosfera natalizia. Figlia unica, miei genitori erano stati comunisti puri che invece delle favole mi raccontavano di operai licenziati, famiglie che non riescono a campare, bambini che muoiono di fame.
Mio padre, ingegnere, lavorava sulle piattaforme petrolifere rimanendo lontano da casa parecchi mesi all’anno – mia madre, professoressa di lettere, impegnava il suo tempo libero facendo corsi di italiano agli stranieri immigrati.
Questo, per quanto strano possa sembrare, alla fine si rivelò una fortuna per me perché venivo affidata quasi in maniera esclusiva alla nonna materna. Alla nonna, che aveva fatto fino alla quinta elementare, piaceva molto leggere per se stessa ma anche leggere le favole alla nipotina prima che si addormentasse.
Era lei che mi regalava libri e giocattoli. La nonna era anche cattolica praticante e, nonostante le proteste della figlia e del genero, ogni anno addobbava, con il mio aiuto, l’albero di Natale e preparava il presepe rigorosamente senza Gesù Bambino. La sera del 24 dicembre, insieme al nonno, tutti e tre portavamo il bambinello in processione nel presepe, mi veniva dato il regalo e dopo venivo accompagnata dai miei genitori per la prosecuzione delle vacanze natalizie che erano sempre molto spartane e anche un po’ noiose. Questa “tradizione” la portammo avanti fino ai miei 10 anni quando venne a mancare la nonna.
Da quel momento tutto cambiò, la nonna fu sostituita da varie baby sitter e la notte di Natale con i nonni divenne un ricordo sempre più sfumato e sostituito da raduni più o meno informali prima con gli amici dei genitori poi con i miei, di amici. Ma la magia del Natale non c’era più.
Dunque quelle “cene di Natale, l’atmosfera rilassata e gioiosa, il chiacchiericcio con le colleghe, l’albero, gli addobbi, gli auguri, i buoni propositi, tutto mi diceva che si avvicinava Natale; me ne beavo e per qualche ora, in cuor mio, tornavo bambina anche se ero consapevole che poi, il Natale l’avrei trascorso a casa dei miei genitori, giocando a burraco con mia madre o a scacchi con mio padre e facendo finta che fosse un giorno qualsiasi.
Lui era arrivato in un momento particolare della mia vita. Avevamo scoperto da qualche anno che mia madre era affetta dalla malattia di Alzheimer e mio padre, che se ne prendeva cura con pazienza e dedizione, era morto improvvisamente per un infarto. Dopo aver assunto e licenziato un numero considerevole di badanti o presunte tali, alcune delle persone a me vicine mi suggerirono di portarla in una struttura per pazienti malati di Alzheimer.
Fu una decisione molto difficile e sofferta perché, pur non essendo stata una madre tradizionale (il mio ritornello da adolescente quando litigavamo era “perché non sei come le altre mamme?”), ora mi rendevo conto che nei momenti di difficoltà lei c’era sempre stata silenziosa ma presente.
Galeotta fu la cena di compleanno di un amico a cui ero stata trascinata, riluttante, da un’amica intraprendete. C’era anche lui, non bello e nemmeno atletico ma con un’aura di sicumera che lo faceva brillare, nel gruppo.
Anche io non scherzavo. Da ragazza riuscivo bene negli studi, per carattere ero molto socievole e con la tendenza ad esercitare una simpatica ironia ed ero carina, per cui a scuola ero sempre stata molto richiesta nei gruppi.
Inoltre l’appartenenza ad una famiglia benestante, nonostante i miei genitori mi ricordassero spesso di non approfittare della mia condizione di privilegio, mi conferiva una condizione di rilassatezza e mi faceva essere bendisposta verso gli altri.
Ora, ero quella che si definisce una donna di successo, laureata, con un lavoro sicuro e ben retribuito, una bella casa di proprietà e una cerchia di amici storici che, in quel momento delicato della mia vita, mi stavano vicino con affetto. Teoricamente anche io emanavo simpatia e sicurezza.
Dopo aver chiacchierato, fatto il Karaoke e altre amenità che si fanno nelle feste dei trenta/quarantenni e dopo averci girato un po’ attorno mi chiese il numero di telefono. Glielo diedi, ripromettendomi tra me e me di chiedere informazioni su di lui a qualcuno dei miei amici che lo conoscesse.
Mi chiamò dopo due settimane con un invito ad andare a teatro a vedere uno spettacolo con Toni Servillo, uno dei miei attori preferiti. Si era informato, lui.
Accettai e andammo a teatro e poi a cena in un locale dove, evidentemente, lo conoscevano ma non mi feci troppe domande e pensai che in fondo tutto poteva essere cominciato e finire lì. Me ne convinsi ancora di più quando mi lasciò davanti al portone di casa con una stretta di mano.
Inaspettatamente mi chiamò il fine settimana successivo, dicendo che era stato fuori per lavoro e che gli sarebbe piaciuto rivedermi. Anche a me lui piaceva e quindi decidemmo di trascorrere il week end al mare.
Da quel momento ci siamo frequentati con assiduità. Mi corteggiò con costanza e delicatezza e sembrava conoscere tutti i miei punti deboli anticipando i miei desideri. Così venne il giorno in cui, mentre festeggiavamo il suo ingresso in un grosso studio di avvocati, decidemmo di mettere i nostri spazzolini da denti nello stesso bicchiere nel bagno di casa mia.
Accipicchia che fortuna, mi dicevo. Il primo anno fu bello, era piacevole tornare a casa e trovare la persona che ami ad aspettarti o aspettarla pregustandone la compagnia. Avevamo conservato però alcune delle nostre vecchie abitudini e continuavamo a frequentare, insieme o separati, i nostri vecchi amici.
Più o meno al secondo anno di convivenza una sera, mentre cenavamo, gli dissi che il venerdì successivo avrei partecipato ad una cena con i vecchi compagni di scuola del Liceo. Ridevo, mentre parlavo, pensando alle possibili trasformazioni fisiche che potevano aver avuto i miei ex compagni di scuola. Il ceffone arrivò improvviso, violento, facendo fare un quarto di giro alla mia testa che rimase così, girata, per qualche secondo.
Lo guardai mentre lacrime di incredulità e di dolore mi scendevano sulla guancia e il mio sguardo esprimeva una domanda. Lui continuava a mangiare senza guardarmi e dopo un po’, sempre guardando il suo piatto, mi disse: “vuoi andare alla cena per incontrare il tuo vecchio fidanzato? Scommetto che siete rimasti in contatto”.
Forse per il dolore, forse per la paura, forse perché lui sembrava davvero arrabbiato, invece di sorridere (per quello che mi consentiva il dolore) e ricorrere alla mia consueta ironia dicendo magari “quale dei miei tanti ex?” ho balbettato parole di scuse ( per cosa poi?) e sono rimasta seduta lì, inebetita.
Più tardi, a letto, lui mi si è avvicinato e mi accarezzava nel modo in cui io riconoscevo essere il preludio al fare l’amore, sussurrandomi parole dolci e scusandosi per aver “esagerato”.
Esagerato? Santiddio, nessuno mi aveva mai picchiata prima e mi è tornata in mente una donna che avevo incrociato ad una cena che, quando ha saputo che ero in coppia con lui, mi ha sussurrato “auguri”.
Non volevo fare l’amore con lui anzi, provavo repulsione, sentivo ancora bruciarmi la guancia e avevo una sensazione di nausea, ma l’ho fatto pensando che poi gli avrei spiegato che non avrei mai più tollerato quelle forme di violenza. In fondo siamo persone civili, educate, ragionevoli.
Lui si è placidamente addormentato subito dopo, io sono rimasta tutta la notte a pensare a come avrei potuto giustificare in ufficio, il giorno dopo, il livido sotto l’occhio.
Quell’episodio è stato il primo di una lunga serie di vessazioni psichiche e fisiche che hanno a poco a poco eroso le mie sicurezze e la mia indipendenza rendendo la mia vita un ottovolante di giorni, settimane, mesi di alti e bassi che dipendevano solo ed esclusivamente dal suo umore.
In ufficio ormai era diventato imbarazzante giustificare i lividi ricorrenti e quindi mi assentavo per i giorni necessari a far scomparire le prove della sua violenza e della mia ignavia. Sì mi sentivo debole e vigliacca e mi chiedevo ogni volta dove era finita la mia vera io e perché mi ostinavo a restare in questa relazione tossica. Avevo paura, sì, perché ormai conoscevo tutti i livelli della sua violenza fisica e verbale e aveva una capacità incredibile di farmi sentire sempre dalla parte del torto. Mi chiedevo se non derivasse dalla sua professione ma, comunque fosse, alla fine dei nostri scontri ero sempre io quella che chiedeva scusa con la coda tra le gambe.
Lei, la mia collega più anziana, aveva capito tutto. Mi guardava con compassione dal di sopra dei suoi occhialini da presbite e non diceva nulla. Finché un giorno in cui ero evidentemente fuori di me mi ha presa in disparte e mi ha detto: “ti stai lasciando fare a pezzi, senza rumore, da un vigliacco. Esci fuori da questa trappola, cerca dentro di te le risorse per riprenderti in mano la tua vita. Non sei sola”
Sono passati alcuni mesi, e siamo a ieri sera. Sembrava di buonumore e pensai che forse era il momento giusto per parlare della cena di Natale.
Non avevo neanche finito di parlare che ha sollevato la testa dal piatto, mi ha guardata come se avesse a che fare con una persona dura a capire si è alzato mi ha acchiappato per i capelli e sibilando un “allora non hai capito un cazzo…!” mi ha sbattuto contro lo stipite della porta poi, non contento, ha tirato via la tovaglia facendo cadere tutto quello che c’era sul tavolo.
Non so cosa sia successo nella mia testa, ma è stato come se avesse sbriciolato tutti miei ricordi di bambina legati al Natale, calpestato il ricordo dei miei nonni e quello proprio no, non potevo permetterglielo.
Stanotte ho dormito sul divano per evitare che mi chiedesse l’ennesima prestazione sessuale (ormai non potevo più parlare di fare l’amore) che, nella sua testa, suggellava la pace fatta.
Sono andata regolarmente in ufficio coperta, anche se solo parzialmente, da docchiali da sole. Ignorando tutti gli sguardi curiosi o di compatimento ho chiamato un fabbro e gli ho dato appuntamento per cambiare la serratura della porta del mio appartamento. Ho chiamato un’amica e le ho chiesto se poteva ospitarmi per qualche tempo. Nel mentre cambiavano la serratura ho riempito le valigie con tutta la sua roba e l’ho spedita con un fattorino al suo studio.
Poi sono tornata in ufficio e ho annunciato che avrei partecipato alla cena di Natale.